IL TRIBUNALE

    Nel   procedimento   iscritto   al   n. 3087/2000   R.G.  giudice
dell'indagine  preliminare (al quale e' stato riunito il procedimento
iscritto  al n. 3321/2004 R.G. (g.i.p.) a carico di Somma Faustino ed
altri;
    All'udienza del 1° giugno 2005;
    Sull'eccezione  di  illegittimita' costituzionale dell'art. 1 del
decreto  legislativo  n. 61  del 2002 sollevata dalla pubblica accusa
con riferimento agli articoli 11 e 117 della Costituzione;
    Sentita  la  difesa  e letta la memoria difensiva depistata dagli
imputati, i quali hanno dedotto la inammissibilita', la irrilevanza e
la  manifesta  infondatezza  della questione prospettata dal pubblico
ministero;

                            O s s e r v a

    Il  pubblico ministero dubita della conformita' alla Costituzione
(in  particolare  alle  norme  dettate  dagli articoli 11 e 117 della
Costituzione) dell'art. 1 del decreto legislativo n. 61 del 2002 (che
ha  riformulato  il  reato  di  falso  in  bilancio previsto e punito
dall'art. 2621   del   codice   civile)   nella  parte  in  cui,  nel
disciplinare  la  nuova  fattispecie  di cui all'art. 2622 del codice
civile, al comma quinto, prevede «la punibilita' per i fatti previsti
ai  commi 1 e 3 e' esclusa se la falsita' o le omissioni non alterano
in  modo  sensibile  la  rappresentazione della situazione economica,
patrimoniale  o finanziaria della societa' o del gruppo al quale essa
appartiene  o  comunque  determinano  una  variazione  del  risultato
economico  di  esercizio  al lordo delle imposte non superiore al 5%.
Per  la  determinazione  di tale soglia non si tiene conto del limite
previsto  per  le  valutazioni estimative dal comma successivo» nella
parte  in  cui, al sesto comma, prevede che «in ogni caso i fatti non
sono   punibili   se   conseguenza   di  valutazioni  estimative  che
singolarmente considerate differiscono in misura non superiore al 10%
da quella corretta» e nella parte in cui, al primo comma, prevede, in
relazione  al  reato  di  falso  in bilancio di cui all'art. 2622 del
codice  civile  (consumato  nell'ambito delle societa' non quotate in
borsa), «la reclusione da sei mesi a tre anni».
    Sostiene  la pubblica accusa che la nuova disciplina del reato di
false  comunicazioni sociali introdotta dal decreto legislativo n. 61
del  2002  sarebbe  in  contrasto  con i principi dettati dal diritto
comunitario  in  materia di diritto societario e, in particolare, con
il principio sancito dall'art. 6 della direttiva del Consiglio Unione
europea  del  9 marzo 1968, n. 68/151/CEE (denominata prima direttiva
sul  diritto  societario),  che  impone  agli Stati membri delIUnione
europea  di  prevedere  sanzioni  adeguate  per  l'ipotesi di mancata
pubblicazione del bilancio e del conto profitti e perdite.
    Il  pubblico  ministero parte dal presupposto che l'obbligo degli
Stati  membri della comunita' europea di introdurre sanzioni adeguate
per  reprimere  la  mancata  pubblicazione  del  bilancio e del conto
profitti  e  perdite  consacrato  nell'art.  6  della prima direttiva
comunitaria  sul  diritto  societario  trovi  applicazione  anche nel
diverso  caso  in cui il bilancio venga effettivamente presentato, ma
contenga  una  falsa  rappresentazione  della  situazione  economica,
patrimoniale o finanziaria della societa'.
