ha pronunciato la seguente

                              Sentenza

nel  giudizio  di legittimita' costituzionale dell'art. 9, commi 12 e
13,  in  combinato  disposto  con  l'art. 11,  comma 3; dell'art. 19,
comma 2,  lettera b),  n. 2,  e  dell'art. 10,  comma 1,  lettera d),
entrambi   in   relazione   all'art. 55,   comma 1,   lettera b),   e
all'art. 57,   comma 1,   lettere a)  e  b);  dell'art. 27,  comma 1,
lettera e),  n. 4, e dell'art. 33 della legge della Regione Lombardia
11 marzo  2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio), promosso
con  ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri, notificato il
16 maggio  2005,  depositato  in  cancelleria il successivo 24 maggio
2005 ed iscritto al n. 62 del registro ricorsi 2005.
    Visto  l'atto di costituzione della Regione Lombardia nonche' gli
atti di intervento di TIM ITALIA S.p.a. e di VODAFONE OMNITEL N.V;
    Udito  nell'udienza  pubblica  del  21 febbraio  2006  il giudice
relatore Gaetano Silvestri;
    Uditi  l'avvocato  dello  Stato Giuseppe Fiengo per il Presidente
del  Consiglio  dei  ministri  e  gli avvocati Andrea Manzi e Nicolo'
Zanon per la Regione Lombardia.

                          Ritenuto in fatto

    1.  -  Con  ricorso  notificato il 16 maggio 2005 e depositato il
24 maggio   2005,   il   Presidente   del   Consiglio  dei  ministri,
rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello  Stato, ha
promosso  questione  di  legittimita'  costituzionale  del  combinato
disposto   dell'art. 9,  commi 12  e  13,  e  dell'art. 11,  comma 3;
dell'art. 19,  comma 2,  lettera b),  n. 2,  e dell'art. 10, comma 1,
lettera d), entrambi in relazione all'art. 55, comma 1, lettera b), e
all'art. 57,   comma 1,   lettere a)  e  b);  dell'art. 27,  comma 1,
lettera e),  n. 4, e dell'art. 33 della legge della Regione Lombardia
11 marzo   2005,   n. 12  (Legge  per  il  governo  del  territorio),
pubblicata  nel Bollettino Ufficiale della Regione n. 11 del 16 marzo
2005,  in  riferimento  all'art. 117,  primo  e  terzo  comma,  della
Costituzione.
    L'Avvocatura   dello   Stato,  preliminarmente,  precisa  che  la
presentazione  del ricorso e' stata decisa dal Consiglio dei ministri
nella  riunione  del 13 maggio 2005 e che «si depositeranno» estratto
del  verbale  e  relazione  del  Ministro proponente. L'estratto e la
relazione risultano pero' depositati contestualmente al ricorso.
    Il  ricorrente  passa  poi  ad  inquadrare  l'oggetto della legge
impugnata nella materia «governo del territorio» di cui all'art. 117,
terzo  comma,  Cost.  ed  inizia l'esame delle singole norme poste ad
oggetto del ricorso.
    1.1.  -  In  primo  luogo,  e'  censurato  il  combinato disposto
dell'art. 9,  commi 12  e  13,  e  dell'art. 11, comma 3. Il comma 12
dell'art. 9  prevede  la  possibilita'  da  parte del proprietario di
un'area sottoposta a vincoli espropriativi di realizzare direttamente
attrezzature  e  servizi indicati dal «piano dei servizi», per la cui
attuazione e' preordinato il vincolo di espropriazione. Il successivo
comma 13  stabilisce che «non configurano vincolo espropriativo e non
sono  soggette  a  decadenza  le previsioni del piano dei servizi che
demandino  al  proprietario  dell'area  la  diretta  realizzazione di
attrezzature   e  servizi,  ovvero  ne  contemplino  la  facolta'  in
alternativa  all'intervento  della pubblica amministrazione». Infine,
l'art. 11,  al  comma 3, dopo aver stabilito che «alle aree destinate
alla  realizzazione  di  interventi di interesse pubblico o generale,
non disciplinate da piani e da atti di programmazione, possono essere
attribuiti,  a  compensazione della loro cessione gratuita al comune,
aree   in   permuta   o  diritti  edificatori  trasferibili  su  aree
edificabili  previste  dagli  atti  di PGT anche non soggette a piano
attuativo»,  prevede  che,  in  alternativa  a  tale  attribuzione di
diritti  edificatori,  «sulla  base  delle  indicazioni del piano dei
servizi  il  proprietario puo' realizzare direttamente gli interventi
di   interesse   pubblico   o  generale,  mediante  accreditamento  o
stipulazione  di  convenzione  con  il  comune  per  la  gestione del
servizio».
