IL TRIBUNALE Letti gli atti osserva quanto segue. Il Bellarte con ricorso ex articolo 414 c.p.c., depositato il 14 gennaio 2005 presso la cancelleria della sezione del lavoro del Tribunale di Genova, rivendica differenze retributive assertivamente maturate in forza dell'attivita' di lavoro subordinato prestata a favore della cooperativa di lavoro Bagliore S.c.r.l. Che l'odierno attore sia stato socio lavoratore della suddetta cooperativa, come affermato dalla convenuta, emerge sia dal fatto che ne e' stato uno dei soci fondatori (vedi l'atto costitutivo della Bagliore prodotto in copia), sia dalla circostanza che ha partecipato alle assemblee (vedi la copia, prodotta in causa, del verbale di assemblea del 29 giugno 2001 in cui il Bellarte e' indicato quale uno dei soci presenti). La difesa del ricorrente sostiene che l'attivita' prestata dal Bellarte a favore della convenuta non rientrerebbe, almeno per intiero, nell'oggetto sociale. L'assunto non e' fondato. L'atto costitutivo della cooperativa di produzione e lavoro, prodotto in copia, indica nell'oggetto sociale, fra le altre, le seguenti attivita': «.... imballaggio, stoccaggio, custodia, deposito e movimentazione di merci e materiali; ....... custodia degli impianti, dei macchinari, e degli stabili, e relativa attivita' di vigilianza; .....». La difesa dell'attore deduce che costui ha svolto, su incarico della convenuta e presso l'Istituto Grafico Basile, le seguenti attivita': «.... addetto al controllo dello stabilimento, alla vigilanza interna ed esterna da detto stabilimento e nell'area ad essa attigua (con ispezioni interne ed esterne), controllo delle entrate e delle uscite da detto stabilimento, controllo timbratura dei dipendenti dell'Istituto grafico Basile, controllo entrata ed uscita di autoveicoli e camion, controlli ritardi ed assenze dei dipendenti dell'Istituto Basile, nonche' addetto ai compiti di segreteria semplice, alla reception, alla ricezione di telefonate (che passava poi ai singoli uffici e/o reparti) nonche' allo smistamento delle telefonate stesse, addetto alla ricezione di documenti e di pacchi (che poi faceva pervenire agli uffici)». La difesa del ricorrente riconosce che talune delle attivita' appena elencate rientrano nell'oggetto sociale (cosi' la custodia dello stabilimento e le ispezioni interne ed esterne), ma aggiunge che le ulteriori mansioni esulerebbero dall'oggetto sociale. La tesi non e' condivisibile. Il controllo delle entrate ed uscite dallo stabilimento di autoveicoli e camion, nonche' di persone, sia estranee all' azienda che dipendenti della stessa, attiene ai compiti di custodia e di vigilanza. E sono indubbiamente accessori a tali compiti la ricezione di telefonate e lo smistamento delle stesse. Anche la ricezione di documenti e di pacchi e lo smistamento degli stessi attiene alla attivita' prevista dallo statuto della convenuta il quale contempla fra l"altro «... deposito e movimentazione di merci e materiali ...». Per concludere l'odierno attore ha dedotto un complesso di attivita' svolte, in posizione subordinata, su incarico della Bagliore di cui e' socio e rientranti nell'oggetto sociale della stessa. Tutto cio' premesso deve valutarsi se la presente controversia vada trattata col rito delineato per le controversie di lavoro dagli articoli 413 ss c.p.c., o col rito disciplinato dal decreto legislativo n. 5/2003; in questa seconda ipotesi, ai sensi dell'ultimo comma dell'articolo 1 del decreto legislativo n. 5/2003, dovrebbe disporsi la cancellazione della causa dal ruolo. Giova, per bene intendere la problematica da affrontare, richiamare la normativa che si e' succeduta sulle cooperative di lavoro. L'articolo 1, comma 3 della legge n. 142/2001, che ha introdotto una revisione della legislazione in materia cooperativistica, disponeva che «Il socio lavoratore di cooperativa stabilisce con la propria adesione o successivamente all'instaurazione del rapporto associativo un ulteriore e distinto rapporto di lavoro in forma autonoma o subordinata o in qualsiasi altra forma ...»; l'articolo 9 della successiva legge n. 30/2003 ha abolito l'aggettivo «distinto» lasciando tuttavia l'aggettivo «ulteriore». L' articolo 5, comma 2, sempre della legge n. 142/2001, espressamente attribuiva alla competenza funzionale del giudice del lavoro le controversie relative ai rapporti di lavoro fra socio e cooperativa di lavoro disponendo quanto segue: «Le controversie relative ai rapporti di lavoro in qualsiasi forma di cui al comma 3 dell'articolo 1 rientrano nella competenza funzionale del giudice del lavoro; per il procedimento si applicano le disposizioni di cui agli articoli 409 e seguenti del c.p.c. In caso di controversie sui rapporti di lavoro tra i soci lavoratori e le cooperative, si applicano le procedure di conciliazione e di arbitrato irrituale previste dai decreti legislativi 31 marzo 1998, n. 80, e successive modificazioni, e 29 ottobre 1998, n. 387. Restano di competenza del giudice civile ordinario le controversie tra soci e cooperative inerenti al rapporto associativo». Giova sottolineare che in forza dell'articolo 40 c.p.c. la controversia tra socio e cooperativa, attinente al rapporto di lavoro, attraeva per connessione nella competenza del giudice del lavoro, e nel relativo rito, altre controversie pendenti fra le stesse parti e relative al rapporto associativo. L'articolo 5, comma 2 della 1egge n. 142/2001 e' stato integralmente sostituito dall'articolo 9, lettera d) della legge n. 30/2003 che, fra l'altro, ha testualmente stabilito: «le controversie tra socio e cooperativa relative alla prestazione mutualistica sono di competenza del tribunale ordinario. Pertanto in base a tale ultima disposizione le suddette controversie, se instaurate dopo il 1° gennaio 2004 (vedi l'articolo 43 del d.lgs. n. 5/2003), devono essere trattate col rito delineato dal decreto