IL TRIBUNALE Nel procedimento iscritto al n. 3087/2000 R.G. giudice dell'indagine preliminare (al quale e' stato riunito il procedimento iscritto al n. 3321/2004 R.G. (g.i.p.) a carico di Somma Faustino ed altri; All'udienza del 1° giugno 2005; Sull'eccezione di illegittimita' costituzionale dell'art. 1 del decreto legislativo n. 61 del 2002 sollevata dalla pubblica accusa con riferimento agli articoli 11 e 117 della Costituzione; Sentita la difesa e letta la memoria difensiva depistata dagli imputati, i quali hanno dedotto la inammissibilita', la irrilevanza e la manifesta infondatezza della questione prospettata dal pubblico ministero; O s s e r v a Il pubblico ministero dubita della conformita' alla Costituzione (in particolare alle norme dettate dagli articoli 11 e 117 della Costituzione) dell'art. 1 del decreto legislativo n. 61 del 2002 (che ha riformulato il reato di falso in bilancio previsto e punito dall'art. 2621 del codice civile) nella parte in cui, nel disciplinare la nuova fattispecie di cui all'art. 2622 del codice civile, al comma quinto, prevede «la punibilita' per i fatti previsti ai commi 1 e 3 e' esclusa se la falsita' o le omissioni non alterano in modo sensibile la rappresentazione della situazione economica, patrimoniale o finanziaria della societa' o del gruppo al quale essa appartiene o comunque determinano una variazione del risultato economico di esercizio al lordo delle imposte non superiore al 5%. Per la determinazione di tale soglia non si tiene conto del limite previsto per le valutazioni estimative dal comma successivo» nella parte in cui, al sesto comma, prevede che «in ogni caso i fatti non sono punibili se conseguenza di valutazioni estimative che singolarmente considerate differiscono in misura non superiore al 10% da quella corretta» e nella parte in cui, al primo comma, prevede, in relazione al reato di falso in bilancio di cui all'art. 2622 del codice civile (consumato nell'ambito delle societa' non quotate in borsa), «la reclusione da sei mesi a tre anni». Sostiene la pubblica accusa che la nuova disciplina del reato di false comunicazioni sociali introdotta dal decreto legislativo n. 61 del 2002 sarebbe in contrasto con i principi dettati dal diritto comunitario in materia di diritto societario e, in particolare, con il principio sancito dall'art. 6 della direttiva del Consiglio Unione europea del 9 marzo 1968, n. 68/151/CEE (denominata prima direttiva sul diritto societario), che impone agli Stati membri delIUnione europea di prevedere sanzioni adeguate per l'ipotesi di mancata pubblicazione del bilancio e del conto profitti e perdite. Il pubblico ministero parte dal presupposto che l'obbligo degli Stati membri della comunita' europea di introdurre sanzioni adeguate per reprimere la mancata pubblicazione del bilancio e del conto profitti e perdite consacrato nell'art. 6 della prima direttiva comunitaria sul diritto societario trovi applicazione anche nel diverso caso in cui il bilancio venga effettivamente presentato, ma contenga una falsa rappresentazione della situazione economica, patrimoniale o finanziaria della societa'. Tale interpretazione ha trovato di recente conferma nella sentenza adottata in data 3 maggio 2005 dalla Corte di giustizia della Comunita' europea che, investita dal Tribunale di Milano e dalla Corte di appello di Lecce della questione interpretativa della direttiva n. 68/151/CEE, oltre che della quarta e della settima direttiva sul diritto societario, nei procedimenti riuniti C1/28209; 387/2002, C1/28209; 391/2002 e C1/28209; 403/2002, ha chiarito - pur essendosi arrestata ad una pronuncia di rito - che «per quanto riguarda il regime sanzionatorio previsto dall'art. 6 della prima direttiva sul diritto societario, la formulazione di tale disposizione fornisce di per se' un indizio nel senso che tale regime deve essere inteso come concernente non solo i casi di un'omissione di qualsiasi pubblicita' dei conti annuali, ma anche quelli di una pubblicita' di conti annuali non redatti conformemente alle disposizioni previste dalla quarta direttiva sul diritto societario relativamente al contenuto di tali conti» e che «l'art. 6 non si limita a prevedere l'obbligo per gli Stati membri di stabilire sanzioni adeguate per mancata pubblicazione del bilancio e del conto profitti e perdite, ma prevede un obbligo di tale tipo per mancata pubblicazione di tali documenti come prescritta dall'art. 2, n. 1, lettera f) della prima direttiva sul diritto societario.. che fa espresso riferimento all'armonizzazione prevista dalle norme relative al contenuto