    L'Avvocatura  dello  Stato  ritiene  che le norme sopra indicate,
qualora l'entita' dei lavori da realizzare superi la soglia stabilita
dalla normativa comunitaria, si pongano in contrasto con quest'ultima
e con la normativa statale che disciplina le modalita' di affidamento
degli appalti pubblici di lavori e servizi. In particolare, sarebbero
violati  i  principi  generali  del  Trattato  sull'Unione europea in
materia  di  tutela  della concorrenza e, nell'ambito specifico degli
appalti, le direttive del Consiglio delle Comunita' europee 92/50 del
18  giugno 1992 (Direttiva del Consiglio che coordina le procedure di
aggiudicazione  degli  appalti  pubblici  di  servizi),  93/36 del 14
giugno 1993  (Direttiva  del  Consiglio  che coordina le procedure di
aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture), 93/37 (Direttiva
del  Consiglio  che  coordina  le  procedure  di aggiudicazione degli
appalti  pubblici  di  lavori),  93/38  (Direttiva  del Consiglio che
coordina  le  procedure di appalto degli enti erogatori di acqua e di
energia, degli enti che forniscono servizi di trasporto nonche' degli
enti  che operano nel settore delle telecomunicazioni), e le relative
norme  statali di attuazione, che prevedono il ricorso a procedure di
aggiudicazione  ad  evidenza  pubblica  per  la  realizzazione  degli
interventi in questione. In proposito viene specificamente richiamato
l'art. 19,  comma 01,  della  legge  11 febbraio  1994, n. 109 (Legge
quadro  in materia di lavori pubblici), secondo cui i lavori pubblici
possono   essere  realizzati  esclusivamente  mediante  contratto  di
appalto  o  di  concessione;  quest'ultimo contratto, come ricorda il
ricorrente,   negli   anni   e'   stato  equiparato  dalla  normativa
comunitaria  agli  appalti  pubblici, quanto alla procedura di scelta
del  contraente, proprio per evitare che diventasse uno strumento per
eludere la disciplina comunitaria in materia.
    Nel  ricorso  governativo  si osserva che lo «scambio» ipotizzato
nelle  norme  impugnate,  tra il proprietario dell'area, che realizza
direttamente  i servizi previsti nel piano, e l'ente pubblico, che li
acquista,  «riguarda  comunque valori e diritti di stretta pertinenza
pubblica,   in  relazione  ai  quali  il  soggetto  privato  acquista
connotazioni  tipiche di «organismo di diritto pubblico», tali da non
poter   ragionevolmente   sottrarsi   all'onere  di  realizzare  tali
interventi (finanziati, come detto, in tutto o in parte con risorse e
diritti  di  appartenenza  pubblica) attraverso procedure di evidenza
pubblica  che assicurino il miglior uso delle risorse collettive». Si
ricorda,  al  riguardo,  la  sentenza  della Corte di giustizia delle
Comunita'  europee,  sez.  VI, del 12 luglio 2001, in causa C-399/98,
secondo  cui, qualora il titolare di una concessione edilizia o di un
piano   di   lottizzazione   realizzi   direttamente   le   opere  di
urbanizzazione,  a  scomputo  totale o parziale dei contributi dovuti
per  il rilascio della concessione, si e' in presenza in ogni caso di
un  appalto  di  lavori  secondo  la  normativa  comunitaria,  con il
conseguente  ricorso alle procedure di evidenza pubblica allorche' il
valore  dell'opera  eguagli  o  superi  la soglia comunitaria. Questa
conclusione  sarebbe  confermata  dall'art. 2,  comma 5,  della legge
n. 109 del 1994, il quale dispone che, per le singole opere d'importo
superiore  alla soglia comunitaria, i soggetti privati sono tenuti ad
affidare  le  stesse  nel  rispetto  delle procedure di gara previste
dalla direttiva 93/37/CEE.
    1.2.  -  Sono  oggetto  di  censura, inoltre, l'art. 19, comma 2,
lettera b),  n. 2,  e  l'art. 10,  comma 1,  lettera d),  entrambi in
relazione  all'art. 55,  comma 1, lettera b), e all'art. 57, comma 1,
lettere a) e b), della impugnata legge della Regione Lombardia.
    La  prima  delle  norme  citate prevede che il piano territoriale
regionale  definisca  gli  indirizzi  generali  per  il riassetto del
territorio   ai   fini   della   prevenzione  dei  rischi  geologici,
idrogeologici  e  sismici,  secondo quanto disposto dall'articolo 55,
comma 1,  lettera b).  Quest'ultima  norma, a sua volta, assegna alla
competenza della Giunta regionale la definizione degli «indirizzi per
il  riassetto  del  territorio, anche in raccordo con i contenuti dei
piani  di  bacino,  ai fini della prevenzione dei rischi geologici ed
idrogeologici e della loro mitigazione», nonche' delle «direttive per
la  prevenzione  del  rischio  sismico  e l'individuazione delle zone
sismiche,  ivi compresi la formazione e l'aggiornamento degli elenchi
delle zone medesime».
    L'art. 57 stabilisce che, nel piano di governo del territorio, il
«documento  di piano» contenga la definizione dell'assetto geologico,
idrogeologico  e sismico comunale sulla base dei criteri ed indirizzi
emanati  dalla  Giunta  regionale  e  che  il  piano delle regole dia
attuazione ai criteri e agli indirizzi in parola.