legislativo n. 5/2003 che si applica tra l'altro alle controversie relative ai rapporti societari (vedi articolo 1, comma 1, lettera a). La nozione di «prestazione mutualistica», cui allude il citato articolo 9 nella parte sopra trascritta, viene espressamente definita dall' articolo 1 della legge n. 142/2001 che recita: «Le disposizioni della presente legge si riferiscono alle cooperative nelle quali il rapporto mutualistico abbia ad oggetto la prestazione di attivita' lavorative da parte del socio sulla base di previsioni di regolamento che definiscono l'organizzazione di lavoro dei soci». La norma, come emerge dal suo chiaro tenore letterale, espressamente inserisce nell'oggetto del rapporto mutualistico la attivita' lavorativa resa dal socio lavoratore ed attinente all'oggetto sociale. Tale attivita' riveste quindi, per espressa disposizione del legislatore, natura di prestazione mutualistica, sicche' le relative controversie, in forza dell'articolo 5, comma 2 - ora sostituito dall'articolo 9, lettera d) della legge n. 30/2003 - sono demandate alla cognizione del tribunale ordinario e vanno ora trattate col rito c.d. societario delineato dal decreto legislativo n. 5/2003, poiche' rientrano nella previsione dell'articolo 5, comma 1, lettera a) del decreto stesso. Parte della dottrina che si e' occupata specificamente del problema, ed alcune pronunce giurisdizionali (vedi tra le altre Cassazione sezione del lavoro ordinanza n. 850 del 18 gennaio 2005, in d.l. n. 1 del 2005) hanno invece sostenuto che la espressione «prestazione mutualistica» di cui sopra non comprenderebbe l'attivita' lavorativa resa dal socio della cooperativa di lavoro ed attinente all'oggetto sociale, con la conseguenza che le controversie attinenti alla suddetta attivita' resterebbero demandate alla competenza funzionale del giudice del lavoro. Si legge in un passo della citata ordinanza: «Ne consegue che la norma in esame non puo' che operare per quanto riguarda unicamente "le prestazioni mutualistiche", cioe' quelle prestazioni che - per eliminare l'intento speculativo delle societa' capitalistiche - si traducono in prestazioni che la societa' assicura ai suoi soci in termini piu' vantaggiosi rispetto ai terzi e che, a seguito della riforma introdotta dal decreto legislativo 17 gennaio 2003, n. 6 caratterizzano a vario titolo le suddette societa', con una distinzione - operata dalla dottrina commercialistica - tra cooperative a mutualita' esclusiva e a mutualita' prevalente e cooperative diverse», quindi, sempre seguendo l'orientamento della S.C., l'articolo 5, comma 2 della legge n. 142/2001, come novellato dall'articolo 9, lettera d) della legge n. 30/2003 deve essere interpretato «... con impossibilita' di estensione ... alle controversie riguardanti i diritti sostanziali e previdenziali dei lavoratori ...». La tesi appena accennata non puo' essere condivisa perche' in insanabile contrasto con la inequivoca lettera del gia' citato articolo 1 della legge n. 142/2001 il quale, come si e' visto, espressamente qualifica oggetto del rapporto mutualistico la prestazione di attivita' lavorative rese dal socio secondo i regolamenti della cooperativa. In definitiva l'esito ermeneutico cui perviene la giurisprudenza nel provvedimento di cui sopra si risolve non nella interpretazione ma nello stravolgimento della lettera della legge, e quindi in una riscrittura, inammissibile in sede giudiziaria, della legge stessa. E la tesi ora criticata e' inaccettabile anche perche' sui profili processuali delle controversie fra soci e cooperative di lavoro in definitiva rinviene nell'articolo 9, lettera d) della legge n. 30/2003 una disciplina identica a quella gia' dettata dal secondo comma dell'articolo 5 della legge n. 142/2001. Ma siffatto esito interpretativo rende incomprensibile e manifestamente irrazionale il comportamento del legislatore che avrebbe novellato quest'ultima norma per lasciarne inalterato il senso e la portata originari; avrebbe solo modificato la preesistente formulazione, assai chiara, con una formulazione piu' oscura. Deve pertanto concludersi che, ai sensi dell'inequivoco e combinato disposto dell'articolo 1, comma 1 della legge n. 142/2001 e dell'articolo 9, comma 1, lettera d) della legge n. 30/2003, la prestazione lavorativa resa dal socio di cooperativa, ed attinente all'oggetto sociale, confluisce nel rapporto sociale. Non va pero' sottaciuto che la stessa normativa (appunto legge n. 142/2001 e legge n. 30/2003) in altri suoi passi distingue il rapporto di lavoro in capo al socio dal rapporto societario. Infatti il comma 3 dell'articolo 1 della legg n. 142/2001 disponeva che: «Il socio lavoratore di cooperativa stabilisce con la propria adesione o successivamente all'instaurazione del rapporto associativo un ulteriore e distinto rapporto di lavoro in forma subordinata od autonoma od in qualsiasi altra forma...» e l'articolo 9 della successiva legge n. 30/2003 al comma 1, lettera a) ha soppresso solo l'aggettivo distinto, lasciando l'aggettivo ulteriore. Infine l'articolo 9, lettera d) della successiva legge n. 30 del 14 febbraio 2003, apportando modifiche all'articolo 5 della legge n. 142/2001 dispone fra l'altro: «Il rapporto di lavoro si estingue con il recesso o l'esclusione del socio deliberati nel rispetto delle previsioni statutarie e in conformita' con gli articoli 2526 e 2257 del codice civile.», rendendo evidente che il rapporto mutualistico non puo' identificarsi col rapporto di lavoro del socio. In caso contrario, cioe' se fosse ravvisabile siffatta identificazione, lo scioglimento del rapporto sociale comporterebbe automaticamente la risoluzione del rapporto di lavoro, e sarebbe stata del tutto superflua la disposizione sopra trascritta dettata dall'articolo 5, legge n. 142/2001, come modificato dall'articolo 9, lettera d) della legge n. 30/2003. La normativa che si