dei conti annuali». Occorre, pertanto, esaminare nel merito la questione prospettata dal pubblico ministero e valutare se effettivamente la nuova disciplina del reato di false comunicazioni sociali introdotta dal decreto legislativo n. 61 del 2002 sia in contrasto con l'obbligo sancito dall'art. 6 della prima direttiva comunitaria sul diritto societario a carico degli Stati membri e, in caso di esito positivo della suddetta verifica, individuare le conseguenze della violazione del diritto comunitario ad opera del legislatore statale, con particolare riferimento alla possibilita', prospettata dalla pubblica accusa, di investire la Corte costituzionale della decisione sulla conformita' alla Costituzione della norma riconosciuta configgente con la disciplina comunitaria. Il decreto legislativo n. 61 del 2002 (disciplina degli illeciti penali e amministrativi riguardanti le societa' commerciali), emanato in attuazione della delega contenuta nella legge n. 366 del 2001 ed entrato in vigore il 16 aprile 2002, ha sostituito il titolo XI del libro V del codice civile, introducendo nuove disposizioni penali incriminatrici della presentazione di false comunicazioni sociali: l'art. 2621 del codice civile (false comunicazioni sociali), che prevede un reato contravvenzionale (procedibile di ufficio) per l'ipotesi di falsificazioni senza danno patrimoniale, e l'art. 2622 del codice civile (false comunicazioni in danno dei soci e dei creditori), che punisce, quale ipotesi delittuosa perseguibile a querela (salvo nel caso in cui si tratti di societa' quotate in borsa), la condotta di falsificazione del bilancio, delle relazioni e delle altre comunicazioni sociali previste dalla legge, dirette ai soci o al pubblico, dalla quale sia derivato un danno patrimoniale ai soci o ai creditori. Agli attuali imputati e' contestato il reato di false comunicazioni sociali disciplinato dall'art. 2622 del codice civile e, pertanto, la valutazione della conformita' al principio consacrato nell'art. 6 della prima direttiva sul diritto societario deve essere circoscritta alla disciplina dettata per tale ipotesi di reato. L'art. 2622 del codice civile prevede la pena della reclusione da sei mesi a tre anni a carico degli amministratori, dei direttori generali, dei sindaci e dei liquidatori che, con l'intenzione di ingannare i soci o il pubblico e al fine di conseguire per se' o per altri un ingiusto profitto, nei bilanci, nelle relazioni o nelle altre comunicazioni sociali previste dalla legge, dirette ai soci o al pubblico, cagionano un danno patrimoniale ai soci o ai creditori, esponendo fatti materiali non rispondenti al vero, ancorche' oggetto di valutazioni, oppure omettendo informazioni la cui comunicazione e' imposta dalla legge sulla situazione economica, patrimoniale o finanziaria della societa' o del gruppo alla quale essa appartiene, in modo idoneo ad indurre in errore i destinatari sulla predetta situazione. Il quinto comma dell'art. 2622 del codice civile esclude la punibilita' se la falsita' o le omissioni non alterano in modo sensibile la rappresentazione della situazione economica, patrimoniale o finanziaria della societa' o del gruppo al quale essa appartiene o comunque determinano una variazione del risultato economico di esercizio al lordo delle imposte non superiore al 5% ed il sesto comma dell'art. 2622 del codice civile prevede che, in ogni caso, il fatto non e' punibile se conseguenza di valutazioni estimative che, singolarmente considerate, differiscono in misura non superiore al 10% da quella corretta. Ritiene questo giudice che il regime sanzionatorio previsto dall' art. 2622 del codice civile per il reato in relazione al quale si procede non presenti le caratteristiche che, a norma dell'art. 6 della prima direttiva sul diritto societario, deve avere la sanzione diretta a reprimere la omessa o falsa pubblicazione del bilancio e del conto profitti e perdite in termini di efficacia, di proporzionalita' e di dissuasivita'. L'art. 6 della direttiva n. 68/151/CEE (prima direttiva sul diritto societario), infatti, stabilisce che gli Stati membri stabiliscono adeguate sanzioni per i casi di mancata pubblicita' del bilancio e del conto profitti e perdite come prescritta dall'art. 2, paragrafo 1, lettera f). Se adeguata e' la pena proporzionata ed efficace in termini di dissuasivita' che - in conformita' con il suo fondamento retributivo e la sua finalita' di prevenzione generale e speciale - in concreto rappresenti un congruo corrispettivo del fatto illecito commesso, determinato in relazione alla gravita' del reato e