    A  parere  del  ricorrente  le  norme  suddette  si porrebbero in
contrasto  con  l'art. 107  del  decreto  legislativo  31 marzo 1998,
n. 112 (Conferimento di funzioni e compiti amministrativi dello Stato
alle  regioni  ed  agli  enti  locali, in attuazione del capo I della
legge   15 marzo  1997,  n. 59)  e  con  l'art. 5  del  decreto-legge
7 settembre  2001,  n. 343  (Disposizioni  urgenti  per assicurare il
coordinamento  operativo  delle  strutture preposte alle attivita' di
protezione  civile  e  per  migliorare  le  strutture  logistiche nel
settore   della   difesa   civile),  convertito,  con  modificazioni,
dall'art. 1  della  legge  9 novembre 2001, n. 401. Queste due norme,
ritenute  principi  fondamentali  della  materia  protezione  civile,
vincolanti  pertanto  la relativa potesta' concorrente delle Regioni,
affermerebbero  la  competenza statale in ordine alla predisposizione
degli indirizzi e dei criteri generali nonche' delle direttive per la
previsione e la prevenzione delle varie ipotesi di rischio.
    Per   le  stesse  ragioni  viene  censurato  l'art. 10,  comma 1,
lettera d),  nella  parte  in  cui  si  richiama  a  quanto  previsto
dall'art. 57, comma 1, lettera b).
    1.3.  - Infine, le censure governative si appuntano sull'art. 27,
comma 1,   lettera e),   n. 4,  e  sull'art. 33  della  citata  legge
regionale  n. 12  del  2005.  La  prima  delle  due norme afferma che
«l'installazione     di     torri    e    tralicci    per    impianti
radio-ricetrasmittenti   e   di   ripetitori   per   i   servizi   di
telecomunicazione» rientra fra gli «interventi di nuova costruzione»,
cioe'  fra  quelli  di  trasformazione  edilizia  e  urbanistica  del
territorio.  Di  conseguenza  l'installazione  di  torri,  tralicci e
ripetitori  di cui sopra e' soggetta a permesso di costruire ai sensi
dell'art. 33 della legge impugnata.
    Secondo   il   ricorrente   le   norme  in  parola,  sottoponendo
l'installazione  degli  impianti  di  comunicazione elettronica ad un
iter  autorizzatorio  comunale  «ulteriore»  rispetto  a  quello gia'
previsto  dall'art. 87 del decreto legislativo 1° agosto 2003, n. 259
(Codice   delle  comunicazioni  elettroniche),  attuativo  di  alcune
direttive   comunitarie,   darebbero   vita   ad  un  «ingiustificato
appesantimento  del  procedimento»,  con conseguente violazione della
normativa nazionale e comunitaria richiamata.
    In  particolare,  la difesa erariale ricorda come il Consiglio di
Stato,  con  la  sentenza  n. 100  del  2005,  abbia stabilito che la
procedura  di  autorizzazione  da  applicare al riguardo sia soltanto
quella  di  cui  all'art. 87  del citato d.lgs. n. 259 del 2003 e non
risulti pertanto necessario il rilascio del permesso di costruire.
    2.  -  Si  e' costituita in giudizio, con memoria depositata il 6
giugno 2005,  la  Regione  Lombardia,  chiedendo  che  il ricorso sia
dichiarato    manifestamente    inammissibile    o,   in   subordine,
manifestamente infondato.
    3. - In data 27 giugno 2005, TIM ITALIA S.p.a. ha depositato atto
di  intervento chiedendo che sia accolto il ricorso del Governo e che
la  legge  reg.  della Lombardia n. 12 del 2005 sia quindi dichiarata
costituzionalmente illegittima, nei termini indicati dal ricorrente.
    4.  -  In data 5 luglio 2005, VODAFONE OMNITEL N.V. ha depositato
atto di intervento chiedendo che sia accolto il ricorso del Governo.
    5.   -  In  data  20 settembre  2005,  la  Regione  Lombardia  ha
depositato  memoria,  contenente  una  nuova  procura con la quale e'
stato   integrato   il  collegio  difensivo,  chiedendo  che,  previa
dichiarazione  di  inammissibilita'  degli  interventi  di TIM ITALIA
S.p.a. e di VODAFONE OMNITEL N.V., sia dichiarato inammissibile o, in
subordine, infondato il ricorso.
    5.1.  -  Con  detta memoria la difesa regionale, preliminarmente,
eccepisce  l'inammissibilita'  del  ricorso  del  Governo,  in quanto
quest'ultimo  e'  stato  depositato senza il contestuale deposito del
verbale del Consiglio dei ministri e della relazione ministeriale.
    Secondo  la  resistente,  cio'  avrebbe  privato la Regione della
possibilita'  di  verificare  «fin  da  subito» la corrispondenza tra
quanto contenuto nel verbale e nella relazione e quanto contenuto nel
ricorso,  «eccependo  se del caso la difformita' tra tali contenuti».
