LA CORTE DI APPELLO Ha pronunziato la seguente ordinanza nella procedura di cui agli artt. 2 e segg. legge 24 marzo 2001, n. 89 e relativa al ricorso depositato il 23 maggio 2005 da Cinti Enrico, Clementi Mario, Cuccaro Giovanni, De Ciani Sabatino, Della Sala Domenico, Galletti Manuela quale erede di Galletti Danilo, Gepponi Mario, La Rocca Giovanni, Mannucci Maria Pia quale erede di Coppolino Emanuele, Martino Giuseppe, Massariello Vincenzo, Merlino Domenico, Miola Martino, Morrocchi Learco, Musicco Giuseppe, Passatelli Alcibiade, Pezza Ivo, rappresentati e difesi dall'avv. Gabriele De Paola e con domicilio eletto presso l'avv. Raffaele De Sanctis con studio in Genova, piazza del Portello n. 2/3 come da mandati in calce ai ricorsi introduttivi presentati avanti alla Corte di appello di Firenze, ricorrenti; Contro Presidenza del Consiglio dei ministri, in persona del Presidente del Consiglio pro tempore, rappresentato e difeso dall'Avvocatura distrettuale dello Stato di Genova, presso i cui uffici domicilia in Genova, viale Brigate Partigiane n. 2, resistente. Letto il ricorso depositato il 23 maggio 2005 dai sopra indicati ricorrenti nei confronti del Presidente del Consiglio dei ministri con il quale si lamenta l'irragionevole durata di un processo introdotto avanti al Tribunale amministrativo regionale Toscana nei confronti del Ministero della difesa con il quale si chiedeva la declaratoria del diritto all'estensione dell'indennita' militare di cui all'art. 2 d.l. 16 settembre 1987, n. 739, convertito in legge 14 novembre 1987, n. 468 e di cui all'art. 9, legge 8 agosto 1990, n. 231, nonche' del diritto alla commutabilita' della suddetta indennita' militare nel computo dell'indennita' di buonuscita; che, infatti, essi avevano interposto ricorso avanti al Tribunale amministrativo regionale Toscana fin dal 22 gennaio 1996, ma il procedimento si era concluso solo con sentenza di rigetto del 19 maggio 2003; che, secondo i ricorrenti, l'eccessiva durata di questa procedura (anni 7 e mesi 3 circa) in violazione dei principi espressi dall'art. 6, par. 1 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo aveva causato loro mortificazioni e disagi; che, pertanto, i ricorrenti concludevano chiedendo il risarcimento del danno non patrimoniale o morale, da liquidarsi in un importo di euro 5.000,00 ciascuno, oltre rivalutazione ed interessi legali, vinte le spese; che era disposta l'acquisizione di ufficio degli atti e dei documenti del giudizio amministrativo per il quale era dedotta la violazione del termine ragionevole; che all'udienza del 22 settembre 2005 in Camera di consiglio, le parti illustravano le rispettive difese, richiamando i ricorrenti la sentenza n. 9921/2005 della suprema Corte che riconosce il buon diritto dei ricorrenti all'equo indennizzo anche in caso di pronuncia sfavorevole e la Corte si riservava di decidere; che ai sensi dell'art. 3, primo comma, legge n. 89/2001 «la domanda di equa riparazione si propone dinanzi alla Corte di appello del distretto in cui ha sede il giudice competente ai sensi dell'art. 11 del codice di procedura penale a giudicare nei procedimenti riguardanti i magistrati nel cui distretto e' concluso o estinto relativamente ai gradi di merito ovvero pende il procedimento nel cui ambito la violazione si assume verificata»; che, dunque, questa Corte, essendo stato il giudizio definito nel grado di merito avanti al Tribunale amministrativo regionale Toscana, ha piu' volte in passato sostenuto, in conformita' del resto alle decisioni della Corte di appello di Firenze che, come nel caso in esame, ha dichiarato sui singoli ricorsi presentati avanti ad essa dai ricorrenti la propria incompetenza essendo competente la Corte di appello di Genova, la tesi che effettivamente sussiste la sua competenza a decidere in merito al diritto all'equa riparazione dei ricorrenti in circostanze come quella in esame, essendo essa competente con riferimento al vigente disposto dell'art. 11 del codice di procedura penale anche con riferimento alla giurisdizione amministrativa; che, pero', la suprema Corte di cassazione gia' con sua pronuncia del 12 novembre 2002, n. 1653/03 in materia di controversie amministrative e con altre successive numerose e costanti decisioni anche con riferimento a controversie pendenti o definite dalla Corte dei conti ha affermato, in plurimi regolamenti di competenza (Cass. 17 settembre 2003, n. 13727, Cass. 10 gennaio 2003, n. 10902, Cass. 7 aprile 2004, n. 6894 e per le controversie amministrative Cass. n. 1653/03, Cass. 