dell'offesa ed al rango dei beni tutelati dalla norma incriminatrice secondo la gerarchia desumibile dalla Costituzione, e in concreto risulti idonea a scoraggiare la reiterazione di comportamenti configgenti con la norma penale, tale non puo' essere considerata la pena edittale da sei mesi a tre anni di reclusione prevista dall'art. 2622 del codice civile per il reato di false comunicazioni sociali in danno dei soci e dei creditori. A fronte di un reato plurioffensivo come quello che ci occupa, il quale lede non soltanto l'interesse patrimoniale dei soci e dei creditori sociali, ma anche l'interesse dei terzi ed il loro affidamento circa una fedele rappresentazione della situazione economica, patrimoniale e finanziaria della societa', non appare idonea a soddisfare adeguatamente il parametro della corrispettivita' - che non soltanto costituisce il limite logico del potere punitivo dello Stato di diritto, ma persegue anche una finalita' generale preventiva - una pena che non supera il limite edittale massimo di tre anni di reclusione e che, di conseguenza, non soltanto consente l'accesso al rito alternativo al dibattimento dell'applicazione della pena su richiesta dell'imputato, ma di regola, in difetto di precedenti penali e con il riconoscimento delle attenuanti generiche, e' destinata ad essere condizionalmente sospesa e una pena la cui applicazione, comunque, e esclusa in tutti i casi in cui non si sia verificata, quale conseguenza della condotta illecita, una sensibile alterazione della rappresentazione della situazione economica, patrimoniale e finanziaria della societa' oppure non venga accertato il superamento di soglie di tolleranza espresse in valori percentuali, come se per ledere il bene-interesse tutelato dalla norma incriminatrice, rappresentato anche dall'affidamento dei creditori e dei terzi in una fedele riproduzione della situazione patrimoniale della societa', non sia di per se' sufficiente la semplice intenzionale falsificazione dei dati contabili. Quanto alla efficacia dissuasiva della pena, che deve essere valutata con riferimento non soltanto al tipo ed alla misura della sanzione, ma anche alla probabilita' che la stessa possa essere irrogata in concreto, nel caso di specie la pena prevista per il reato di false comunicazioni non appare idonea a scoraggiare la violazione del precetto penale: a fronte di un limite edittale massimo di tre anni, il termine di prescrizione del reato, anche in presenza di atti interruttivi, appare eccessivamente breve e, di conseguenza, inidoneo ad assicurare la punizione dei colpevoli, tenendo conto non soltanto della particolare struttura del reato di cui si discute, ma anche della complessita' delle indagini necessarie per il suo accertamento, oltre che delle garanzie che caratterizzano il sistema processuale vigente e che determinano inevitabilmente un allungamento dei tempi necessari per giungere ad una pronuncia irrevocabile. Infatti, il delitto di false comunicazioni sociali in danno dei soci e dei creditori si consuma con il deposito del bilancio e da quel momento inizia a decorrere il termine di prescrizione del reato, che, alla luce della nuova disciplina, e' di sette anni e mezzo: considerato che la notitia criminis di regola non viene acquisita immediatamente dopo la pubblicazione del bilancio, ma soltanto in seguito a verifiche ispettive, considerato che non soltanto l'attivita' di indagine, ma anche quella di acquisizione della prova in dibattimento presuppongono l'esame di copiosa documentazione e l'espletamento di complesse consulenze contabili (rese indispensabili dalla previsione di soglie di tolleranza espresse in valori percentuali), con un inevitabile allungamento dell'iter procedimentale, e considerato, infine, che il procedimento penale presuppone il rispetto di una serie di garanzie che dilata necessariamente i tempi di definizione del giudizio, di regola passa attraverso tutti e tre i gradi di giudizio e rientra nella cognizione del giudice collegiale, con la conseguente necessita' della celebrazione dell'udienza preliminare, appare estremamente difficile che il reato di false comunicazioni sociali di cui all'art. 2622 del codice civile venga accertato e punito con sentenza irrevocabile nel rispetto del termine di prescrizione di sette anni e mezzo dal momento della sua consumazione. Alla luce delle considerazioni che precedono, ritiene questo giudice che, tenendo conto della scarsa efficacia retributiva e dissuasiva riconducibile al regime sanzionatorio previsto per il reato di false comunicazioni in danno dei soci e dei