Ne',  secondo  la  Regione,  questa  inammissibilita' potrebbe essere
sanata  da  un deposito successivo, il quale «consentirebbe, al piu',
di  far  pervenire  verbale  e  relazione  nelle  mani  della  difesa
regionale  solo nel momento in cui viene autorizzato lo scambio delle
memorie,  quando e' ormai scaduto il termine di cui all'art. 10 delle
Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale».
    La  Regione  Lombardia  passa  quindi  in  rassegna  una serie di
pronunzie  di  questa  Corte  che  «rendono  palese  l'importanza del
verbale e della relazione ministeriale», sottolineando come, nel caso
di specie, le ragioni dell'inammissibilita' del ricorso appaiano, «se
possibile,  in  modo  ancora  piu'  chiaro».  Nel  presente giudizio,
infatti,   non  vi  sarebbe  «questione  di  incertezze  sulle  norme
impugnate  o di contraddizioni tra delibera, relazione ministeriale e
ricorso: e' questione invece della totale assenza del verbale e della
relazione».
    La difesa regionale esclude, in particolare, che possa pervenirsi
a  conclusione diversa dall'inammissibilita' del ricorso sulla scorta
delle  sentenze  n. 134 del 2004 e n. 321 del 2005 di questa Corte. A
detta della Regione, il fatto che nei relativi giudizi la Corte abbia
acquisito   d'ufficio,  con  ordinanza  istruttoria,  l'estratto  del
processo  verbale  della  riunione  del  Consiglio  dei ministri e la
relazione  del  Ministro  per  gli  affari  regionali,  non esenta il
Governo  dall'obbligo  di depositare verbale e relazione. Inoltre, in
tali  giudizi, le Regioni resistenti, «accettando di difendersi sulla
sola  base  di  quanto  contenuto  nel  ricorso», non hanno sollevato
alcuna  eccezione,  «come  invece  fa  qui  esplicitamente la Regione
Lombardia».
    5.2.   -  Passando  alle  norme  oggetto  delle  singole  censure
governative,    la    Regione    Lombardia    eccepisce,   anzitutto,
l'inammissibilita'  del  ricorso  nella  parte  in  cui  concerne  il
comma 13  dell'art. 9.  Si  osserva al riguardo come nessuna autonoma
motivazione  venga addotta a sostegno della censura ne' sia possibile
individuare  alcun  «legame  diretto»  tra  l'asserita  necessita' di
espletare  procedure  di  aggiudicazione  ad  evidenza  pubblica e la
disposizione  in  parola,  la  quale  stabilisce  che non configurano
vincolo  espropriativo  le  previsioni  del  piano  dei  servizi  che
demandino  al  proprietario  dell'area  la  diretta  realizzazione di
attrezzature e servizi.
    In merito alle censure mosse all'art. 9, comma 12, e all'art. 11,
comma 3,  la resistente ricorda che, secondo il ricorrente, sarebbero
violate le norme di principio dettate in materia di lavori pubblici e
le  norme  comunitarie  relative  alle modalita' di affidamento degli
appalti  pubblici  di  lavori  e  servizi.  Al  riguardo,  la  difesa
regionale  osserva  che,  dopo la riforma del Titolo V della Parte II
della  Costituzione,  non  puo'  piu'  parlarsi della materia «lavori
pubblici» e che, come affermato da questa Corte nella sentenza n. 303
del  2003, si tratta di «ambiti di legislazione che non integrano una
vera  e  propria materia, ma si qualificano a seconda dell'oggetto al
quale  afferiscono  e  pertanto  possono  essere ascritti di volta in
volta  a potesta' legislative esclusive dello Stato ovvero a potesta'
legislative concorrenti».
    A  detta  della Regione, pertanto, le norme della legge impugnata
vanno  inquadrate  nella  materia dell'urbanistica e quindi in quella
del «governo del territorio».
    La difesa regionale, dopo aver sottolineato l'estrema difficolta'
di  individuare  i principi fondamentali in siffatta materia, ritiene
che  possa  essere utile, pur non costituendo ancora diritto vigente,
l'esame  del disegno di legge AS 3519 (Principi in materia di governo
del  territorio).  In particolare, la Regione si sofferma sull'art. 7
del  citato  disegno  che  prevedendo «la realizzazione diretta degli
interventi  di  interesse  pubblico  o  generale  previa  stipula  di
convenzione  con  l'amministrazione  per  la  gestione  dei servizi»,
presenterebbe,  a  suo  dire,  una  «pressoche'  totale  identita' di
contenuti» rispetto alle norme della legge regionale impugnata.
    Pur  ribadendo  che  si  tratta  di  norme non ancora vigenti, la
resistente  ritiene  che esse non costituiscano «una novita' assoluta
nel   panorama   dell'urbanistica»;   il   disegno  di  legge  citato
rappresenterebbe,   infatti,   «soltanto   la   conferma   definitiva
dell'ingresso dei principi "consensual-perequativi" all'interno della
materia  urbanistica».  In proposito, la difesa della Regione ricorda
come  la  legislazione statale e regionale preveda gia' il ricorso ad
alcune  forme  di  accordi  pubblico-privato,  analogamente  a quanto
introdotto dalle norme impugnate.