    Tale   interpretazione  ha  trovato  di  recente  conferma  nella
sentenza  adottata  in  data  3  maggio 2005 dalla Corte di giustizia
della  Comunita'  europea  che,  investita  dal Tribunale di Milano e
dalla  Corte di appello di Lecce della questione interpretativa della
direttiva  n. 68/151/CEE,  oltre  che  della  quarta  e della settima
direttiva  sul diritto societario, nei procedimenti riuniti C1/28209;
387/2002,  C1/28209; 391/2002 e C1/28209; 403/2002, ha chiarito - pur
essendosi  arrestata  ad  una  pronuncia  di  rito  - che «per quanto
riguarda  il  regime  sanzionatorio  previsto dall'art. 6 della prima
direttiva   sul   diritto   societario,   la   formulazione  di  tale
disposizione fornisce di per se' un indizio nel senso che tale regime
deve  essere  inteso come concernente non solo i casi di un'omissione
di  qualsiasi  pubblicita'  dei conti annuali, ma anche quelli di una
pubblicita'   di   conti   annuali  non  redatti  conformemente  alle
disposizioni  previste  dalla quarta direttiva sul diritto societario
relativamente  al  contenuto  di  tali  conti» e che «l'art. 6 non si
limita  a  prevedere  l'obbligo  per  gli  Stati  membri di stabilire
sanzioni  adeguate per mancata pubblicazione del bilancio e del conto
profitti  e  perdite,  ma prevede un obbligo di tale tipo per mancata
pubblicazione  di  tali  documenti come prescritta dall'art. 2, n. 1,
lettera  f)  della  prima  direttiva  sul diritto societario.. che fa
espresso riferimento all'armonizzazione prevista dalle norme relative
al contenuto dei conti annuali».
    Occorre,  pertanto, esaminare nel merito la questione prospettata
dal   pubblico  ministero  e  valutare  se  effettivamente  la  nuova
disciplina  del  reato  di false comunicazioni sociali introdotta dal
decreto  legislativo  n. 61  del  2002 sia in contrasto con l'obbligo
sancito  dall'art. 6  della  prima  direttiva comunitaria sul diritto
societario  a  carico degli Stati membri e, in caso di esito positivo
della  suddetta verifica, individuare le conseguenze della violazione
del  diritto  comunitario  ad  opera  del  legislatore  statale,  con
particolare riferimento alla possibilita', prospettata dalla pubblica
accusa,  di  investire  la Corte costituzionale della decisione sulla
conformita'  alla  Costituzione  della norma riconosciuta configgente
con la disciplina comunitaria.
    Il  decreto legislativo n. 61 del 2002 (disciplina degli illeciti
penali e amministrativi riguardanti le societa' commerciali), emanato
in  attuazione  della delega contenuta nella legge n. 366 del 2001 ed
entrato  in  vigore il 16 aprile 2002, ha sostituito il titolo XI del
libro  V  del  codice  civile, introducendo nuove disposizioni penali
incriminatrici  della  presentazione  di false comunicazioni sociali:
l'art. 2621  del  codice  civile  (false  comunicazioni sociali), che
prevede  un  reato  contravvenzionale  (procedibile  di  ufficio) per
l'ipotesi  di  falsificazioni senza danno patrimoniale, e l'art. 2622
del  codice  civile  (false  comunicazioni  in  danno  dei soci e dei
creditori),  che  punisce,  quale  ipotesi  delittuosa perseguibile a
querela  (salvo  nel  caso  in  cui  si tratti di societa' quotate in
borsa), la condotta di falsificazione del bilancio, delle relazioni e
delle  altre  comunicazioni  sociali previste dalla legge, dirette ai
soci o al pubblico, dalla quale sia derivato un danno patrimoniale ai
soci o ai creditori.
    Agli   attuali   imputati   e'   contestato  il  reato  di  false
comunicazioni  sociali  disciplinato dall'art. 2622 del codice civile
e, pertanto, la valutazione della conformita' al principio consacrato
nell'art. 6  della prima direttiva sul diritto societario deve essere
circoscritta alla disciplina dettata per tale ipotesi di reato.