creditori punito dall'art. 2622 del codice civile, non si possa riconoscere la congruenza della riformulazione del reato di falso in bilancio introdotta da decreto legislativo n. 61 del 2002 con il principio della adeguatezza della sanzione consacrato nell'art. 6 della prima direttiva comunitaria sul diritto societario per l'ipotesi della omessa pubblicazione del bilancio o della esposizione in bilancio di una situazione economica e patrimoniale non corrispondente al vero. Quanto alle conseguenze che sono riconducibili alla violazione, ad opera del legislatore statale, del precetto consacrato in una direttiva comunitaria, la circostanza che la Corte giustizia della Comunita' europea abbia escluso la diretta operativita' della suddetta direttiva, in quanto tale, all'interno dello Stato italiano (non potendo avere una direttiva come effetto, di per se', indipendentemente da una legge interna adottata per la sua attuazione, di determinare o aggravare la responsabilita' penale degli imputati) non implica di per se' la irrilevanza del riconosciuto conflitto. La Corte costituzionale in piu' occasioni ha escluso che le norme derivanti da atti normativi della comunita' europea possano costituire parametro nei giudizi di sua competenza, sul presupposto che le stesse, pur potendo derogare a norme interne di rango costituzionale, appartengono ad un ordinamento distinto, anche se coordinato, rispetto a quello interno e, pertanto, non possono essere qualificate come atti interni aventi valore costituzionale alla stregua dell'ordinamento nazionale (Corte costituzionale n. 232 del 1989 e n. 117 del 1994): pertanto, in caso di conflitto fra una norma interna preesistente o successiva ed una direttiva comunitaria non potra' essere sollevata questione di legittimita' costituzionale utilizzando quale parametro di valutazione la norma comunitaria. Ritiene, pero', questo giudice che il rinvio pattizio al diritto comunitario implicitamente contenuto nell'art. 11 della Costituzione ed il vincolo per il legislatore statale al rispetto della normativa comunitaria contenuto nell'art. 117 della Costituzione (come sostituito dall'art. 3 della legge costituzionale n. 3 del 2001) consentano di utilizzare quali norme costituzionali di riferimento, per verificare la legittimita' della legge statale configgente con una direttiva comunitaria, proprio l'art. 11 e l'art. 117 della Costituzione. L'art. 117 della Costituzione (cosi' come sostituito dall'art. 3 della legge costituzionale n. 3 del 2001) stabilisce che lo Stato esercita la potesta' legislativa nel rispetto della Costituzione, nonche' dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e dagli obblighi internazionali. L'art. 11 della Costituzione stabilisce che l'Italia .... consente, in condizioni di parita' con gli altri Stati, alle limitazioni di sovranita' necessarie ad un ordinamento che assicuri la pace e la giustizia fra le nazioni. L'adozione della legge di esecuzione del Trattato di Roma istitutivo della Comunita' europea - in attuazione della norma dettata dall'art. 11 della Costituzione e del rinvio patrizio ivi contenuto - ha determinato il trasferimento agli organi comunitari di competenze normative nelle materie agli stessi riservate e, quale conseguenza della sottostante limitazione della sovranita' nazionale, ha consentito che atti normativi appartenenti all'ordinamento comunitario producano effetti direttamente nell'ordinamento interno, senza che la sfera della loro efficacia possa essere intaccata dalla legge ordinaria dello Stato eventualmente incompatibile. L'art. 249 del Trattato istitutivo della Comunita' europea (gia' art. 189 del testo originario) prevede che per l'assolvimento dei loro compiti e alle condizioni contemplate dal presente Trattato il Parlamento europeo congiuntamente con il Consiglio e la Commissione adottano regolamenti e direttive, prendono decisioni formulano raccomandazioni o pareri. Il regolamento ha portata generale. Esso e' obbligatorio in tutti i suoi elementi e direttamente applicabile in ciascuno degli Stati membri. La direttiva vincola lo Stato membro cui e' rivolta per quanto riguarda il risultato da raggiungere, salva restando la competenza degli organi nazionali in merito alla forma e ai mezzi. Posta la immediata e diretta applicabilita' delle norme comunitarie contenute nei Regolamenti sancita espressamente dal Trattato, con riferimento all'ipotesi di contrasto fra una norma interna ed un regolamento comunitario la giurisprudenza costituzionale e' pervenuta alla conclusione che il regolamento comunitario e' sempre e subito