IL TRIBUNALE Visti gli atti del proc. penale con rito direttissimo nei confronti di Rusi Vullnet alias Koka Mentor, cittadino albanese, arrestato il 22 settembre 2005 per violazione dell'art. 13, comma 13, del d.lgs. n. 286/1998 come modificato dalla legge n. 12 novembre 2004, n. 271, perche' espulso dal territorio nazionale con provvedimento del Prefetto di Napoli di data 26 maggio 2005 notificato ed eseguito in pari data, faceva rientro in territorio italiano senza una speciale autorizzazione del ministro dell'interno, fatto accertato in Gorizia i1 22 settembre 2005 Rilevato che non essendo state richieste misure cautelari l'imputato e' stato rimesso in liberta' dopo la convalida dell'arresto, che prima dell'apertura del dibattimento imputato e difensore hanno chiesto termine a difesa e quindi il difensore in virtu' di procura speciale ha chiesto e ottenuto l'ammissione al rito abbreviato. Ritenuta provata la responsabilita' dell'imputato e legittimo il provvedimento di espulsione, tradotto in lingua inglese, francese e spagnola per impossibilita' di reperire in tempo utile un interprete di lingua albanese, considerata la regolare convalida dell'accompagnamento coattivo alla frontiera da parte del giudice di pace e ritenuto provato dal certificato del Casellario centrale di identita' in atti che l'imputato e' la stessa persona espulsa con il nome di Koka Mentor, va valutata la pena da applicare. Trattandosi di soggetto incensurato pare congruo applicare la pena nel minimo edittale: pena base un anno di reclusione, ridotta poi per le attenuanti generiche a 8 mesi di reclusione e per il rito a 5 mesi e 10 giorni di reclusione, pena sospesa. Considerato che tale pena va inflitta per un fatto che e' nella sostanza una inottemperanza ad un ordine amministrativo, come, nella sostanza, un art. 650 cp., per un cittadino italiano, si pongono fondati, e rilevanti per la decisione, dubbi di costituzionalita' della norma da applicare sotto il profilo della eccessivita' della pena come determinata dal.legislatore nel minimo edittale. Piu' precisamente appare rilevante il dubbio di legittimita' costituzionale, eccepito anche dalla difesa, della norma di cui all'art. 13, comma 13, d. lgs. n. 286/1998 - come sostituito dalla legge n. 12 novembre 2004, n. 271 - nella parte in cui prevede il limite minimo edittale di un anno di reclusione per lo straniero espulso che rientri nel territorio dello Stato senza la speciale autorizzazione del Ministro dell'interno, norma in concreto applicabile alla fattispecie per cui si procede, per i motivi che di seguito si espongono. Tale norma e' poi rilevante per la decisione del caso concreto in quanto pare equa una pena base nel minimo edittale trattandosi di soggetto incensurato, del primo episodio di questo tipo commesso dall'imputato, e di fatto che non ha creato rilevante danno ad alcuno. Dunque se la norma e' conforme ai principi costituzionali la pena base da applicare in concreto non potra' essere inferiore ad un anno di reclusione ma se la norma venisse ritenuta costituzionalmente illegittima laddove determina il minimo edittale in un anno di reclusione il giudice potrebbe adeguare la pena rispetto alla concreta offensivita' sociale e alla modesta gravita' della condotta diminuendola molto al di sotto di un anno di reclusione, sino ad equiparare la sanzione a quella che subirebbe un cittadino italiano che viola un ordine legalmente dato dalla autorita' amministrativa per motivi di ordine pubblico, cosi' rispettando l'art. 3 della Costituzione. La norma da applicare appare invero contrastare con i principi di cui agli artt. 2, 3, 10 e 27 comma 3 della Costituzione per i motivi che di seguito si esporranno. I dubbi di costituzionalita' in ordine alla norma di cui all'art 13, comma 13, d. lgs. n. 286/1998 (nella parte in cui prevede il limite minimo edittale di un anno di reclusione), paiono trovare in primo luogo fondamento nei principi giurisprudenziali costituzionali elaborati in materia di limiti alla discrezionalita' del legislatore nella determinazione della quantita' e qualita' della sanzione penale. In particolare la Corte costituzionale, in diverse pronunce richiamate e ribadite nella sentenza n. 341/1994, dopo aver riaffermato il principio secondo cui appartiene alla discrezionalita' del legislatore la determinazione della quantita' e qualita' della sanzione penale e non spetta quindi alla Corte stessa rimodulare le scelte punitive effettuate dal legislatore, ne' stabilire quantificazioni sanzionatorie, ha pero' evidenziato come «alla Corte rimane il compito di verificare che l'uso della discrezionalita' legislativa in materia rispetti il limite della