    L'art. 2622 del codice civile prevede la pena della reclusione da
sei  mesi  a  tre  anni  a carico degli amministratori, dei direttori
generali,  dei  sindaci  e  dei  liquidatori che, con l'intenzione di
ingannare  i soci o il pubblico e al fine di conseguire per se' o per
altri  un  ingiusto  profitto,  nei  bilanci, nelle relazioni o nelle
altre  comunicazioni  sociali previste dalla legge, dirette ai soci o
al  pubblico, cagionano un danno patrimoniale ai soci o ai creditori,
esponendo  fatti materiali non rispondenti al vero, ancorche' oggetto
di valutazioni, oppure omettendo informazioni la cui comunicazione e'
imposta  dalla  legge  sulla  situazione  economica,  patrimoniale  o
finanziaria  della  societa' o del gruppo alla quale essa appartiene,
in  modo  idoneo  ad  indurre  in errore i destinatari sulla predetta
situazione.
    Il  quinto  comma  dell'art. 2622  del  codice  civile esclude la
punibilita'  se  la  falsita'  o  le  omissioni  non alterano in modo
sensibile    la    rappresentazione   della   situazione   economica,
patrimoniale  o finanziaria della societa' o del gruppo al quale essa
appartiene  o  comunque  determinano  una  variazione  del  risultato
economico  di esercizio al lordo delle imposte non superiore al 5% ed
il  sesto comma dell'art. 2622 del codice civile prevede che, in ogni
caso,  il  fatto  non  e'  punibile  se  conseguenza  di  valutazioni
estimative che, singolarmente considerate, differiscono in misura non
superiore  al  10%  da quella corretta. Ritiene questo giudice che il
regime  sanzionatorio  previsto dall' art. 2622 del codice civile per
il   reato   in  relazione  al  quale  si  procede  non  presenti  le
caratteristiche  che,  a  norma dell'art. 6 della prima direttiva sul
diritto  societario,  deve  avere  la sanzione diretta a reprimere la
omessa  o  falsa  pubblicazione  del  bilancio e del conto profitti e
perdite   in   termini   di   efficacia,  di  proporzionalita'  e  di
dissuasivita'.
    L'art. 6  della  direttiva  n. 68/151/CEE  (prima  direttiva  sul
diritto   societario),  infatti,  stabilisce  che  gli  Stati  membri
stabiliscono  adeguate sanzioni per i casi di mancata pubblicita' del
bilancio  e del conto profitti e perdite come prescritta dall'art. 2,
paragrafo 1, lettera f).
    Se  adeguata  e'  la pena proporzionata ed efficace in termini di
dissuasivita'  che - in conformita' con il suo fondamento retributivo
e  la  sua finalita' di prevenzione generale e speciale - in concreto
rappresenti  un  congruo  corrispettivo  del fatto illecito commesso,
determinato  in relazione alla gravita' del reato e dell'offesa ed al
rango  dei  beni  tutelati  dalla  norma  incriminatrice  secondo  la
gerarchia desumibile dalla Costituzione, e in concreto risulti idonea
a  scoraggiare  la  reiterazione  di comportamenti configgenti con la
norma  penale,  tale  non puo' essere considerata la pena edittale da
sei  mesi a tre anni di reclusione prevista dall'art. 2622 del codice
civile  per il reato di false comunicazioni sociali in danno dei soci
e dei creditori.