sta esaminando sembra pertanto dire in alcuni passi che nelle cooperative di lavoro il rapporto di lavoro ed il rapporto societario che fanno capo al socio non si identificano, ma in altri passi sembra affermare l'esatto contrario, cioe' la identificazione dei due rapporti. La apparente incongruenza non puo' che risolversi limitando la portata dell'agettivo «ulteriore» al solo ambito del diritto sostanziale. In altri termini un minimo di coerenza, cui riportare la contorta normativa che si sta esaminando, impone di ritenere la separazione tra i due rapporti limitata al solo diritto sostanziale; con la conseguenza di applicare all'attivita' lavorativa del socio le norme sostanziali in materia di lavoro subordinato od autonomo secondo i casi, salve eventuali deroghe (e proprio tali deroghe saranno fra breve considerate). Invece nell'ambito processuale tale separazione viene meno con la conseguenza che, sulla base di tutte le considerazioni sopra svolte, ai sensi dell'articolo 5, comma 2, della legge n. 142/2001 - ora sostituito dall'articolo 9, lettera d) della legge n. 30/2003, sono sottratte al giudice del lavoro ed attribuite al tribunale ordinario le controversie relative alla attivita' lavorativa prestata dal socio per la cooperativa; e tali controversie vanno ora trattate col rito c.d. societario delineato dal decreto legislativo n. 5/2003, poiche', come si e' gia' detto, rientrano nella previsione dell'articolo 1, comma 1, lettera a) del decreto medesimo. A questo punto sorgono gravi sospetti di illegittimita' costituzionale della normativa in esame nella parte in cui sottrae le suddette controversie alla cognizione del giudice del lavoro. La accennata questione di illegittimita' costituzionale appare rilevante e non manifestamente infondata. Sulla non manifesta infondatezza Un approfondimento sulla non manifesta infondatezza comporta un non breve discorso. Come e' noto in tema di cooperative di lavoro un risalente e consolidato orientamento giurisprudenziale, ben anteriore alla legge n. 142/2001, escludeva la natura subordinata della prestazione resa dal socio d'opera; la escludeva a prescindere dall'accertamento degli indici elaborati dalla giurisprudenza per la qualificazione di un rapporto come subordinato. L'esclusione conseguiva al mero fatto che la prestazione fosse inerente all'oggetto sociale, vale a dire fosse teleologicamente collegabile con l'oggetto medesimo (in tal senso Cass. 4 maggio 1983, n. 3068 in Giur. It. I, 1, 1841; Cass. 29 marzo 1989, n. 1530, in Foro It. 1989, 2181; Cass. 11 aprile 1985, n. 2390, in Riv.It. Dir. Lav. 1985, II, 831). In presenza di tale collegamento teleologico si presumeva, sempre secondo l'orientamento in esame, la esclusione della natura subordinata della prestazione resa dal socio d'opera; la presunzione veniva meno solo nell'ipotesi di «un eventuale sovvertimento dello schema tipico e del fine mutualistico della societa» (in tal senso specificamente 16 ottobre 1985, n. 5090, in Giust. Civ. 1986., I, 66). Come e' stato sottolineato da parte autorevole della dottrina si trattava di una operazione giurisprudenziale che aveva reso il lavoro nelle cooperative una specie di «zona franca» rispetto alle tradizionali operazioni espansive della fattispecie delineata dall'art. 2094 C.C.. e quindi rispetto alle garanzie assicurate a tutela del lavoratore subordinato. L'orientamento giurisprudenziale, di cui si e' fatto cenno, pur se consolidato non era condivisibile. Innanzitutto non appariva chiaro il limite all'operare della prestazione del carattere non subordinato del lavoro prestato dal socio d'opera; presunzione esclusa nell'ipotesi di sovvertimento del fine mutualistico. Come e' noto lo scopo mutualistico va ravvisato nell'intento del gruppo organizzato di tornire beni o servizi direttamente ai membri dell'organizzazione a condizioni piu' vantaggiose di quelle che otterrebbero dal mercato». Ora nelle cooperative di lavoro il fine mutualistico va ravvisato nell'intento di fornire ai soci occasioni di lavoro a condizioni piu' vantaggiose di quelle offerte dal mercato. Consegue che l'attivita' prestata dai soci, qualora presenti le caratteristiche che connotano la subordinazione, deve essere assistita da tutte quelle garanzie poste da norme inderogabili di legge a tutela del lavoro dipendente. In caso contrario lo scopo mutualistico sarebbe sovvertito in quanto al socio verrebbe fornita una occasione di lavoro a condizioni meno vantaggiose di quelle di mercato, sia pur di un mercato reso rigido da norme inderogabili di legge (ad es. il socio presta la propria attivita' verso una retribuzione inferiore ai minimi stabiliti dal C.C.N.L. del settore, con violazione dell'art. 36 della Costituzione secondo un ormai consolidato orientamento giurisprudenziale; il socio non usufruisce delle ferie annuali retribuite ecc...). Ne consegue che il socio deduce per definizione un sovvertimento del fine mutualistico qualora agisca nei confronti della cooperativa lamentando di aver ricevuto un trattamento deteriore rispetto a quello stabilito da norme inderogabili di legge o di contratti collettivi. E si tratta di una doglianza che, come e' del tutto evidente (se ne ha piena conferma scorrendo un qualsiasi repertorio di giurisprudenza, e la presente controversia ne costituisce un ulteriore esempio), di solito attiene alla causa petendi della controversia promossa da un socio nei confronti di una cooperativa cui abbia prestato attivita' caratterizzata dagli indici che connotano la subordinazione. Sicche' quel limite alla presunzione di non subordinazione, che veniva dalla giurisprudenza prospettato come eccezionale, sarebbe stato di regola presente, vanificando cosi' quella operazione giurisprudenziale volta, come si e' visto, a rendere l'attivita' prestata dal socio d'opera una «zona franca» rispetto alle garanzie dettate a tutela del