    Si  sottolinea,  poi,  come  l'adozione  di  modelli  perequativi
risponda  alla  necessita' di coniugare le scelte urbanistiche con le
esigenze  di  uguaglianza e giustizia sociale. Inoltre le norme della
Regione  Lombardia  troverebbero,  a  suo  dire,  ampia copertura nel
principio  di  sussidiarieta'  orizzontale  di  cui al nuovo art. 118
Cost.,  nonche' nella sentenza n. 179 del 1999 di questa Corte, nella
quale  e' stata riconosciuta la validita' dell'accordo tra il privato
e l'amministrazione pubblica nella materia in questione.
    Per   quanto   attiene   alla  presunta  violazione  del  diritto
comunitario, la difesa regionale contesta che il privato, realizzando
i servizi e le attrezzature pubbliche grazie al finanziamento, totale
o  parziale,  da  parte  della  pubblica amministrazione, acquisti la
veste  di  organismo  di  diritto  pubblico.  Al  riguardo la Regione
sottolinea  come,  ai  sensi  della  direttiva 93/37/CEE, per potersi
parlare   di   organismo   di  diritto  pubblico  sia  necessaria  la
coesistenza  di  tre  diversi requisiti: a) una distinta personalita'
giuridica;  b)  la dipendenza, anche in termini economici, da un ente
pubblico;  c)  il  perseguimento  di  obiettivi di interesse generale
aventi carattere non industriale o commerciale.
    Nel   caso  di  specie,  alla  luce  di  quanto  sopra,  dovrebbe
escludersi  l'esistenza  dei  requisiti  di cui alle lettere a) e b):
infatti,  per  un  verso,  la  nozione  di organismo «sembra indicare
sempre e comunque un "ente", una "persona giuridica", e difficilmente
puo'  estendersi  a  ricomprendere  una  persona fisica», mentre, per
altro  verso,  la  legge  «in  nessun  modo prevede che l'opera venga
finanziata attraverso contributi statali».
    In  merito  poi  alla sentenza della Corte di giustizia 12 luglio
2001  (C-399/1998),  citata  dal  ricorrente, la difesa della Regione
Lombardia  osserva  come  la  controversia  risolta  in  quella  sede
presentasse profili assai diversi da quelli dell'odierno giudizio. In
particolare,  la  differenza tra i due casi emergerebbe dal fatto che
le  norme della Regione Lombardia non si rivolgono al titolare di una
concessione  o  di  un  piano di lottizzazione, come nel caso risolto
dalla   Corte  di  giustizia,  ma  al  proprietario  dell'area.  Cio'
renderebbe   «non   comparabili»   le   due   situazioni,   anche  in
considerazione  del  fatto  che,  nella  normativa oggi impugnata, si
prevede che l'area resti di proprieta' privata.
    Sempre   in   relazione  alla  presunta  violazione  del  diritto
comunitario,  la  difesa regionale ricorda come i requisiti stabiliti
dall'art. 1,   lettera a),   della   direttiva   93/37/CEE,  ai  fini
dell'applicazione  della stessa, siano sei: 1) la contrattualita'; 2)
l'onerosita';  3)  la  forma  scritta  del contratto; 4) la qualifica
soggettiva  di  amministrazione  aggiudicatrice  per una parte; 5) la
qualificazione  soggettiva  di imprenditore per l'altra; 6) la natura
di opera pubblica dell'oggetto dei lavori.
    In  particolare  la  Regione  contesta  che  nel  caso  di specie
sussista  il  carattere dell'onerosita', in quanto la possibilita' di
realizzare  direttamente  l'opera,  «oltre  ad essere sottoposta alle
condizioni   che   verranno   stabilite   nell'apposita  convenzione,
garantisce  al proprietario la compensazione per la cessione gratuita
dell'area».   Si   sottolinea,   inoltre,   che  proprio  perche'  la
possibilita'  di  realizzare direttamente l'opera e' stata pensata in
un  regime  compensativo, questo obiettivo sarebbe vanificato qualora
fosse   necessaria   una   procedura  di  gara.  Semmai,  osserva  la
resistente,   l'opportunita'  di  una  gara  potrebbe  riguardare  le
modalita'  di  attribuzione  della  gestione delle attrezzature e dei
servizi  realizzati  sulle  aree in questione; in questo caso, pero',
spetterebbe  alla  convenzione  tra  privato  e amministrazione farsi
carico  della  necessita'  di  rispettare le regole comunitarie sulla
concorrenza  e,  a  tal  proposito,  nessun  rilievo e' contenuto nel
ricorso del Governo.