    A fronte di un reato plurioffensivo come quello che ci occupa, il
quale  lede  non  soltanto  l'interesse  patrimoniale  dei soci e dei
creditori  sociali,  ma  anche  l'interesse  dei  terzi  ed  il  loro
affidamento   circa  una  fedele  rappresentazione  della  situazione
economica,  patrimoniale  e  finanziaria  della  societa', non appare
idonea a soddisfare adeguatamente il parametro della corrispettivita'
-  che  non soltanto costituisce il limite logico del potere punitivo
dello  Stato  di  diritto,  ma  persegue anche una finalita' generale
preventiva  -  una  pena che non supera il limite edittale massimo di
tre  anni  di reclusione e che, di conseguenza, non soltanto consente
l'accesso al rito alternativo al dibattimento dell'applicazione della
pena  su  richiesta  dell'imputato,  ma  di  regola,  in  difetto  di
precedenti penali e con il riconoscimento delle attenuanti generiche,
e'  destinata  ad  essere  condizionalmente sospesa e una pena la cui
applicazione,  comunque,  e esclusa in tutti i casi in cui non si sia
verificata,  quale conseguenza della condotta illecita, una sensibile
alterazione   della   rappresentazione  della  situazione  economica,
patrimoniale  e finanziaria della societa' oppure non venga accertato
il   superamento   di   soglie   di  tolleranza  espresse  in  valori
percentuali,  come  se  per  ledere  il bene-interesse tutelato dalla
norma   incriminatrice,   rappresentato  anche  dall'affidamento  dei
creditori  e  dei  terzi  in una fedele riproduzione della situazione
patrimoniale  della  societa',  non  sia  di  per  se' sufficiente la
semplice intenzionale falsificazione dei dati contabili.
    Quanto  alla  efficacia  dissuasiva  della  pena, che deve essere
valutata  con  riferimento  non soltanto al tipo ed alla misura della
sanzione,  ma  anche  alla  probabilita'  che  la stessa possa essere
irrogata  in  concreto,  nel  caso  di specie la pena prevista per il
reato  di  false  comunicazioni  non  appare  idonea a scoraggiare la
violazione  del  precetto  penale:  a  fronte  di  un limite edittale
massimo  di  tre anni, il termine di prescrizione del reato, anche in
presenza  di  atti  interruttivi,  appare  eccessivamente breve e, di
conseguenza,  inidoneo  ad  assicurare  la  punizione  dei colpevoli,
tenendo  conto  non soltanto della particolare struttura del reato di
cui si discute, ma anche della complessita' delle indagini necessarie
per  il suo accertamento, oltre che delle garanzie che caratterizzano
il  sistema  processuale vigente e che determinano inevitabilmente un
allungamento  dei  tempi  necessari  per  giungere  ad  una pronuncia
irrevocabile.
    Infatti,  il  delitto di false comunicazioni sociali in danno dei
soci  e  dei  creditori  si consuma con il deposito del bilancio e da
quel momento inizia a decorrere il termine di prescrizione del reato,
che,  alla  luce  della  nuova  disciplina, e' di sette anni e mezzo:
considerato  che  la  notitia  criminis di regola non viene acquisita
immediatamente  dopo  la  pubblicazione  del bilancio, ma soltanto in
seguito   a   verifiche   ispettive,  considerato  che  non  soltanto
l'attivita'  di indagine, ma anche quella di acquisizione della prova
in  dibattimento  presuppongono  l'esame  di copiosa documentazione e
l'espletamento di complesse consulenze contabili (rese indispensabili
dalla   previsione   di  soglie  di  tolleranza  espresse  in  valori
percentuali),    con    un    inevitabile    allungamento   dell'iter
procedimentale,  e  considerato,  infine,  che il procedimento penale
presuppone   il   rispetto  di  una  serie  di  garanzie  che  dilata
necessariamente  i tempi di definizione del giudizio, di regola passa
attraverso tutti e tre i gradi di giudizio e rientra nella cognizione
del   giudice   collegiale,   con  la  conseguente  necessita'  della
celebrazione  dell'udienza preliminare, appare estremamente difficile
che  il reato di false comunicazioni sociali di cui all'art. 2622 del
codice  civile venga accertato e punito con sentenza irrevocabile nel
rispetto  del  termine  di  prescrizione  di  sette  anni e mezzo dal
momento della sua consumazione.