lavoro subordinato. L'orientamento giurisprudenziale teste' esaminato era quindi contraddittorio, e gia' sotto questo profilo non condivisibile. Ed ulteriori pregnanti considerazioni ne confermano la non condivisibilita'. Giova richiamare due importanti decisioni della Corte costituzionale (Corte costituzionale sentenza del 12 gennaio 1993, n. 121, e Corte costituzionale sentenza del 1994, n. 115) che affermano solennemente nella parte motiva il seguente principio: «... non sarebbe comunque consentito al legislatore negare la qualificazione giuridica di rapporti di lavoro subordinato a rapporti che oggettivamente abbiano tale natura, ove da cio' derivi l'inapplicabilita' delle norme inderogabili previste dall'ordinamento per dare attuazione ai principi, alle garanzie e ai diritti dettati dalla Costituzione a tutela del lavoro subordinato». E' evidente che se nemmeno il legislatore puo' negare la qualifica di rapporti di lavoro subordinato a rapporti che oggettivamente abbiano siffatta natura, a maggior ragione tale possibilita' non puo' essere attribuita all'autonomia negoziale. Come messo in luce da autorevole dottrina le menzionate decisioni della Consulta esprimono un chiaro messaggio: la netta prevalenza della prospettiva della effettivita' del rapporto rispetto alla prospettiva del contratto. E' un messaggio che collega alla subordinazione una esigenza di tutela che coinvolge valori fondamentali della persona riconosciuti a livello costituzionale. Tale esigenza giustifica un complesso di norme inderogabili (complesso che non ha l'eguale negli altri rapporti di diritto privato, e che ha indotto autorevole dottrina a rilevare che il contratto fa nascere il rapporto di lavoro subordinato ma non lo governa) ed impone adeguati strumenti per evitarne la elusione. E la netta prevalenza della prospettiva della effettivita' del rapporto sulla prospettiva del contratto, affermata, come si e' visto, dalla Corte costituzionale, vuole essere una barriera di non poco momento a tentativi di elusione. La subordinazione richiama la accennata esigenza di tutela per almeno due motivi: 1) perche' e' allusiva di una posizione di debolezza economica nei confronti della controparte; 2) perche' comporta un assoggettamento del prestatore alle direttive ed al controllo della controparte nella cui organizzazione e' stabilmente inserito, assoggettamento che per la sua pregnanza, almeno nella maggior parte dei casi, non ha riscontro nelle altre obbligazioni fra privati, e che proprio per tale pregnanza coinvolge direttamente la persona che lavora e reclama una particolare esigenza di tutela (si pensi, a tacere di altro, alla imponente normativa sulla sicurezza). Ora entrambi gli accennati motivi si ravvisano in ordine alla prestazione di lavoro subordinato nelle cooperative. E' infatti agevole rilevare sotto questo profilo la analogia fra chi presta attivita' in forza di un contratto tipico di lavoro subordinato, ed il socio lavoratore che presti attivita' subordinata in una cooperativa che annoveri un rilevante numero di soci (ad esempio parecchie centinaia), che sia soggetto al potere gerarchico e disciplinare esercitato dai membri del consiglio di amministrazione, vincolato all'osservanza di un orario di lavoro, retribuito con una somma fissa mensile o settimanale, inquadrato professionalmente secondo l'inquadramento delineato dalla contrattazione collettiva del settore. Non appaiono quindi condivisibili le considerazioni svolte dalla stessa Corte costituzionale nella sentenza n. 30/1996 con la quale ha dichiarato infondata la questione di illegittimita' dell'art. 2, legge 29 gennaio 1982, n. 297 nella parte in cui non estendeva ai soci delle cooperative di produzione e lavoro la tutela del Fondo di Garanzia per il trattamento di fine rapporto in caso di insolvenza della societa'. Si legge nella parte motiva della suddetta decisione: «Per l'applicazione degli altri aspetti della tutela del lavoro, invece, e in particolare per quelli concernenti la retribuzione, assume rilievo non tanto lo svolgimento di fatto di una attivita' di lavoro connotata da elementi di subordinazione, quanto il tipo di interessi cui l'attivita' e' funzionalizzata e il corrispondente assetto di situazioni giuridiche in cui e' inserita». Ora, sempre secondo la Corte costituzionale in questo caso influenzata da una esasperata ed astratta prospettiva contrattualistica, la prestazione resa dal socio nei confronti di una cooperativa si inserirebbe comunque in un assetto diverso da quello che caratterizza il rapporto di lavoro subordinato. E cio' perche' il socio sarebbe partecipe dello scopo dell'impresa collettiva e si vedrebbe attribuiti «poteri e diritti di concorrere alla formazione della volonta' della societa', di controllo sulla gestione sociale e infine il diritto ad una quota degli utili». Nel discorso svolto nei passi ora trascritti riaffiora il non condivisibile argomento sulla pretesa unicita', in capo al datore ed al prestatore, del centro di interesse; argomento posto a sostegno del risalente orientamento giurisprudenziale che, come si e' visto, ha reso l'attivita' prestata (in modo subordinato) dal socio d'opera una «zona franca» rispetto alle garanzie dettate a tutela del lavoratore subordinato. Si tratta di un argomento non condivisibile perche' viziato da astrattezza. Come e' noto nell'elaborazione dei criteri idonei ad individuare gli estremi della subordinazione, per applicare garanzie previste da norme inderogabili a favore del lavoratore, parte autorevole della dottrina ha teorizzato il c.d. metodo tipologico da contrapporre a quello tradizionale c.d. sussuntivo. Quest'ultimo, fondato sul principio di identita', si limita ad esaminare isolatamente ciascun elemento della fattispecie concreta e ad accertarne la corrispondenza a quello previsto dalla fattispecie astratta. La norma deve ritenersi