ha pronunciato la seguente

                              Sentenza

nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 9, terzo comma,
del  decreto  legislativo  del  Capo provvisorio dello Stato 4 aprile
1947,  n. 247  (rectius:  n. 207) (Trattamento giuridico ed economico
del  personale  civile non di ruolo in servizio nelle Amministrazioni
dello Stato), promosso con ordinanza del 26 luglio 2004 dal Tribunale
amministrativo  regionale  del  Lazio, sul ricorso proposto da Del Bo
Massimo  contro  il  Ministero della giustizia iscritta al n. 887 del
registro  ordinanze  2004 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica n. 45, 1ª serie speciale, dell'anno 2004;
    Visto  l'atto di costituzione di Del Bo Massimo nonche' l'atto di
intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
    Udito  nell'udienza  pubblica  del  29 novembre  2005  il giudice
relatore Luigi Mazzella;
    Uditi  l'avvocato  Guido  Rossi  per  Del Bo Massimo e l'avvocato
dello  Stato  Chiarina  Aiello  per  il  Presidente del Consiglio dei
ministri.

                          Ritenuto in fatto

    1. - Con ordinanza del 28 aprile 2004 il Tribunale amministrativo
regionale  del  Lazio  ha sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 36
della   Costituzione,   questione   di   legittimita'  costituzionale
dell'art. 9,    terzo    comma,    del    decreto   legislativo   del
Capo provvisorio  dello Stato 4 aprile 1947, n. 247 (rectius: n. 207)
(Trattamento giuridico ed economico del personale civile non di ruolo
in  servizio  nelle  Amministrazioni dello Stato), nella parte in cui
riserva  l'attribuzione dell'indennita' di fine rapporto spettante al
dipendente  non  di  ruolo  defunto  ai  soggetti  da  esso indicati,
escludendone,  in assenza di questi ultimi, la devoluzione secondo le
norme che disciplinano la successione mortis causa.
    2.  -  Il  giudice rimettente riferisce che, con ricorso proposto
contro il Ministero della giustizia, Massimo Del Bo aveva chiesto che
fosse  riconosciuto  il  suo  diritto a subentrare, nella qualita' di
successore  legittimo  in  quanto  cugino, e dunque parente di quarto
grado,  nell'indennita'  di  fine  rapporto  del defunto Mons. Cesare
Curioni,  che  in  vita  aveva  prestato  servizio  non di ruolo alle
dipendenze  del  Ministero di grazia e giustizia comecappellano e, in
seguito,  come  ispettore  generale  dei cappellani degli istituti di
prevenzione  e  di  pena,  dal  1948 al 12 gennaio 1996, data del suo
decesso.  Il  Ministero  della  giustizia aveva resistito al ricorso,
sostenendo  la legittimita' dell'operato dell'amministrazione in base
al  disposto  dell'art. 9  del d.lgs. C. p .S. 4 aprile 1947, n. 207.
Tale  norma  -  applicabile  ai  cappellani  ed  agli  ispettori  dei
cappellani in virtu' dell'art. 15, secondo comma, della legge 4 marzo
1982,  n. 68 (Trattamento giuridico ed economico dei cappellani degli
istituti di prevenzione e di pena) - nell'attribuire al personale non
di  ruolo  dello  Stato,  cessato dal servizio, un'indennita' di fine
rapporto,  al  terzo  comma  dispone  che  «nel  caso  di decesso del
dipendente  non  di  ruolo  l'indennita'  deve  essere corrisposta al
coniuge,  ai  figli  minorenni e, se vivevano a carico del dipendente
stesso, ai parenti entro il secondo grado».
    3.   -  Quanto  alla  rilevanza  della  questione,  il  Tribunale
amministrativo  regionale  osserva  che  la  disposizione  del citato
art. 9,  terzo  comma, e' ostativa all'accoglimento della pretesa del
ricorrente,   in   quanto   espressamente   limita   la   devoluzione
dell'indennita'  di  fine  rapporto ai soggetti ivi indicati e dunque
esclude  la sua attribuzione agli eredi legittimi o testamentari. Ne'
appare possibile un'interpretazione adeguatrice della disposizione.