ragionevolezza.». Detto principio e' stato cosi' testualmente esplicitato e ricostruito nella sentenza n. 341/1994: "Con la sentenza n. 409 del 1989 la Corte ha definitivamente chiarito che «il principio di uguaglianza, di cui all'art. 3, primo comma, Cost., esige che la pena sia proporzionata al disvalore del fatto illecito commesso, in modo che il sistema sanzionatorio adempia nel contempo alla funzione di difesa sociale ed a quella di tutela delle posizioni individuali; ... le valutazioni all'uopo necessarie rientrano nell'ambito del potere discrezionale del legislatore, il cui esercizio puo' essere censurato, sotto il profilo della legittimita' costituzionale, soltanto nei casi in cui non sia stato rispettato il limite della ragionevolezza» (v. pure nello stesso senso sentenze nn. 343 e 422 del 1993). Infatti, piu in generale, «il principio di proporzionalita' ... nel campo del diritto penale equivale a negare leggittimita' alle incriminazioni che, anche se presumibilmente idonee a raggiungere finalita' statuali di prevenzione, producono, attraverso la pena, danni all'individuo (ai suoi diritti fondamentali, ed alla societa' sproporzionatamente maggiori dei vantaggi ottenuti (o da ottenere, da quest'ultima con la tutela dei beni e valori offesi dalle predette incriminazioni» (sentenza n. 409 del 1989). In altre recenti decisioni, inoltre, la Corte ha maturato la convinzione che la finalita' rieducativa della pena non sia limitata alla sola fase dell'esecuzione, ma costituisca «una delle qualita' essenziali e generali che caratterizzano la pena nel suo contenuto ontologico, e l'accompagnano da quando nasce, nell'astratta previsione normativa, fino a quando in concreto si estingue»: tale finalita' rieducativa implica pertanto un costante «principio di proporzione» tra qualita' e quantita' della sanzione, da una parte, e offesa, dall'altra (sentenza n. 313 del 1990; v. pure sentenza n. 343 del 1993, confermata dalla sentenza n. 422 del 1993). In applicazione di questi principi le sentenze da ultimo ricordate sono giunte a dichiarare costituzionalmente illegittime, come palesemente irragionevoli, diverse previsioni di sanzioni penali giudicando che la loro manifesta mancanza di proporzionalita' rispetto ai fatti-reato si traduceva in arbitrarie e ingiustificate disparita' di trattamento, o in violazioni dell'art. 27, terzo comma, Cost.. In particolare la sentenza n. 343 del 1993 ha affermato che «la palese sproporzione del sacrificio della liberta' personale» provocata dalla previsione di una sanzione penale manifestamente eccessiva rispetto al disvalore dell'illecito «produce ... una vanificazione del fine rieducativo della pena prescritto dall'art. 27, terzo comma, della Costituzione, che di quella liberta' costituisce una garanzia istituzionale in relazione allo stato di detenzione». Tutto cio' premesso, va osservato che - nella specie - la discrezionalita' del legislatore non pare esplicata secondo i parametri sopra richiamati. Premesso che l'inasprimento della sanzione penale in questione nel novembre 2004, benche' abbia riguardato norme sostanziali, direttamente incidenti sulla liberta' personale, appare ispirato da valutazioni ed esigenze di natura essenzialmente processuale. Infatti emerge dai lavori preparatori della legge n. 271/2004 la mancanza di riferimenti a particolari fenomeni nuovi o gravi da contrastare attraverso un inasprimento di pene quanto piuttosto la dichiarata necessita' di superare le censure mosse dalla Corte costituzionale con le sentenze n. 222 e 223 del 2004 alla legge n. 189/2002: ... Sul cammino della Bossi-Fini si e' abbattuta la mannaia della Corte costituzionale ... Ritengo che con il d.l. in esame il Governo ed il Parlamento siano intervenuti correttamente per rispondere ai rilievi della Corte ...» (A.C. 5369 discussione dd 2 novembre 2004 sul testo approvato in Senato il 20 ottobre 2004, repliche del relatore alla legge). Va in proposito rammentato che le sentenze della Corte costituzionale n. 222 e 223 del 2004 hanno avuto ad oggetto norme diverse - rispettivamente l'art 13, comma 5 bis, e l'art 14, comma 5-quinquies, del d.lgs. n. 286/1998. In particolare, la sentenza n. 223 ha dichiarato l'art. 14 comma 5 quinquies d. lgs. n. 286/1998 (nel testo integrato dalla legge n. 189/2002) illegittimo nella parte in cui stabiliva l'arresto obbligatorio per la contravvenzione prevista al comma 5-ter dello stesso articolo. A seguito di cio', il legislatore del novembre 2004 ha inteso intervenire a modifica del presupposto su cui si fondava la sentenza n. 223/2004, rendendo possibile con la trasformazione in delitto e l'inasprimento delle pene - in astratto - l'applicazione