    Alla  luce  delle  considerazioni  che  precedono, ritiene questo
giudice  che,  tenendo  conto  della  scarsa  efficacia retributiva e
dissuasiva  riconducibile  al  regime  sanzionatorio  previsto per il
reato di false comunicazioni in danno dei soci e dei creditori punito
dall'art. 2622  del  codice  civile,  non  si  possa  riconoscere  la
congruenza  della  riformulazione  del  reato  di  falso  in bilancio
introdotta  da  decreto  legislativo  n. 61 del 2002 con il principio
della  adeguatezza  della sanzione consacrato nell'art. 6 della prima
direttiva  comunitaria  sul  diritto  societario  per l'ipotesi della
omessa  pubblicazione del bilancio o della esposizione in bilancio di
una situazione economica e patrimoniale non corrispondente al vero.
    Quanto  alle  conseguenze che sono riconducibili alla violazione,
ad  opera  del  legislatore  statale,  del precetto consacrato in una
direttiva  comunitaria,  la  circostanza che la Corte giustizia della
Comunita'   europea  abbia  escluso  la  diretta  operativita'  della
suddetta  direttiva, in quanto tale, all'interno dello Stato italiano
(non   potendo   avere  una  direttiva  come  effetto,  di  per  se',
indipendentemente   da   una   legge  interna  adottata  per  la  sua
attuazione,  di  determinare  o  aggravare  la responsabilita' penale
degli   imputati)   non   implica  di  per  se'  la  irrilevanza  del
riconosciuto conflitto.
    La Corte costituzionale in piu' occasioni ha escluso che le norme
derivanti   da   atti   normativi  della  comunita'  europea  possano
costituire  parametro  nei giudizi di sua competenza, sul presupposto
che  le  stesse,  pur  potendo  derogare  a  norme  interne  di rango
costituzionale,  appartengono  ad  un  ordinamento distinto, anche se
coordinato, rispetto a quello interno e, pertanto, non possono essere
qualificate  come  atti  interni  aventi  valore  costituzionale alla
stregua  dell'ordinamento  nazionale (Corte costituzionale n. 232 del
1989 e n. 117 del 1994): pertanto, in caso di conflitto fra una norma
interna  preesistente  o  successiva ed una direttiva comunitaria non
potra'  essere  sollevata  questione  di  legittimita' costituzionale
utilizzando quale parametro di valutazione la norma comunitaria.
    Ritiene,  pero', questo giudice che il rinvio pattizio al diritto
comunitario  implicitamente contenuto nell'art. 11 della Costituzione
ed  il vincolo per il legislatore statale al rispetto della normativa
comunitaria   contenuto   nell'art. 117   della   Costituzione  (come
sostituito  dall'art. 3  della  legge  costituzionale  n. 3 del 2001)
consentano  di  utilizzare quali norme costituzionali di riferimento,
per  verificare  la  legittimita' della legge statale configgente con
una  direttiva  comunitaria,  proprio  l'art.  11  e l'art. 117 della
Costituzione.
    L'art. 117  della Costituzione (cosi' come sostituito dall'art. 3
della  legge  costituzionale  n. 3  del 2001) stabilisce che lo Stato
esercita  la  potesta'  legislativa  nel rispetto della Costituzione,
nonche'  dei  vincoli  derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli
obblighi internazionali.
    L'art.   11  della  Costituzione  stabilisce  che  l'Italia  ....
consente,  in  condizioni  di  parita'  con  gli  altri  Stati,  alle
limitazioni  di  sovranita' necessarie ad un ordinamento che assicuri
la pace e la giustizia fra le nazioni.
    L'adozione  della  legge  di  esecuzione  del  Trattato  di  Roma
istitutivo  della  Comunita'  europea  -  in  attuazione  della norma
dettata  dall'art.  11  della  Costituzione e del rinvio patrizio ivi
contenuto - ha determinato il trasferimento agli organi comunitari di
competenze  normative  nelle  materie  agli stessi riservate e, quale
conseguenza della sottostante limitazione della sovranita' nazionale,
ha   consentito   che  atti  normativi  appartenenti  all'ordinamento
comunitario  producano effetti direttamente nell'ordinamento interno,
senza  che la sfera della loro efficacia possa essere intaccata dalla
legge ordinaria dello Stato eventualmente incompatibile.