    Quanto  alla  non  manifesta  infondatezza  della  questione,  il
rimettente  richiama  alcune decisioni di questa Corte (sentenze n. 8
del 1972, n. 471 del 1989, n. 319 del 1991 e, soprattutto, n. 106 del
1996),  secondo  le  quali  le  indennita'  di  buonuscita  o di fine
rapporto,  spettanti  anche  ai  dipendenti pubblici, hanno natura di
retribuzione differita con funzione previdenziale. Detto principio, a
giudizio  del  Tribunale  amministrativo  regionale,  postula  che le
indennita'  in  questione  siano gia' entrate a far parte, al momento
della   morte   del   lavoratore,  del  suo  patrimonio,  sicche'  ne
conseguirebbe    l'illegittimita'    costituzionale   di   tutte   le
disposizioni che, per qualsiasi ragione, privino gli aventi causa del
lavoratore delle indennita' di fine rapporto. Il rimettente, inoltre,
sottolinea  che  le  differenze di trattamento tra lo stato giuridico
del  personale di ruolo, al quale si riferisce la sentenza n. 106 del
1996,  e  quello del personale non di ruolo, tra cui rientra il dante
causa  del  ricorrente,  non  sono  tali  da influire sul trattamento
giuridico da applicare all'indennita' di fine rapporto.
    4.  -  Si  e'  costituito  il ricorrente, deducendo che l'art. 15
della   legge  n. 68  del  1982,  espressamente  stabilisce  che  «ai
cappellani  e  all'ispettore dei cappellani e' dovuta l'indennita' di
fine  rapporto  prevista  dall'art. 9  del  decreto  legislativo  del
Capo provvisorio dello Stato 4 aprile 1947, n. 207»; che in ogni caso
la  citata  sentenza  della  Corte  n. 106  del  1996  fa riferimento
indistintamente  a tutti dipendenti civili dello Stato, a prescindere
dalla  loro  posizione di ruolo o non di ruolo; che inoltre lo stesso
art. 1,  quarto  comma,  del  d.P.R. 29 dicembre 1973, n. 1032 (Testo
unico  delle  norme  sulle  prestazioni  previdenziali  a  favore dei
dipendenti   civili   e   militari  dello  Stato),  precisa  che  «le
disposizioni  concernenti  i  dipendenti civili si applicano anche al
personale  non  di  ruolo».  Aggiunge  poi  che la natura retributiva
dell'indennita'  prevista  a  favore  dei  dipendenti pubblici non di
ruolo  dalla  norma  impugnata  e'  stata da ultimo riaffermata dalla
decisione del Consiglio di Stato, sez. V, 13 gennaio 1999, n. 21.
    Con  successiva  memoria, infine, il ricorrente ha dedotto che la
tendenza  evolutiva della giurisprudenza costituzionale ha anticipato
le  linee  direttrici  della  riforma introdotta dalla legge 8 agosto
1995,  n. 335  (Riforma  del  sistema  pensionistico  obbligatorio  e
complementare),  il  cui  art. 2,  comma 5,  ha  disposto  che  per i
lavoratori   assunti   dal  1° gennaio  1996  alle  dipendenze  delle
amministrazioni  pubbliche  di cui all'art. 1 del decreto legislativo
3 febbraio  1993  n. 29  (Razionalizzazione dell'organizzazione delle
amministrazioni  pubbliche e revisione della disciplina in materia di
pubblico  impiego,  a  norma  dell'articolo 2  della legge 23 ottobre
1992,  n. 421),  i trattamenti di fine servizio, comunque denominati,
sono  regolati  in  base  a quanto previsto dall'art. 2120 del codice
civile  in  materia  di  trattamento  di fine rapporto. Il ricorrente
cita,  infine,  la sentenza n. 243 del 1997, nella quale questa Corte
ha  affermato  il  principio  della connotazione unitaria delle varie
categorie  di  indennita'  di  fine  rapporto  -  pur se governate da
diversi   meccanismi   di  provvista  e  di  erogazione  dei  singoli
trattamenti   -   e   la   conseguente   necessita'   di   dichiarare
l'illegittimita'  di  quelle  norme  che,  in  assenza  delle persone
beneficiarie  indicate,  non  consentono  l'applicazione delle regole
delle successioni di cui al codice civile.
    5.  -  E' intervenuto in giudizio il Presidente del Consiglio dei
ministri,  per  il  tramite  dell'Avvocatura  generale  dello  Stato,
sostenendo    la    manifesta   infondatezza   della   questione   di
costituzionalita',  sul  presupposto  della  diversa natura giuridica
dell'indennita'  di  buonuscita  e  del trattamento di fine rapporto.
Secondo    l'Avvocatura    erariale,    la    differente   disciplina
dell'indennita'  di  buonuscita,  la quale comporta il versamento, da
parte  del  datore  di lavoro, di un contributo, in maniera del tutto
simile  a  quanto  avviene  per la pensione, rifletterebbe la diversa
natura  giuridica  dell'indennita' di buonuscita e del trattamento di
fine  rapporto  e  determinerebbe l'inapplicabilita' alla prima della
citata giurisprudenza costituzionale.