applicato dal giudice italiano, che considerera' tamquam non essent le configgenti disposizioni della legge interna, anteriori o successive all'adozione della norma comunitaria, e le disapplichera' nella regolamentazione della fattispecie concreta (Corte costituzionale n. 170 del 1984 e n. 168 del 1991). Il riconoscimento della immediata e diretta applicabilita' delle norme comunitarie nell'ordinamento interno degli Stati membri e' stato, poi, esteso dalla giurisprudenza comunitaria e costituzionale, in presenza di determinate condizioni, anche alle «direttive, purche' self executing, cioe' contenenti prescrizioni incondizionate (tali da non lasciare alcun margine di discrezionalita' agli Stati membri nella loro attuazione) e sufficientemente precise (nel senso che la fattispecie astratta ivi prevista ed il contenuto del precetto ad essa applicabile devono essere determinati con compiutezza in tutti i loro elementi). Nel caso di specie l'art. 6 della prima direttiva sul diritto societario senza dubbio non puo' ricevere immediata e diretta applicazione nell'ordinamento nazionale in primis perche' dall'applicazione di una direttiva comunitaria non puo' mai derivare di per se' - indipendentemente dall'adozione di una legge interna di attuazione - un aggravamento della responsabilita' penale dell'imputato (ragione che ha indotto la Corte di giustizia ad arrestarsi ad una pronuncia di rito all'esito del procedimento in cui era stata investita della questione interpretativa della direttiva che ci occupa sollevata dai giudici nazionali) e, poi, perche' si tratta di una norma programmatica che non presenta le caratteristiche strutturali individuate dalla costante giurisprudenza della Corte di giustizia e della Corte costituzionale per il riconoscimento della diretta applicabilita' delle direttive comunitarie all'interno dell'ordinamento nazionale. Infatti, il precetto contenuto nell'art. 6 della prima direttiva sul diritto societario non prevede una fattispecie astratta determinata con compiutezza in tutti i suoi elementi e soprattutto lascia allo Stato membro un certo margine di discrezionalita' nella scelta degli strumenti per la sua attuazione. Ne consegue che - esclusa la immediata operativita' dell'art. 6 della prima direttiva sul diritto societario nell'ordinamento nazionale ed esclusa la possibilita' di disapplicazione della norma riconosciuta con essa confliggente - la ritenuta violazione della norma programmatica contenuta nell'art. 6 della direttiva n. 68/151/CEE ad opera della legge interna di riforma del reato di falso in bilancio puo' assumere rilevanza soltanto sotto il diverso profilo della lesione, da parte del legislatore italiano, del principio costituzionale consacrato nell'art. 11 della Costituzione - che vincola lo Stato al rispetto degli impegni assunti con la adesione alla Comunita' europea e la conseguente accettazione di una compressione della propria potesta' legislativa nelle materie riservate alla competenza sovranazionale degli organi comunitari -, e sotto il profilo della violazione della norma contenuta nell'art. 117 della Costituzione (cosi' come sostituito dall'art. 3 della legge costituzionale n. 3 del 2001), che prevede espressamente l'obbligo dello Stato e delle Regioni di esercitare la potesta' legislativa nel rispetto dei vincoli derivanti dalla normativa comunitaria. Riconosciuta, pertanto, la ammissibilita' e la non manifesta infondatezza della questione di legittimita' costituzionale dell'art. 1 del decreto legislativo n. 61 del 2002 sollevata dal pubblico ministero con riferimento agli articoli 11 e 117 della Costituzione nella parte in cui, con la introduzione del reato di false comunicazioni in danno dei soci e dei creditori di cui all'art. 2622 del codice civile e con la previsione per tale reato di soglie di non punibilita' e della pena edittale da sei mesi a tre anni, non stabilisce una sanzione adeguata, ponendosi in contrasto con la norma dettata dall'art. 6 della direttiva n. 68/151/CEE, non resta che verificare la pregiudizialita' della stessa questione ai fini della definizione del presente procedimento. Gli attuali imputati sono chiamati a rispondere del reato di cui all'art. 2622 del codice civile per fatti commessi sotto il vigore dell'art. 2621 del codice civile nella sua originaria formulazione: si tratta di falsi in bilancio che sarebbero stati commessi al termine degli esercizi 1996, 1997 e 1998, in relazione ad alcuni dei quali il termine di prescrizione potrebbe essere gia' maturato nel corso delle indagini preliminari o prossimo a scadere e per