7721/03, Cass. 11300/04), che la competenza territoriale per la trattazione dei ricorsi riguardanti ritardi verificatisi nel corso di giudizi svoltisi davanti a giudici diversi da quelli ordinari deve essere individuata secondo i principi generali con riferimento all'art. 25 c.p.c. con esclusione pertanto della rimessione al giudice territorialmente individuato in base all'art. 11 c.p.p.; che, infatti, secondo questa interpretazione della suprema Corte ormai consolidata (vedi per tutte Cass. l3 maggio 2004, n. 9170) che ben puo' quindi definirsi diritto vivente, il riferimento al distretto - sia per indicare l'appartenenza del giudice che si e' occupato o si occupa del procedimento in relazione al quale l'equa riparazione e' chiesta, sia per individuare il giudice competente - comporta la applicazione del criterio di competenza di cui alla norma soltanto ai magistrati ordinari per i quali soltanto e' prevista - ad eccezione della Corte di cassazione - l'articolazione territoriale su base distrettuale; che, secondo la Corte suprema, invece, i tribunali amministrativi cosi' come le sezioni giurisdizionali della Corte dei conti sono articolati in circoscrizioni regionali, che comprendono le province facenti parte delle singole regioni, ed hanno sede nei capoluoghi di regione, per cui i giudici di queste giurisdizioni non fanno parte di alcun distretto di Corte di appello, il che e' sufficiente per escludere l'applicabilita' ai detti giudici del criterio di competenza stabilito dall'art. 3, primo comma, legge n. 89/2001; che, del resto, prosegue la Corte, questa conclusione trova conferma anche nella ratio della norma sopra menzionata in quanto l'art. 3 ha inteso derogare ai criteri generali di competenza non in generale ma allo scopo di evitare che i giudizi in tema di equa riparazione fossero decisi da magistrati ordinari operanti nello stesso distretto, introducendo cosi', con la regola sulla competenza, un principio di imparzialita' che non viene in discussione nei rapporti tra magistrati appartenenti ad ordini giurisdizionali distinti; che, dunque, secondo la Cassazione, per il suo carattere derogatorio e percio' eccezionale, la norma non puo' essere applicata in via analogica o estensiva oltre i casi da essa considerati (art. 14 disp. sulla legge in generale), per cui nei giudizi per equa riparazione, in relazione a dedotta durata irragionevole di processi celebrati davanti a giudici non articolati su base distrettuale, la competenza per territorio deve essere individuata secondo i principi generali: e, quindi, essendo convenuta in giudizio l'amministrazione dello Stato, con riferimento all'art. 25 cod. proc. civ. (foro della p.a.), secondo il quale la competenza appartiene alla Corte di appello nel distretto della quale si trova il luogo ove e' sorta o deve eseguirsi l'obbligazione e cioe' il medesimo in cui e' sito il giudice speciale; che, dunque, a fronte della dichiarazione di incompetenza del Giudice di Firenze e della intervenuta riassunzione del giudizio avanti a questa Corte, il Collegio e' posto, secondo la Cassazione, nella necessita' di sollevare di ufficio conflitto di competenza, a meno che la norma di cui all'art. 3, primo comma, legge n. 89/2001 non venga dichiarata incostituzionale nella parte in cui attribuisce la competenza alla Corte di appello del medesimo distretto ove e' sito il giudice speciale, per cui la questione che verra' di seguito esposta e' indubbiamente rilevante ai fini del decidere; che, infatti, in analoga situazione, la Corte costituzionale ha gia' affermato il principio per cui deve essere respinta l'eccezione di inammissibilita' della questione di costituzionalita' formulata sul rilievo che il remittente avrebbe dovuto egli stesso attribuire alla norma impugnata il significato ritenuto piu' idoneo a superare i prospettati dubbi di legittimita' costituzionale, in quanto, in presenza di un orientamento giurisprudenziale consolidato che abbia acquisito i caratteri del «diritto vivente», la valutazione se uniformarsi o meno a tale orientamento e' una mera facolta' del giudice remittente (vedi ad es. Corte costituzionale, 12 marzo 2004, n. 91); che, dunque, legittimamente questa Corte di appello rileva come la predetta interpretazione della suprema Corte, che in verita' travalica totalmente il letterale dettato dell'art. 3, legge n. 89/2001, non possa tutelare adeguatamente l'esigenza di indifferenza personale del giudice (e dell'assenza di motivi di sosperto di possibile carenza di indifferenza), messa in pericolo dalla convivenza dei