    Con  successiva  memoria  l'Avvocatura  erariale ha ulteriormente
sviluppato le argomentazioni gia' esposte in precedenza.

                       Considerato in diritto

    1.  - Il Tribunale amministrativo regionale del Lazio propone, in
relazione  agli  articoli 3  e  36  della  Costituzione, questione di
legittimita'  costituzionale  dell'art. 9,  terzo  comma, del decreto
legislativo  del  Capo provvisorio dello Stato 4 aprile 1947, n. 207,
nella  parte  in  cui  riserva la devoluzione dell'indennita' di fine
rapporto  spettante al dipendente non di ruolo defunto ai soggetti da
essa  indicati,  ovvero  al  coniuge, ai figli minorenni e ai parenti
entro il secondo grado solo se viventi a carico del dipendente stesso
ed esclude pertanto che essa, in difetto di tali soggetti, si devolva
secondo  le  norme  che  disciplinano la successione mortis causa. Il
giudice  rimettente  si  duole  che la norma censurata sia lesiva del
principio   di   uguaglianza,   per  l'ingiustificata  disparita'  di
trattamento  che essa determina per i dipendenti statali non di ruolo
rispetto  ai  lavoratori subordinati privati, i dipendenti statali di
ruolo  ed i dipendenti degli enti locali. Il Tribunale amministrativo
regionale   si   duole   inoltre  della  lesione  dell'art. 36  della
Costituzione  perche'  una  simile  disciplina  di un istituto avente
natura  retributiva  priverebbe gli aventi causa del lavoratore della
disponibilita' di una parte della retribuzione.
    2.  -  La  questione e' rilevante nel giudizio a quo, dato che la
sentenza  additiva  invocata  dal  Tribunale amministrativo regionale
imporrebbe  la  devoluzione  al  ricorrente,  cugino  del  de  cuius,
dell'indennita'  di  fine  rapporto;  devoluzione che invece, in base
all'attuale formulazione della norma, deve essere esclusa.
    3. - La questione e' fondata.
    Questa Corte, in diverse pronunce, ha avuto modo di affrontare il
problema  della  natura giuridica delle indennita' di fine rapporto e
della  applicabilita'  alle  stesse  delle  regole  sulla successione
mortis  causa,  intervenendo  sia  nell'ambito del rapporto di lavoro
privato  (sentenza  n. 8 del 1972, che ha riconosciuto il diritto del
dipendente  di  disporre per testamento dell'indennita' di anzianita'
di  cui all'art. 2120 del codice civile) sia nell'ambito del pubblico
impiego statale (sentenza n. 106 del 1996) sia in quello del rapporto
di  lavoro con gli enti locali (sentenze n. 319 del 1991 e n. 471 del
1989).
    In  tali  pronunce,  per  tutte  le  diverse  indennita'  di fine
rapporto di volta in volta esaminate, anche se variamente denominate,
si e' statuito che gli emolumenti comunque riconosciuti al lavoratore
alla  fine  del  rapporto  abbiano natura di retribuzione differita a
fini  previdenziali  e  che  di  conseguenza  tali indennita' debbano
ritenersi  gia'  entrate a far parte del patrimonio del dipendente al
momento   della   sua   morte,   analogamente   a   quanto   disposto
dall'articolo 2122  cod.  civ. Corollario di tale principio e' che le
stesse  indennita',  in mancanza dei soggetti legittimati individuati
dalla   legge,  debbano  devolversi  agli  eredi  secondo  le  regole
successorie.
    Inoltre, molte pronunce di questa Corte, concernenti i dipendenti
non  di  ruolo (sentenze n. 156 del 1973; n. 116 del 1976; n. 236 del
1974 e n. 208 del 1986), hanno sottolineato la progressiva perdita di
importanza,  nella  recente  evoluzione  normativa ed interpretativa,
della  distinzione  tra  impiego  di ruolo e impiego non di ruolo. Si
deve  ritenere  ormai  pacifico che anche per l'impiego non di ruolo,
disciplinato  in  modo  organico dal d.lgs. C. p. S. n. 207 del 1947,
presentando   i   caratteri   essenziali   del   rapporto  di  lavoro
subordinato,  non  v'e'  ragione  di  escludere  la  spettanza  delle
medesime  voci  retributive  riconosciute  ai  lavoratori del settore
privato  ed ai dipendenti pubblici di ruolo. E cio' vale anche per il
rapporto  di lavoro dei cappellani militari, disciplinato dalla legge
4 marzo   1982,   n. 68   (Trattamento  giuridico  ed  economico  dei
cappellani degli istituti di prevenzione e di pena).