i quali sarebbe, comunque, necessaria la valutazione (non eseguita nel corso delle indagini, in quanto concluse prima dell'entrata in vigore della nuova disciplina) del superamento delle soglie di tolleranza previste dall'art. 2622 del codice civile, valutazione che dilaterebbe notevolmente i tempi di definizione dell'udienza preliminare e condurrebbe verosimilmente ad una pronuncia di estinzione del reato per effetto del maturare medio tempore del termine prescrizionale. Questo giudice ritiene, pertanto, la prospettata questione di contrarieta' della nuova disciplina normativa del falso in bilancio alle norme costituzionali rilevante ai fini del presente giudizio, stante l'idoneita' di una eventuale pronuncia di illegittimita' costituzionale della disciplina del reato di false comunicazioni sociali introdotta dal decreto legislativo n. 61 del 2002 ad incidere sull'esito del procedimento: tale pronuncia, infatti, determinando la cessazione ex tunc dell'efficacia della disposizione dettata dall'art. 2622 del codice civile introdotta dall'art. 1 del decreto legislativo n. 61 del 2002, consentirebbe la riespansione e l'applicazione della norma penale incriminatrice del reato di falso in bilancio nella sua originaria formulazione, con la conseguente operativita' del termine di prescrizione di dieci anni e, in presenza di atti interruttivi, di quindici anni ed il riconoscimento della completezza, ai fini della decisione, dell'attivita' d'indagine svolta. In proposito, appare opportuno rilevare che l'intervento della Corte costituzionale e l'applicazione della norma dettata dall'art. 2621 del codice civile nel suo testo originario al caso di specie in ipotesi di dichiarazione di illegittimita' costituzionale della nuova disciplina introdotta dal decreto legislativo n. 61 del 2002 sarebbero consentiti, a parere di questo, dalla circostanza che i reati contestati agli attuali imputati sono stati commessi sotto il vigore della norma penale incriminatrice nella sua formulazione originaria e, pertanto, anche se si' tratta di una norma meno favorevole rispetto a quella della cui conformita' alle norme costituzionali si dubita, la sua riespansione per effetto della eventuale caducazione, da parte della Corte costituzionale, della riformulazione del reato di falso in bilancio introdotta dal decreto legislativo n. 61 del 2002 non si tradurrebbe in una violazione del principio costituzionale nullum crimen sine lege. Tale principio, sancito dal secondo comma dell'art. 25 della Costituzione, in ossequio al principio del favor libertatis e all'esigenza della certezza del diritto, impone che nessuno sia punito o sia punito piu' severamente per un fatto che, al momento della sua commissione, non era previsto come reato o era punito con pene meno severe: nel caso di specie in cui il fatto illecito e' stato commesso nel vigore della norma meno favorevole, la eventuale rimozione, con efficacia ex tunc, della norma penale successiva piu' favorevole al reo non provocherebbe l'assoggettamento ad una disciplina meno favorevole (sotto il profilo della integrazione del fatto reato o della sanzione allo stesso applicabile) di una fattispecie non prevista come reato oppure punita meno severamente al momento della sua realizzazione, ma determinerebbe semplicemente l'applicazione della norma incriminatrice in costanza della quale il reato e' stato commesso in conformita' con il principio nullum crimen nulla poena sine lege. Alla luce delle considerazioni che precedono, stante la rilevanza e la non manifesta infondatezza della questione di illegittimita' costituzionale dell'art. 1 del decreto legislativo n. 61 del 2002, cosi' come sollevata dal pubblico ministero, per violazione dell'art. 11 e dell'art. 117 della Costituzione in relazione all'art. 6 della direttiva del Consiglio dell'Unione europea n. 68/151/CEE, occorre disporre la immediata trasmissione degli atti alla Corte costituzionale per la decisione, con la conseguente sospensione del giudizio in corso. Quanto alla richiesta di pronuncia di sentenza di non doversi procedere per estinzione del reato per intervenuta prescrizione formulata dalla difesa degli imputati Aiello Alfredo e Semeraro Giuseppe, la riconosciuta pregiudizialita' della questione di legittimita' costituzionale della nuova disciplina del reato per il quale si procede rispetto all'esame del merito dell'imputazione esclude che possa procedersi alla adozione del provvedimento richiesto prima che sia stata decisa la sollevata questione di conformita' alle norme costituzionali della disciplina penale da applicare.