    L'art. 249  del Trattato istitutivo della Comunita' europea (gia'
art. 189  del  testo  originario)  prevede che per l'assolvimento dei
loro  compiti  e alle condizioni contemplate dal presente Trattato il
Parlamento  europeo  congiuntamente con il Consiglio e la Commissione
adottano   regolamenti  e  direttive,  prendono  decisioni  formulano
raccomandazioni o pareri.
    Il regolamento ha portata generale. Esso e' obbligatorio in tutti
i  suoi  elementi  e direttamente applicabile in ciascuno degli Stati
membri.
    La  direttiva  vincola  lo Stato membro cui e' rivolta per quanto
riguarda  il  risultato  da raggiungere, salva restando la competenza
degli organi nazionali in merito alla forma e ai mezzi.
    Posta   la   immediata   e  diretta  applicabilita'  delle  norme
comunitarie  contenute  nei  Regolamenti  sancita  espressamente  dal
Trattato,  con  riferimento  all'ipotesi  di  contrasto fra una norma
interna    ed    un   regolamento   comunitario   la   giurisprudenza
costituzionale  e'  pervenuta  alla  conclusione  che  il regolamento
comunitario  e'  sempre  e subito applicato dal giudice italiano, che
considerera'  tamquam  non  essent  le configgenti disposizioni della
legge  interna,  anteriori  o  successive  all'adozione  della  norma
comunitaria,   e   le  disapplichera'  nella  regolamentazione  della
fattispecie  concreta  (Corte costituzionale n. 170 del 1984 e n. 168
del 1991).
    Il  riconoscimento della immediata e diretta applicabilita' delle
norme  comunitarie  nell'ordinamento  interno  degli  Stati membri e'
stato, poi, esteso dalla giurisprudenza comunitaria e costituzionale,
in presenza di determinate condizioni, anche alle «direttive, purche'
self executing, cioe' contenenti prescrizioni incondizionate (tali da
non  lasciare  alcun  margine  di  discrezionalita' agli Stati membri
nella  loro  attuazione) e sufficientemente precise (nel senso che la
fattispecie  astratta  ivi  prevista  ed il contenuto del precetto ad
essa applicabile devono essere determinati con compiutezza in tutti i
loro elementi).
    Nel  caso  di  specie  l'art. 6 della prima direttiva sul diritto
societario  senza  dubbio  non  puo'  ricevere  immediata  e  diretta
applicazione    nell'ordinamento    nazionale   in   primis   perche'
dall'applicazione  di una direttiva comunitaria non puo' mai derivare
di  per se' - indipendentemente dall'adozione di una legge interna di
attuazione    -    un aggravamento   della   responsabilita'   penale
dell'imputato  (ragione  che  ha  indotto  la  Corte  di giustizia ad
arrestarsi ad una pronuncia di rito all'esito del procedimento in cui
era  stata  investita  della questione interpretativa della direttiva
che  ci  occupa  sollevata  dai giudici nazionali) e, poi, perche' si
tratta di una norma programmatica che non presenta le caratteristiche
strutturali  individuate dalla costante giurisprudenza della Corte di
giustizia  e  della  Corte costituzionale per il riconoscimento della
diretta   applicabilita'   delle  direttive  comunitarie  all'interno
dell'ordinamento nazionale.
    Infatti,  il precetto contenuto nell'art. 6 della prima direttiva
sul   diritto   societario   non  prevede  una  fattispecie  astratta
determinata  con  compiutezza  in tutti i suoi elementi e soprattutto
lascia  allo  Stato membro un certo margine di discrezionalita' nella
scelta degli strumenti per la sua attuazione.