    L'evoluzione  della  giurisprudenza  costituzionale  in  subiecta
materia  deve  dunque  far considerare superata la risalente sentenza
n. 179  del  1970,  relativa alla devoluzione dell'indennita' di fine
rapporto  per  i  dipendenti non di ruolo. In essa, pur aderendosi al
principio precedentemente affermato della natura mista, retributiva e
previdenziale,  di tale indennita' (sentenze n. 75 e n. 112 del 1968)
era  stata  dichiarata  infondata  la  questione di costituzionalita'
dell'art. 9, terzo comma del d.lgs. C. p. S. n. 207 del 1947.
    Il  superamento del precedente indirizzo discende anche dal fatto
che,  gia'  a  partire  dalla sentenza n. 8 del 1972, questa Corte ha
sempre  affermato il principio in base al quale le indennita' di fine
rapporto,  proprio  per la loro natura mista, entrano a far parte del
patrimonio  del  lavoratore prima della sua morte e spettano pertanto
agli  eredi  non  iure  proprio  ma  iure  hereditario. Le successive
sentenze hanno ripetutamente confermato tale assunto.
    In  particolare,  con  le  sentenze  n. 106 del 1996 e n. 243 del
1997,  questa  Corte ha esplicitato la portata sistematica e generale
del   principio  della  trasmissibilita'  delle  indennita'  di  fine
rapporto,   riconoscendo  a  tutti  questi  trattamenti,  in  stretta
analogia  con  quelli  del  settore  privato, «l'essenziale natura di
retribuzione  differita,  pur  se  legata ad una concorrente funzione
previdenziale»  (sentenze  n. 243  e n. 99 del 1993, n. 439 del 1992,
n. 63  del  1992, n. 319 del 1991 e n. 471 del 1989) e precisando che
«tutte  le  indennita'  di fine rapporto, invero, costituiscono parte
del  compenso  dovuto  per  il lavoro prestato, la cui corresponsione
viene  differita - appunto in funzione previdenziale - onde agevolare
il superamento delle difficolta' economiche che possono insorgere nel
momento  in cui viene meno la retribuzione. Tant'e' che la misura del
trattamento  si  determina  in  proporzione  alla  durata  del lavoro
prestato  nonche' alla globale retribuzione di carattere continuativo
spettante al dipendente».
    Con  le  richiamate sentenze, e' stato altresi' affermato che «la
connotazione  unitaria,  in  termini  di  natura e di funzione, delle
varie   categorie   di  indennita'  di  fine  rapporto  -  nonostante
l'esistenza  di  diverse regolamentazioni riguardanti i meccanismi di
provvista,  nonche'  i  soggetti  gravati  dall'onere  contributivo e
quelli  tenuti  ad  erogare  il  trattamento  - consente una generale
applicazione  a  qualsiasi tipo di rapporto di lavoro subordinato dei
relativi  principi  informatori della materia (sent. nn. 243 e 99 del
1993)» e che la concorrente funzione previdenziale dell'indennita' di
fine  rapporto, in assenza dei soggetti, a favore dei quali opera una
riserva   legale   di   destinazione,   perde   qualunque  rilevanza,
espandendosi   in   tutta   la  sua  portata  la  natura  retributiva
dell'indennita' stessa.
    In  conclusione, la connotazione unitaria, per natura e funzione,
delle  varie  categorie  di  indennita'  di  fine  rapporto, anche se
governate  da  diversi  sistemi  di finanziamento e di erogazione dei
singoli  trattamenti, impone di dichiarare l'illegittimita' di quelle
norme   che   non  consentono  l'applicabilita'  delle  regole  della
successione  mortis  causa.  La  progressiva  caducazione di tutte le
norme  limitative dell'attribuzione iure successionis dell'indennita'
di  fine  rapporto per tutte le varie tipologie di lavoro subordinato
sottolinea la singolarita' della situazione denunciata dal rimettente
ed  evidenzia  ancor  piu'  il vulnus dell'art. 3 della Costituzione.
Difatti,  la  disparita'  di  trattamento  nella  disciplina  di fine
rapporto  riservata  dalla  legge al dipendente non di ruolo rispetto
agli  altri dipendenti e' palese con riguardo a qualsiasi rapporto di
lavoro, sia pubblico che privato.
    Deve  dunque  essere  dichiarata  l'illegittimita' costituzionale
dell'art. 9,  terzo comma, del d.lgs. C. p. S. n. 207 del 1947, nella
parte  in  cui non prevede, in mancanza dei soggetti ivi indicati, la
devoluzione  dell'indennita' di fine rapporto spettante al dipendente
non di ruolo defunto, secondo le regole della successione legittima e
testamentaria.