applicabile al caso concreto qualora, a seguito del suddetto raffronto, ciascun elemento da essa delineato sia rinvenibile nel caso singolo. Il metodo c.d. tipologico, fondato sul diverso principio di approssimazione, prende in considerazione i vari elementi del caso concreto non isolatamente, ciascuno di per se', ma nel loro complesso, li valuta cioe' per il senso che assumono nel loro reciproco collegamento, in quanto parti di un contesto unitario; e porta cosi' ad un giudizio non di identita', ma di equivalenza. E tale metodo tipologico e' stato, consapevolmente o meno, adottato dalla giurisprudenza nel suo concreto operare. Secondo una consolidata giurisprudenza la sussistenza o meno in un caso concreto di un rapporto di lavoro subordinato si ravvisa sulla base dei c.d. indici o spie (prestazione nei locali del datore con uso dei suoi strumenti, osservanza di un orario di lavoro, percezione di una retribuzione fissa, soggezione alle direttive del datore etc...); e, sempre secondo il cennato indirizzo giurisprudenziale, non e' necessario, per ravvisare in un caso concreto gli estremi del lavoro subordinato, che i suddetti indici o spie ricorrano tutti insieme, mentre, nel contempo, la presenza di taluni soltanto di essi non e' incompatibile con un rapporto di lavoro autonomo. E' chiaro che siffatta impostazione e' in contrasto col metodo c.d. sussuntivo che viene quindi ripudiato dalla giurisprudenza, quanto meno nel suo concreto operare. Nell'ordine di idee ispirato dal c.d. metodo tipologico e' agevole rilevare, come si e' gia' accennato, che il socio lavoratore nell'esempio poc'anzi prospettato (cooperativa con centinaia di soci etc....) si presenta in una posizione analoga, secondo appunto un giudizio di equivalenza, a quella del lavoratore subordinato. Si tratta in altri termini di una situazione che valutata nel suo complesso, in base al legame fra i vari elementi che la compongono, si concreta nello stabile inserimento del lavoratore in una organizzazione produttiva, stabile inserimento che, secondo una ormai diffusa ed autorevole opinione, configura la connotazione essenziale del lavoro subordinato. Ne' varrebbe obiettare che tale organizzazione presenta il carattere della alienita' per il prestatore parte di un contratto ex articolo 2094 c.c., mentre tale carattere mancherebbe per il socio in grado di partecipare con diritto di voto alle assemblee sociali ed influenzare cosi' l'attivita' della cooperativa. Tale obiezione non sarebbe convincente. In molti casi la possibilita' del socio di incidere sulla attivita' della cooperativa sarebbe in concreto assai meno pregnante di quella esercitata, in aziende di medie dimensioni, da lavoratori fortemente sindacalizzati, attesa la ormai diffusa «procedimenta1izzazione» del potere direttivo dell'imprenditore. E' bene altresi' sottolineare che il risalente orientamento giurisprudenziale, volto ad escludere la cooperativa dall'area delle norme protettive in tema di subordinazione (norme la cui osservanza comporta, come e' noto, gravosi oneri a carico del datore di lavoro), si risolve anche in una alterazione delle condizioni della concorrenza, perche' in definitiva attribuisce alle cooperative, rispetto agli altri datori di lavoro, una posizione privilegiata per legge. Anche sotto questo profilo si ravvisa l'inaccettabilita' dell'orientamento giurisprudenziale in questione. La esigenza di equiparare il socio lavoratore, che presti nelle cooperative attivita' subordinata, al lavoratore subordinato, proprio perche', per tutte le ragioni esposte, risponde a valori della Costituzione, si e' in concreto affermata nell'ordinamento costituendo il filo conduttore di una evoluzione legislativa volta sempre piu' a parificare il socio delle cooperative di lavoro, il quale presti la propria attivita' subordinatamente, al lavoratore subordinato. Si pensi alla materia dell'assicurazione contro l'invalidita' e la vecchiaia (art. 2, r.d. 28 agosto 1924, n. 1422, e successive modificazioni) e contro gli infortuni sul lavoro (art. 4, n. 7, d.P.R. 30 giugno 1965, n. 1124); alle materie di orario di lavoro (art. 2, r.d. 10 settembre 1923, n. 1955), di riposo domenicale e settimanale (art. 2, legge 22 febbraio 1934, n. 370), di assegni familiari (art. 1, d.P.R. 30 maggio 1955, n. 797), di tutela delle lavoratrici madri (art. 1, legge 30 dicembre 1971, n. 1204); si pensi altresi' all'art. 8, d.l. 20 maggio 1993, n. 148, convertito con legge 19 luglio 1993, n. 236, che ha disposto la equiparazione dei soci lavoratori ai lavoratori dipendenti in relazione alla procedura di CIGS ed a quella di mobilita', estendendo quindi ai soci lavoratori delle cooperative la disciplina dettata dagli artt. 14 e 24 della legge n. 223/1991; e la stessa legge ha esteso ai soci lavoratori di cooperative di produzione e lavoro i principi di non discriminazione diretta ed indiretta di cui alla legge 10 aprile 1991, n. 125; e deve aggiungersi l'art. 24 della legge n. 196/1997 che ha espressamente esteso ai soci lavoratori presso le societa' cooperative la garanzia assicurata dall'INPS in ordine al trattamento di fine rapporto. E' bene sottolineare che la estensione alle cooperative di produzione e lavoro della disciplina in tema di CIGS, di mobilita' ed in tema di divieto di discriminazione e' rivelatrice di una chiara contrapposizione di interessi fra prestatore e datore, e rivela la artificiosita' di quella costruzione che ravvisa in capo a costoro quel preteso centro unitario di interessi che ha ispirato il risalente e consolidato orientamento giurisprudenziale di cui si e' fatto cenno. Attese le considerazioni svolte e' pienamente condivisibile, perche' conforme ai principi della Costituzione, ed in linea con la accennata evoluzione legislativa, di cui ha esplicitato la logica profonda, quella costruzione dottrinale che ha distinto, nelle cooperative di