    In via subordinata, qualora la Corte costituzionale non ritenesse
di  condividere  le  considerazioni  della  Regione sopra esposte, la
difesa  di quest'ultima chiede che le norme regionali impugnate siano
«fatte  salve per tutti i lavori di importo non superiore alla soglia
comunitaria».
    5.3.  -  In  merito  alle  censure  mosse  all'art. 19,  comma 2,
lettera b),  n. 2,  e  all'art. 10,  comma 1, lettera d), entrambi in
relazione  all'art. 55,  comma 1, lettera b), e all'art. 57, comma 1,
lettere a)  e  b),  della  citata  legge  della Regione Lombardia, la
difesa  regionale  ritiene  che  esse siano infondate per i motivi di
seguito esposti.
    In   particolare,  si  sottolinea  come  l'intero  sistema  della
protezione  civile,  secondo  quanto  affermato da questa Corte nella
sentenza  n. 327  del  2003,  sia  «ispirato  ad  un modello non piu'
centralizzato,  ma  caratterizzato  da  una  organizzazione diffusa a
carattere  policentrico».  In  questo  modello  un  «rilevante ruolo»
sarebbe  riconosciuto  alle  Regioni,  sia  per  l'adozione  di  atti
normativi, sia per lo svolgimento di funzioni amministrative.
    A  detta  della  resistente  le norme impugnate, e specificamente
l'art. 55,  sarebbero  rispettose dell'art. 108 del d.lgs. n. 112 del
1998,   che  attribuisce  alle  Regioni  le  funzioni  relative  alla
predisposizione  degli  indirizzi  di  previsione  e  prevenzione dei
rischi,  sulla  base  degli indirizzi nazionali, e di quelle relative
agli  indirizzi  per  la  predisposizione  dei  piani  provinciali di
emergenza in caso di eventi calamitosi.
    Ulteriori  conferme  della  competenza  regionale  in  materia si
avrebbero dalla sentenza n. 228 del 2003, in relazione al d.l. n. 343
del  2001,  e  dal  decreto-legge 31 maggio 2005, n. 90 (Disposizioni
urgenti  in  materia  di protezione civile) che, all'art. 4, ha fatto
salve le competenze regionali previste dalla normativa vigente.
    A parere della difesa regionale, la conferma decisiva si avrebbe,
comunque,   dalla   sentenza   n. 327   del  2003  di  questa  Corte.
Nell'occasione  sono  state  dichiarate infondate alcune questioni di
legittimita'  costituzionale  su  norme  della  Regione Marche che, a
detta  della  resistente,  attribuiscono  alla  competenza  regionale
funzioni  «analoghe»  a  quelle previste dalla legge lombarda oggetto
del presente giudizio.
    5.4.  -  Infine,  in  relazione all'art. 27, comma 1, lettera e),
n. 4,  e  all'art. 33 della citata legge regionale n. 12 del 2005, la
Regione   Lombardia  eccepisce,  preliminarmente,  l'inammissibilita'
delle  relative  censure. Mancherebbe, infatti, qualsiasi riferimento
alle  norme costituzionali violate e non sarebbe individuato l'ambito
materiale cui sarebbe riconducibile la fattispecie in questione.
    Nel  merito,  la  difesa  regionale  ritiene  che  il ricorso sia
infondato. Al riguardo, si ricorda come questa Corte, con la sentenza
n. 303  del  2003,  abbia dichiarato l'illegittimita' costituzionale,
per  eccesso  di  delega,  del  decreto legislativo 4 settembre 2002,
n. 198  (Disposizioni  volte  ad  accelerare  la  realizzazione delle
infrastrutture    di    telecomunicazioni    strategiche    per    la
modernizzazione  e  lo  sviluppo  del  Paese,  a  norma  dell'art. 1,
comma 2,  della legge 21 dicembre 2001, n. 443), il quale, al comma 2
dell'art. 3,  stabiliva  che  le  stazioni  radio  base  per  reti di
comunicazione   mobili   GSM/UMTS  «sono  compatibili  con  qualsiasi
destinazione  urbanistica  e  sono  realizzabili  in  ogni  parte del
territorio  comunale, anche in deroga agli strumenti urbanistici e ad
ogni  altra  disposizione  di  legge o di regolamento». La Regione fa
notare  come  questa disposizione non sia stata riprodotta nel d.lgs.
n. 259   del   2003:   da   cio'   deriverebbe   che  attualmente  la
localizzazione  delle  infrastrutture  per  telecomunicazioni «non e'
piu'  "libera",  ma  deve  essere  necessariamente  conforme sia alla
legislazione  nazionale  e  regionale  in  tema,  sia a quella locale
approvata  dai  comuni,  ai  sensi  dell'art. 8, comma 6, della legge
statale  n. 36  del  2001,  e  contenuta  negli strumenti urbanistici
generali o in regolamenti ad hoc».