    Ne  consegue  che - esclusa la immediata operativita' dell'art. 6
della   prima   direttiva  sul  diritto  societario  nell'ordinamento
nazionale  ed  esclusa la possibilita' di disapplicazione della norma
riconosciuta  con  essa  confliggente -  la ritenuta violazione della
norma    programmatica    contenuta   nell'art. 6   della   direttiva
n. 68/151/CEE  ad  opera  della legge interna di riforma del reato di
falso  in  bilancio puo' assumere rilevanza soltanto sotto il diverso
profilo  della  lesione,  da  parte  del  legislatore  italiano,  del
principio costituzionale consacrato nell'art. 11 della Costituzione -
che  vincola  lo  Stato  al  rispetto  degli  impegni  assunti con la
adesione  alla Comunita' europea e la conseguente accettazione di una
compressione   della   propria  potesta'  legislativa  nelle  materie
riservate alla competenza sovranazionale degli organi comunitari -, e
sotto il profilo della violazione della norma contenuta nell'art. 117
della  Costituzione  (cosi'  come  sostituito dall'art. 3 della legge
costituzionale  n. 3  del  2001), che prevede espressamente l'obbligo
dello Stato e delle Regioni di esercitare la potesta' legislativa nel
rispetto dei vincoli derivanti dalla normativa comunitaria.
    Riconosciuta,  pertanto,  la  ammissibilita'  e  la non manifesta
infondatezza della questione di legittimita' costituzionale dell'art.
1  del  decreto  legislativo  n. 61  del  2002 sollevata dal pubblico
ministero  con  riferimento agli articoli 11 e 117 della Costituzione
nella   parte  in  cui,  con  la  introduzione  del  reato  di  false
comunicazioni  in danno dei soci e dei creditori di cui all'art. 2622
del codice civile e con la previsione per tale reato di soglie di non
punibilita'  e  della  pena  edittale  da  sei  mesi  a tre anni, non
stabilisce una sanzione adeguata, ponendosi in contrasto con la norma
dettata  dall'art. 6  della  direttiva  n. 68/151/CEE,  non resta che
verificare  la  pregiudizialita' della stessa questione ai fini della
definizione del presente procedimento.
    Gli  attuali imputati sono chiamati a rispondere del reato di cui
all'art. 2622  del  codice  civile per fatti commessi sotto il vigore
dell'art. 2621  del  codice civile nella sua originaria formulazione:
si  tratta  di  falsi  in  bilancio  che  sarebbero stati commessi al
termine  degli esercizi 1996, 1997 e 1998, in relazione ad alcuni dei
quali  il  termine  di prescrizione potrebbe essere gia' maturato nel
corso  delle  indagini preliminari o prossimo a scadere e per i quali
sarebbe,  comunque, necessaria la valutazione (non eseguita nel corso
delle indagini, in quanto concluse prima dell'entrata in vigore della
nuova disciplina) del superamento delle soglie di tolleranza previste
dall'art. 2622   del   codice  civile,  valutazione  che  dilaterebbe
notevolmente  i  tempi  di  definizione  dell'udienza  preliminare  e
condurrebbe  verosimilmente  ad una pronuncia di estinzione del reato
per effetto del maturare medio tempore del termine prescrizionale.
    Questo  giudice  ritiene,  pertanto,  la prospettata questione di
contrarieta'  della  nuova disciplina normativa del falso in bilancio
alle  norme  costituzionali  rilevante ai fini del presente giudizio,
stante  l'idoneita'  di  una  eventuale  pronuncia  di illegittimita'
costituzionale  della  disciplina  del  reato  di false comunicazioni
sociali introdotta dal decreto legislativo n. 61 del 2002 ad incidere
sull'esito del procedimento: tale pronuncia, infatti, determinando la
cessazione   ex   tunc   dell'efficacia  della  disposizione  dettata
dall'art. 2622  del  codice civile introdotta dall'art. 1 del decreto
legislativo   n. 61   del   2002,  consentirebbe  la  riespansione  e
l'applicazione  della  norma penale incriminatrice del reato di falso
in  bilancio  nella  sua  originaria formulazione, con la conseguente
operativita' del termine di prescrizione di dieci anni e, in presenza
di  atti  interruttivi,  di  quindici anni ed il riconoscimento della
completezza,  ai  fini  della  decisione,  dell'attivita'  d'indagine
svolta.