lavoro e con riferimento ai soci lavoratori, due ordini di rapporti, quello sociale e quello di lavoro subordinato. E' stato infatti affermato da recente ed autorevole dottrina che la fruizione di piu' vantaggiose occasioni (che concreta lo scopo mutualistico) non si realizza sulla base del rapporto sociale, ma richiede la creazione di rapporti contrattuali ulteriori rispetto al contratto di societa'. Cosi' in una cooperativa edilizia la fruizione di un alloggio da parte di un socio comporta la stipula di un contratto di compravendita. In questo ordine di idee in una cooperativa di produzione e lavoro viene fornita al socio una occasione di lavoro subordinato (e si realizza cosi' il fine mutualistico) mediante la stipula di un apposito contratto tipico; dal che discende pienamente l'applicazione al relativo rapporto delle tutele sancite da norme inderogabili di legge a favore del lavoratore subordinato. In conclusione passo dopo passo la legislazione (vedi la rassegna di cui sopra) ha equiparato al rapporto di lavoro dipendente il rapporto del socio che presti per la cooperativa di produzione e lavoro attivita' connotata dalla subordinazione. Pertanto la legge n. 142/2001 che, come si e' detto, nell'articolo 1, comma 3 in capo al socio di cooperativa di lavoro distingueva due ordini di rapporti, uno associativo ed uno di lavoro, e nell'articolo 5, comma 2 demandava al giudice del lavoro le controversie attinenti al secondo rapporto, aveva in definitiva portato a compimento, e con estrema chiarezza, la sopra delineata evoluzione del preesistente ordinamento giuridico; evoluzione, e' bene ribadire, ispirata da valori costituzionali, ed esplicitata dalla costruzione dottrinaria appena richiamata. Senonche' il legislatore del 2003 (vedi il piu' volte citato articolo 9, lettera d)) ha compiuto una netta inversione di rotta sottraendo al giudice del lavoro, ed attribuendo al tribunale ordinario, le controversie promosse dal socio di cooperative ed attinenti ad attivita' lavorative comprese nell'oggetto sociale. Controversie ora da trattare col rito c.d. societario di cui al decreto legislativo n. 5/2003, e successive modificazioni. Si tratta di una netta inversione di rotta perche' la cennata innovazione sul rito non produce i suoi effetti nel solo ambito processuale, ma, a ben guardare, sfocia nel diritto sostanziale comportando una massiccia riduzione di garanzie prima riconosciute al socio in regime di subordinazione. E' opportuno ricordare una risalente esigenza di sorreggere ed integrare le garanzie sostanziali riconosciute al lavoratore mediante la previsione di speciali forme processuali aderenti alle peculiarita' delle situazioni sostanziali in materia di lavoro, e cosi' adeguate agli specifici bisogni di tutela ad esse connaturate. Da oltre un secolo si e' affermato nel nostro ordinamento, sia pure attraverso il succedersi di discipline notevolmente diverse, un rito speciale del lavoro. Tale affermazione ha preso le mosse con la istituzione dei collegi dei probiviri in forza della legge 15 giugno 1893, n. 195; e nel periodo del fascismo la legge 3 aprile 1926, n. 563, ha istituito la magistratura del lavoro. Se successivamente la disciplina delle controversie del lavoro e' rifluita nel codice di procedura del 1942, l'esigenza di un rito speciale del lavoro e' stata nuovamente realizzata con la legge 11 agosto 1973, n. 533. Gia' questa breve disamina dell'esperienza legislativa mette sull'avviso che il mutamento di rito introdotto dalla legge n. 30/2003 non limita i suoi effetti all'ambito processuale. Giova in proposito sottolineare che il c.d. rito societano ex decreto legislativo n. 5/2003, e successive modifiche, come ha messo in luce la dottrina che ne ha fatto oggetto dei primi approfondimenti, e' ispirato dalla visione del processo come di «un gioco tra le parti» in cui la comparsa del giudice e' lasciata alla volonta' di esse e trasposta in teoria ad un tempo indefinito. Si tratta quindi, come ha sottolineato la dottrina, di un rito tendenzialmente «paritario» privo di un qualsiasi connotato di tutela di una parte debole, quindi agli antipodi dello spirito informatore del diritto del lavoro mosso, come e' noto, dalla esigenza di fondo di tutela del lavoratore considerato parte debole del rapporto. Il legislatore del 2003 ha quindi operato in macroscopico contrasto con la tradizionale tendenza di elaborare in relazione al diritto del lavoro moduli processuali aderenti alle peculiarita' delle situazioni sostanziali. Un esame specifico consente di rilevare agevolmente in tutta la loro portata le massicce riduzioni di garanzie, in danno del socio lavoratore, che discendono dal mutamento di rito introdotto dalla legge n.30/2003. Innanzitutto il processo societario comporta maggiori costi, soprattutto se demandato ad arbitri (sulla devoluzione ad arbitri si vedra' approfonditamente piu' oltre), con evidente pregiudizio del lavoratore soprattutto per le controversie di non rilevante entita' economica, e sotto questo profilo gia' si ravvisa un possibile contrasto con l'articolo 24 della Costituzione. Inoltre nel rito societario il giudice e' privo dei poteri istruttori di ufficio che sono attribuiti al giudice del lavoro per assicurare piu' adeguatamente la ricerca della verita' e quindi la tutela della parte piu' debole che faccia fondatamente valere un suo diritto. Deve aggiungersi che al socio lavoratore viene sottratta la garanzia di cui all'ultimo comma dell'articolo 429 c.p.c. (rivalutazione automatica del credito) connaturata al rito del lavoro. Ed ancora. Se le controversie fra socio lavoratore e cooperativa vengono trattate col rito societario i correlativi rapporti sostanziali esulano dalla previsione di cui all'articolo 409 c.p.c., con la conseguenza che ad essi non e' piu' applicabile l'articolo 2113 c.c. che assicura una specifica garanzia al prestatore. Ma