    In   particolare,   osserva   la   resistente,  questa  Corte  ha
riconosciuto  (sentenza  n. 307  del  2003) che «l'autonoma capacita'
delle  Regioni  e  degli  enti  locali  di regolare l'uso del proprio
territorio  trova  pieno  vigore,  purche'  criteri  localizzativi  e
standard  urbanistici  rispettino  le  esigenze  della pianificazione
nazionale degli impianti e non siano, nel merito, tali da impedire od
ostacolare ingiustificatamente l'insediamento degli stessi».
    Di  conseguenza, sempre a detta della difesa regionale, stante il
disposto  dell'art. 86, comma 3, del d.lgs. n. 259 del 2003, il quale
assimila  le  infrastrutture  di reti pubbliche di comunicazione alle
opere  di  urbanizzazione primaria, soggette a permesso di costruire,
deve  ritenersi che anche per le infrastrutture citate sia necessario
il «titolo abilitativo edilizio».
    La  Regione  Lombardia conclude sul punto ricordando che la legge
regionale  impugnata,  all'art. 41,  riconosce a chi abbia titolo per
presentare   istanza   di   permesso   di   costruire  la  «facolta',
alternativamente  e  per  gli  stessi  interventi  di  trasformazione
urbanistica  ed  edilizia,  di inoltrare al comune denuncia di inizio
attivita». In questo modo sarebbe comunque garantito «un procedimento
celere,  alternativo  a  quello  che  tende a ottenere il permesso di
costruire», in ossequio ai principi di semplificazione amministrativa
e  di  celerita' richiamati da questa Corte nella sentenza n. 336 del
2005 e dal Consiglio di Stato nella sentenza n. 100 del 2005.
    5.5.  -  Infine la Regione Lombardia, dopo aver ricordato che nei
giudizi   di   legittimita'   costituzionale  in  via  principale  il
contraddittorio  e'  riservato  a  Stato  e  Regioni,  con esclusione
dell'ammissibilita' di interventi di soggetti terzi, chiede che siano
dichiarati  inammissibili  gli  interventi  in giudizio di TIM ITALIA
S.p.a. e di VODAFONE OMNITEL N.V.
    6.  - In prossimita' dell'udienza TIM ITALIA S.p.a. ha depositato
una  memoria  nella  quale,  preliminarmente e con specifico riguardo
alle censure mosse agli artt. 27 e 33 della legge impugnata, sostiene
di   avere   un  «interesse  rilevante,  autonomo  e  particolarmente
qualificato  ad  ottenere  l'accertamento  della illegittimita» delle
norme censurate dal Governo. Trattandosi infatti di soggetto titolare
di   licenze   per   l'installazione   e   l'esercizio   di  reti  di
radiotelefonia   cellulare,  osserva  la  difesa  dell'interveniente,
l'esito del giudizio di legittimita' costituzionale avra' «un effetto
diretto e immediato» sulla sua sfera giuridica.
    In particolare, si rileva come «l'installazione, l'esercizio e la
fornitura  di  reti  di telecomunicazione, nonche' la prestazione dei
servizi  ad  essa  connessi  accessibili  al  pubblico» costituiscano
«attivita'  di  preminente  interesse generale» ai sensi dell'art. 3,
comma 2,  del  d.lgs.  n. 259  del  2003.  Inoltre, il possesso della
licenza  per i servizi di telefonia mobile «costituisce dichiarazione
di  pubblica  utilita',  indifferibilita'  e  urgenza  delle opere di
realizzazione della rete».
    Quindi  la  societa' interveniente, in quanto titolare di licenza
di  un'attivita'  di preminente interesse generale, presenterebbe «un
puntuale  titolo  di  qualificazione  all'intervento».  Ad  ulteriore
sostegno  di  queste  considerazioni,  si osserva che TIM ha altresi'
l'obbligo di assicurare il «servizio universale» ai sensi del decreto
del  Ministro  delle  comunicazioni 10 marzo  1998 (Finanziamento del
servizio universale nel settore delle telecomunicazioni), inteso come
insieme   minimo   di   servizi  di  qualita'  a  disposizione  della
generalita'  dell'utenza.  Inoltre,  la  rete  di telefonia mobile e'
definita  come  «strumento  dell'azione  amministrativa di protezione
civile».
    Dopo  aver  sinteticamente  illustrato  i  principi  fondamentali
vigenti   nella   normativa   comunitaria   in   materia,  la  difesa
dell'interveniente   conclude   sul  punto  sottolineando  «l'estrema
rilevanza che ha per il gestore l'eliminazione di norme regionali che
bloccano  la  realizzazione  in  modo  celere  della  rete»,  nonche'
l'«innegabile» utilita' della partecipazione al processo da parte del
gestore «al fine di una esauriente acquisizione di elementi oggettivi
di  giudizio».  Si  precisa  infine  che  dall'eventuale  rigetto del
ricorso  del  Governo,  TIM  subirebbe  una  «diretta e irrimediabile
lesione  della  propria  sfera  giuridica  e precisamente del proprio
diritto  costituzionale  di liberta' di iniziativa economica (art. 41
Cost.)»;  tra l'altro, quanto statuito dalla Corte costituzionale, se
non   venisse   ammesso   l'intervento   in   giudizio,  risulterebbe
«incontestabile   in   altre   sedi   giudiziarie»,  con  conseguente
pregiudizio del diritto di difesa.