    In  proposito,  appare  opportuno rilevare che l'intervento della
Corte   costituzionale   e   l'applicazione   della   norma   dettata
dall'art. 2621  del codice civile nel suo testo originario al caso di
specie  in  ipotesi di dichiarazione di illegittimita' costituzionale
della  nuova  disciplina introdotta dal decreto legislativo n. 61 del
2002  sarebbero consentiti, a parere di questo, dalla circostanza che
i reati contestati agli attuali imputati sono stati commessi sotto il
vigore  della  norma  penale  incriminatrice  nella  sua formulazione
originaria  e,  pertanto,  anche  se  si'  tratta  di  una norma meno
favorevole  rispetto  a  quella  della  cui  conformita'  alle  norme
costituzionali  si  dubita,  la  sua  riespansione  per effetto della
eventuale  caducazione,  da  parte  della Corte costituzionale, della
riformulazione  del reato di falso in bilancio introdotta dal decreto
legislativo  n. 61  del 2002 non si tradurrebbe in una violazione del
principio costituzionale nullum crimen sine lege.
    Tale  principio,  sancito  dal  secondo  comma dell'art. 25 della
Costituzione,  in  ossequio  al  principio  del  favor  libertatis  e
all'esigenza  della  certezza  del  diritto,  impone  che nessuno sia
punito  o  sia  punito  piu' severamente per un fatto che, al momento
della  sua  commissione, non era previsto come reato o era punito con
pene  meno  severe:  nel  caso  di specie in cui il fatto illecito e'
stato  commesso  nel vigore della norma meno favorevole, la eventuale
rimozione,  con efficacia ex tunc, della norma penale successiva piu'
favorevole   al   reo  non  provocherebbe  l'assoggettamento  ad  una
disciplina  meno  favorevole (sotto il profilo della integrazione del
fatto  reato  o  della  sanzione  allo  stesso  applicabile)  di  una
fattispecie non prevista come reato oppure punita meno severamente al
momento  della  sua  realizzazione,  ma  determinerebbe semplicemente
l'applicazione  della norma incriminatrice in costanza della quale il
reato e' stato commesso in conformita' con il principio nullum crimen
nulla poena sine lege.
    Alla luce delle considerazioni che precedono, stante la rilevanza
e  la  non  manifesta  infondatezza della questione di illegittimita'
costituzionale  dell'art.  1  del decreto legislativo n. 61 del 2002,
cosi' come sollevata dal pubblico ministero, per violazione dell'art.
11  e  dell'art. 117 della Costituzione in relazione all'art. 6 della
direttiva  del  Consiglio  dell'Unione europea n. 68/151/CEE, occorre
disporre   la   immediata   trasmissione   degli   atti   alla  Corte
costituzionale  per  la decisione, con la conseguente sospensione del
giudizio in corso.
    Quanto  alla  richiesta  di  pronuncia di sentenza di non doversi
procedere  per  estinzione  del  reato  per  intervenuta prescrizione
formulata  dalla  difesa  degli  imputati  Aiello  Alfredo e Semeraro
Giuseppe,   la   riconosciuta  pregiudizialita'  della  questione  di
legittimita'  costituzionale  della nuova disciplina del reato per il
quale  si  procede  rispetto  all'esame  del  merito dell'imputazione
esclude   che   possa  procedersi  alla  adozione  del  provvedimento
richiesto  prima  che  sia  stata  decisa  la  sollevata questione di
conformita'  alle  norme  costituzionali  della  disciplina penale da
applicare.