delle misure coercitive secondo i limiti previsti dall' art. 280, secondo comma c.p.p. sia al reato di cui all'art. 14, comma 5 ter, che a quello dell'art. 13, comma 13, oggetto della presente valutazione. La previsione di un minimo edittale cosi' elevato: un anno di reclusione, innanzitutto non pare ragionevole neppure ai fini dichiarati del legislatore: l'esigenza di rendere la fattispecie in esame compatibile con il sistema generale di applicazione delle misure coercitive: infatti a tali fini e' rilevante il parametro dei massimi edittali inderogabili (cfr. 274, lett. c e 280, secondo comma c.p.p.), non essendo invece di nessun interesse i minimi edittali di pena.Inoltre giustificare una scelta di diritto penale sostanziale con una esigenza processuale non pare rispondente ai principi di ragionevolezza e proporzionalita' della pena rispetto alla offensivita' della condotta con conseguente violazione degli artt. 3 e 27, III comma, Cost. Appare poi nella sostanza evidente la disparita' di trattamento in tal modo attuata tra cittadini extracomunitari e cittadini comunitari che violino ordini amministrativi dati per finalita' di sicurezza o ordine pubblico: mentre i cittadini comunitari vengono sanzionati per tale condotta solo con una contravvenzione (art. 650 c.p.) addirittura oblabile o definibile con una condanna a pena solo pecuniaria anche se socialmente pericolosi (contravvenzione prevista dall'art. 2 legge 27 novembre 1956/1423: inosservanza di provvedimenti del questore da parte di persone pericolose, sanzionata con l'arresto da uno a sei mesi), i cittadini extracomunitari per lo stesso tipo di violazione vengono puniti con una pena minima di un anno di reclusione. E' dunque evidente che il legislatore nel bilanciare la tutela degli interessi dell'ordine e sicurezza pubblica da un lato e quello della liberta' personale del soggetto agente dall'altra non abbia rispettato il criterio della parita' di trattamento di situazioni analoghe-eguali, sancito dall'art. 3 della Costituzione. Otto mesi di reclusione appaiono pertanto una pena sproporzionata in eccesso per non aver rispettato l'ordine di non rientrare in Italia in confronto alla sanzione massima possibile di tre mesi di arresto per un cittadino italiano che ad esempio non abbia ottemperato all'ordine di demolizione di edificio pericolante, condotta oggettivamente piu' pericolosa per la pubblica incolumita' di quella oggetto del presente giudizio La norma di cui all'art. 13, comma 13 d. lgs. n. 286/1998 non pare pertanto neppure conforme ai principi di ragionevolezza, sotto i profili della proporzione tra la pena e il disvalore per il fatto illecito commesso ex artt. 3 e 27, terzo comma Cost. impedendo al giudice di determinare la pena ex art. 133 c.p. anche al di sotto di tale limite minimo per i casi di gravita' minima come il presente con proporzionalita' rispetto alla gravita' concreta del fatto La norma appare dunque in contrasto, nella parte in cui prevede un minimo edittale di un anno di reclusione, con gli artt. 3 e 2, in rel. all'art. 10 della Costituzione che sanciscono e delineano i principi fondamentali di uguaglianza davanti alla legge e pari dignita' sociale, nonche' di garanzia dei diritti inviolabili dell'uomo tra i quali rientra evidentemente il diritto alla liberta' individuale, e non pare dubitabile che, in ragione dell'art. 10 della Costituzione, tali principi fondamentali spieghino piena vigenza anche nei confronti degli stranieri presenti sul territorio della Repubblica. La norma citata appare infine in contrasto con l'art. 27, terzo comma Cost. anche sotto il profilo della mancanza di soggettivita' criminale da rieducare, in relazione a condotte determinate con evidenza da pressanti esigenze economiche nel paese di origine che spingono alla emigrazione, senza dolo criminale o volonta' di creare danno a terzi, sia sotto il profilo della impossibilita' materiale di attuazione della finalita' rieducativa della pena per una categoria di soggetti come gli extracomunitari presenti clandestinamente in Italia e gia' oggetto di legittima espulsione, infatti, tenuto conto delle finalita' e della intera disciplina legislativa di contrasto alla immigrazione clandestina, queste persone non potranno mai rimanere in Italia, dunque non ha senso parlare di un loro inserimento sociale in Italia-Europa, l'unico rilevante per l'ordinamento. La questione della illegittimita' costituzionale dell'art. 13, comma 13, d. lgs. n. 286/1998 come sopra illustrata appare quindi rilevante per la decisione e non manifestamente infondata e induce pertanto la giudicante a rimettere gli atti alla Corte costituzionale per le valutazioni di competenza.