non basta. L'articolo 34 del decreto legislativo n. 5/2003 consente agli atti costitutivi della cooperativa la devoluzione ad arbitri di tutte le controversie insorgenti fra i soci ovvero tra i soci e le societa' che abbiano ad oggetto diritti disponibili relativi al rapporto sociale e specifica al comma 3 che la clausola compromissoria e' «... vincolante per la societa' e per tutti i soci, inclusi coloro la cui qualita' di socio e' oggetto della controversia.»; e l'articolo 36 del predetto decreto dispone che l'arbitrato secondo equita' va escluso solo qualora gli arbitri: «... per decidere abbiano conosciuto di questioni non compromettibili, ovvero quando l'oggetto del giudizio sia costituito dalla validita' delle delibere assembleari.». Pertanto i diritti dei soci nascenti dalla prestazione di attivita' lavorativa resa a favore della cooperativa di produzione e lavoro, e compresa nell'oggetto sociale, sono compromettibili ad arbitri autorizzati a decidere secondo equita'. Sono compromettibili perche' caratterizzati da entrambi i requisiti previsti dal citato articolo 34, vale a dire: 1) sono pienamente disponibili, esclusa, come si e' gia' visto, la applicabilita' dell'articolo 2113 c.c.; 2) discendono da una prestazione lavorativa che, almeno sotto il profilo processuale (vedi sopra), confluisce nel rapporto sociale. La accennata compromettibilita' ad arbitri autorizzati a decidere equitativamente costituisce la conseguenza piu' devastante in pregiudizio dei soci lavoratori. Va ribadito che la esigenza di tutela del lavoratore considerato parte debole del rapporto costituisce il principio di fondo su cui il diritto del lavoro nasce e si sviluppa quale ramo dell'ordinamento dotato, rispetto al diritto civile, di una sua pur relativa autonomia caratterizzata da principi di settore. Ed uno dei pilastri di siffatta tutela e' un apparato protettivo assicurato da norme - di legge o di contratto collettivo - che sono unilateralmente inderogabili in sede di autonomia individuale, vale a dire che si sostituiscono automaticamente a clausole contrattuali difformi in senso peggiorativo per il lavoratore. Tale apparato protettivo, in quanto volto a controbilanciare la disparita' di fatto fra le parti del rapporto di lavoro, trova fondamento innanzitutto nel secondo comma dell'articolo 3 della Costituzione che sancisce, quale compito della Repubblica, rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che limitano di fatto la eguaglianza dei cittadini; trova altresi' fondamento negli articoli 35 e 36 che proclamano la tutela del lavoro. Ora ognuno vede come sia contraddittorio disciplinare un rapporto con norme inderogabili e nel contempo demandare le relative controversie ad arbitri autorizzati a decidere secondo equita', vale a dire autorizzati a non osservare le suddette norme. E' una contraddizione che si risolve nella pratica vanificazione della inderogabilita' e dell'esigenza di tutela ad essa sottesa. Vanificando la inderogabilita' delle norme che disciplinano il rapporto di lavoro si colpisce al cuore lo spirito informatore del diritto del lavoro, e di fatto si priva il socio lavoratore di un apparato protettivo frutto di una lunga evoluzione che ha interessato il secolo appena trascorso. E' illuminante in proposito sottolineare che anche ai probiviri era stata demandata una giurisdizione di equita'. Ma si era nel 1893, mancava all'epoca un diritto del lavoro col suo apparato protettivo (a parte alcune sparse e specifiche disposizioni, in particolare sulla tutela dei fanciulli), sicche' la disciplina del rapporto di lavoro andava rinvenuta nel diritto civile. In questo contesto la giurisdizione di equita' dei probiviri aveva proprio lo scopo di adeguare il diritto civile alle peculiarita' del rapporto di lavoro, ed alle esigenze di tutela ad esso connaturate. Oggi invece, con una sorta di paradossale inversione, viene introdotta una giurisdizione di equita' potenzialmente idonea a smantellare un ormai collaudato apparato protettivo predisposto a tutela del prestatore, ed a stemperare cosi' il diritto del lavoro nel diritto civile. Attese le considerazioni svolte e' agevole rilevare gli aspetti di illegittimita' costituzionale che viziano l'articolo 9, comma 1, lettera d) della legge n. 30/2003 nella parte in cui sottrae al giudice del lavoro, e sottopone al rito ex decreto legislativo n. 5/2003, le controversie fra soci e cooperative di lavoro ed attinenti alle prestazioni lavorative rese dal socio e comprese nell'oggetto sociale. Si ravvisa un contrasto con gli articoli 24, 35 e 36 della Costituzione, e con l'articolo 3, secondo comma della Costituzione nella parte in cui demanda alla Repubblica di rimuovere gli ostacoli che di fatto limitano la eguaglianza dei cittadini. Come si e' gia' accennato la norma che si sta esaminando apre la strada allo smantellamento di un apparato di garanzie assicurate al socio lavoratore in attuazione appunto di citati articoli 3, 24, 35 e 36 della Costituzione. Ora, come ha messo in luce autorevole dottrina, la soppressione, o la limitazione di garanzie gia' sancite dal legislatore ordinario in attuazione di principi costituzionali si risolve in un contrasto con quei principi stessi perche' ne sopprime, o ne limita la gia' avvenuta attuazione. Detto contrasto potrebbe superare il vaglio di illegittimita' costituzionale solo qualora una situazione sopravvenuta imponga la limitazione delle suddette garanzie a salvaguardia, in una prospettiva di bilanciamento, di altri valori costituzionali. Tale conclusione trova tra l'altro un saldo fondamento normativo nella lettera G) della parte V della Carta Sociale Europea che, tradotto in lingua italiana, recita: «I diritti ed i principi enunciati nella parte prima, quando saranno effettivamente attuati, e l'esercizio effettivo di tali diritti e principi come previsto nella parte seconda