magistrati dei vari ordini nella medesima sede funzionale e che ben invece questa esigenza debba essere fatta in realta' valere appunto direttamente e letteralmente dall'art. 3, primo comma, legge n. 89/2001 (senza alcun ricorso pertanto ad inutili interpretazioni estensive od analogiche e con pronuncia di incostituzionalita' di quella consolidatasi); che, infatti, proprio la inesistenza di una siffatta convivenza nella medesima sede esclude, per una recente decisione della stessa Cassazione (sez. I, 1° agosto 2003, n. 11715), che un problema di imparzialita' ed indipendenza dell'organo giudicante si possa ritenere esistente tra i magistrati ordinari delle diverse Corti di appello, anche se gli uni giudicano dei ritardi degli altri o dei loro colleghi e segretari, e non si vede dunque perche' all'opposto tale convivenza nella stessa sede non debba assumere un rilievo costituzionalmente rilevante per i giudizi di cui alla legge n. 89/2001 solo perche' i giudici appartengono a diverse giurisdizioni, non apparendo, anche in questa circostanza, come sara' in seguito precisato, sufficienti a garantire l'imparzialita' e l'indipendenza del giudicante (valori costituzionalmente protetti) gli istituti dell'astensione e della ricusazione che fanno riferimento a casi singoli e non a situazioni generali gia' in astratto riscontrabili; che questa dovrebbe dunque essere ritenuta la vera ratio del disposto dell'art. 3, legge n. 89/2001, per cui l'attuale consolidata interpretazione che ne esclude l'applicabilita' alle giurisdizioni speciali e per esse fa richiamo alla competenza prevista dalla disciplina codicistica, in base anche ad una esclusione della necessita' di tutela nei predetti casi dei sopra menzionati principi costituzionali, appare al contrario costituzionalmente illegittima perche' non puo' garantire appunto l'imparzialita' e l'indipendenza del giudice con riferimento alla identita' della sede nei giudizi in esame; che cio' appare evidente con tutta chiarezza nel caso dei giudizi per equo indennizzo da irragionevole durata del processo concernenti controversie affidate alla giurisdizione della Corte dei conti, posto che il giudice ordinario deve in tale circostanza giudicare di eventuali ritardi ingiustificati (anche eventualmente addebitabili direttamente ai magistrati della Corte dei conti con le relative conseguenze amministrative) proprio di quegli stessi magistrati e relativo personale, conviventi nella medesima sede del distretto di Corte d'appello, dinanzi ai quali a loro volta potrebbero doversi difendere per ritardi ingiustificati egli stesso o i suoi colleghi di sede o il relativo personale di cancelleria (art. 5, legge n. 89/2001); che ognuno puo' quindi cogliere la confusione tra controllori e controllati che inevitabilmente ne consegue in relazione alla medesima controversia (che riguarda i ritardi dei processi) e la conseguente legittimita' della richiesta da parte di questa Corte di una verifica costituzionale del diritto vivente, che non puo' ritenersi, salva la valutazione della Corte costituzioriale, manifestamente infondata; che ne deriva in conclusione che il disposto dell'art. 3, primo comma, legge n. 89/2001, nell'interpretazione consolidata della suprema Corte e di quasi tutte le Corti di merito e percio' tale, si ribadisce, da costituire ormai vero e proprio diritto vivente, potrebbe essere ritenuto costituzionalmente illegittimo per violazione degli artt. 97, comma 1 e 108 Cost. nella parte in cui esso non risulta applicabile per la determinazione della competenza territoriale funzionale della Corte d'appello adita ai sensi dell'art. 11 c.p.p. anche a tutte le giurisdizioni speciali tra le quali quella della Corte dei conti; che, infatti, da quanto sopra esposto consegue, poiche' l'interpretazione dell'art. 3, primo comma, legge n. 89/2001 proposta dalla suprema Corte non individua alcuna differenza di argomenti per stabilire la competenza territoriale funzionale a giudicare dell'equo indennizzo in relazione ai procedimenti iniziati presso le varie giurisdizioni speciali, assoggettandole tutte a quella individuabile ex art. 25 c.p.c. in alternativa a quella prevista dall'art. 3, legge n. 89/2001 per i magistrati ordinari, che la eventuale dichiarazione di incostituzionalita' non potra' riferirsi solo alla Corte dei conti, ma a tutte le predette giurisdizioni speciali tra cui in primo luogo quella del giudice amministrativo; che pertanto gli atti vanno rimessi alla Corte costituzionale e va disposta la sospensione del procedimento camerale in corso.