non potranno essere oggetto restrizioni o di limitazioni non specificate nelle parti I e II ad eccezione di quelle stabilite dalla legge e che sono necessarie, in una societa' democratica, per garantire il rispetto dei diritti e delle liberta' altrui o per proteggere l'ordine pubblico, la sicurezza nazionale, la salute pubblica o il buon costume». E' pur vero che la Carta Sociale Europea non e' direttamente applicabile nell'ordinamento interno della Repubblica italiana, tuttavia, firmata a Strasburgo il 3 maggio 1996, e' stata ratificata dall'Italia con legge 9 febbraio 1999, n. 30 - Gazzetta Ufficiale 23 febbraio 1999, supplemento ordinario - ed e' entrata in vigore il 1° settembre 1999, a seguito dello scambio degli strumenti di ratifica avvenuto il 6 luglio 1999, e comunicato in Gazzetta Ufficiale 5 ottobre 1999, n. 234. Pertanto i principi da essa affermati rivestono valore quanto meno in sede interpretativa. Ebbene nella specie non si ravvisano, in relazione ad una norma come l'articolo 1, lettera d) della legge n. 30/2003 che disciplina il rito per la trattazione di una determinata categoria di controversie, sopravvenute esigenze tali da giustificare, a salvaguardia di altri valori costituzionali, e secondo il criterio di un ragionevole bilanciamento, la pesante riduzione, di cui si e' detto, delle garanzie gia' riconosciute al socio lavoratore. Appare quindi tutt'altro che manifestamente infondato il sospetto che si ponga in contrasto con gli articoli 3, 24, 35 e 36 della Costituzione l'articolo 9, comma 1, lettera d) della legge n. 30/2003 nella parte in cui sottrae al giudice del lavoro le controversie fra soci e cooperative e relative a prestazioni rese dai primi ed attinenti all'oggetto sociale. Ed e' ravvisabile un ulteriore contrasto con l'articolo 3 della Costituzione almeno sotto altri due profili oltre a quello gia' esaminato. Il primo riguarda la violazione del principio di uguaglianza per disparita' di trattamento. Invero il socio di cooperativa perde le tutele connaturate al rito del lavoro, e si trova cosi' in una situazione sperequata in relazione non solo agli altri lavoratori subordinati, ma anche ai titolari di altri rapporti, aventi per oggetto una prestazione lavorativa, che presentano solo un fondamento associativo - senza alcun contratto di lavoro (neppure accessorio o collegato, come e' invece per il socio di cooperativa di lavoro) - ed in ordine ai quali la giurisprudenza pacificamente riconosce la competenza funzionale del giudice del lavoro (vedi la associazione in partecipazione, o l'impresa familiare). Una disparita' priva di ragionevole giustificazione atteso che lo stesso legislatore, come si e' gia' visto, nell'arco di diversi anni, muovendosi secondo una costante direzione, ha sempre piu' assimilato il socio lavoratore in regime di dipendenza al lavoratore subordinato. Il secondo profilo riguarda la violazione del principio di ragionevolezza. Il legislatore, fatta una scelta di fondo deve, per esigenze di ragionevolezza e di coerenza, ad essa mantenersi fedele. Sono certamente ammissibili deroghe, purche' restino appunto tali; vi e' un limite oltre il quale le deroghe ad una scelta di fondo diventano cosi' numerose e massicce da risolversi nella sua pratica vanificazione. E' bene chiarire. La revoca di una scelta di fondo ed una conseguente radicale inversione di rotta, sono ammissibili qualora rientrino nella discrezionalita' del legislatore. Tuttavia una elementare esigenza di ragionevolezza impone che vengano attuate in modo trasparente, e non siano operate in modo surrettizio, vale a dire attraverso deroghe che solo apparentemente rispettino una scelta di fondo gia' attuata, mentre in realta' la travolgono (in ordine al principio di ragionevolezza quale limite posto alla discrezionalita' del legislatore vedi Corte costituzionale sentenza n. 72 e n. 87 del 1962; n. 7 del 1965: n. 94 del 1966; n. 103 del 1969; n. 190 del 1971; n. 9 del 1975). Ebbene nel caso in esame (anche a prescindere dal gia' sottolineato contrasto fra la inversione di rotta operata dal legislatore e valori costituzionali) proprio questo principio di trasparenza viene violato. Come si e' visto con l'articolo 9, comma 1, lettera d) della legge n. 30/2003 viene predisposto uno strumento idoneo a smantellare, in pregiudizio del socio lavoratore, un complesso apparato protettivo a tutela del lavoro subordinato, frutto di una evoluzione legislativa che ha trovato la sua espressione piu' alta in norme della Costituzione. Ed a siffatto smantellamento si provvede non in modo diretto e trasparente, ma in modo obliquo, attraverso una norma che apparentemente si occupa di tutt'altra cosa, si occupa cioe' del rito da applicare alle controversie tra soci e societa' cooperative. Attesi i motivi sopra esposti si ravvisa la non manifesta infondatezza della questione di illegittimita' costituzionale dell'articolo 9, comma l, lettera d) della legge n. 30/2003, nella parte sopra specificata, per contrasto con gli articoli 3, 24, 35, 36, della Costituzione. Rilevanza della questione La questione e' anche rilevante nel presente processo perche' incide sui suoi futuri sviluppi. Infatti allo stato, ai sensi dell'articolo 9, comma 1, lettera d) della legge n. 30/2003, deve ritenersi applicabile il rito societario, sicche' andrebbe disposto il mutamento di rito in ordine alla presente controversia instaurata avanti al giudice del lavoro, e da trattarsi invece col rito delineato dal decreto legislativo n. 5/2003. Il mutamento di rito comporterebbe, ai sensi del comma 5 dell'articolo 1 del citato decreto n. 5/2003, la cancellazione della causa dal ruolo. L'accoglimento della questione di illegittimita' costituzionale, come sopra sollevata, consentirebbe invece la prosecuzione della presente controversia avanti a questo giudice, e col rito delineato dagli articoli 413 ss c.p.c.