    Qualora,  poi,  la Corte non ritenesse di ammettere l'intervento,
l'interveniente   chiede   che   venga   accettato   il   «contributo
collaborativo  di  TIM  quale  amicus  curiae»;  cio' in virtu' della
«specifica  competenza  scaturente  dal  suo  ruolo  di  esercente un
servizio   di  sicura  rilevanza  pubblicistica»  e  della  «puntuale
conoscenza del regime della rete».
    Nel  merito,  la  difesa della societa' chiede che sia accolto il
ricorso presentato avverso la legge della Regione Lombardia n. 12 del
2005.
    7.  -  In  prossimita'  dell'udienza  VODAFONE  OMNITEL  N.V.  ha
depositato  una  memoria  nella  quale, preliminarmente, chiede venga
riconsiderato    l'orientamento    di    questa   Corte,   che   nega
l'ammissibilita'   dell'intervento,   nei   giudizi  di  legittimita'
costituzionale  promossi  in  via  principale, di soggetti diversi da
quelli titolari delle potesta' legislative della cui delimitazione si
discute.
    In  particolare,  un'apertura  in  tal  senso sarebbe rinvenibile
nell'ordinanza n. 20 del 2005, nella quale gli interventi in giudizio
di  soggetti  diversi  da  quelli  legittimati  al ricorso sono stati
dichiarati  inammissibili  «non  essendo  stati addotti argomenti che
inducano   questa   Corte   ad   abbandonare  il  proprio  precedente
indirizzo».  Osserva  l'interveniente  che,  a  contrario, «in talune
circostanze  e  a  fronte  di validi motivi» la Corte potrebbe mutare
orientamento;  in  altre  parole,  secondo  la  difesa  di  VODAFONE,
l'intervento  dovrebbe  essere  ammesso qualora sia «sufficientemente
qualificato»,   cioe'  «quando  sia  accertata  in  capo al  soggetto
interveniente  la  rappresentativita' o la titolarita' di interessi a
cui  l'ordinamento  giuridico riconosce espressa tutela» e «quando vi
sia  una  valutazione  positiva  della rilevanza e dell'incidenza che
l'atto legislativo esercita su quegli stessi interessi».
    Nel   caso  di  specie  la  societa'  interveniente  ritiene  che
sussistano  i  presupposti  per  l'ammissibilita' del suo intervento,
rappresentati dalla titolarita' di licenze individuali rilasciate dal
Ministero delle comunicazioni, dal carattere di «preminente interesse
generale»  riconosciuto  dal  legislatore  nazionale agli impianti di
telecomunicazioni,  dagli  effetti  «rilevanti, diretti ed immediati»
che  l'eventuale dichiarazione di illegittimita' costituzionale delle
norme  impugnate  produrrebbe  sull'attivita'  svolta  da VODAFONE ed
infine  dalla  ingiustificata  compressione del diritto di difesa che
essa subirebbe qualora l'intervento fosse dichiarato inammissibile.
    Nel  merito  la  difesa  della societa' chiede che sia accolta la
questione  di  legittimita' costituzionale promossa dal Governo e che
sia   dichiarata   l'illegittimita'  costituzionale  degli  artt. 27,
comma 1,  lettera e),  n. 4, e 33 della legge della Regione Lombardia
n. 12 del 2005.
    8.   -  In  prossimita'  dell'udienza  la  Regione  Lombardia  ha
depositato  un'ulteriore memoria integrativa con la quale, richiamate
tutte  le  argomentazioni e le conclusioni prospettate in precedenza,
segnala che, in virtu' di quanto statuito nell'art. 1, comma 4, della
legge   5   giugno 2003,   n. 131   (Disposizioni  per  l'adeguamento
dell'ordinamento   della   Repubblica   alla   legge   costituzionale
18 ottobre  2001,  n. 3), il Consiglio dei ministri, nella seduta del
22 dicembre  2005,  ha approvato uno schema di decreto legislativo di
ricognizione  dei principi fondamentali vigenti in materia di governo
del territorio.
    Al  riguardo si sottolinea come esso, pur non essendo attualmente
diritto  vigente, risulti «non irrilevante» ai fini della risoluzione
del  presente  giudizio; si tratta infatti di principi gia' esistenti
in materia.
    8.1.  -  Con  riferimento  al  primo motivo di ricorso, avente ad
oggetto  l'art. 9,  commi 12  e 13, e l'art. 11, comma 3, della legge
impugnata,   la   resistente  ritiene  di  particolare  interesse  il
contenuto  dell'art. 8,  commi 11  e  16,  dello  schema  di  decreto
legislativo  sopra  citato.  In  particolare,  il comma 11 prevede la
possibilita'   per  l'amministrazione  di  ricorrere  all'«iniziativa
economica  privata,  o  mista  pubblica-privata, tramite strumenti di
convenzionamento,  senza la necessita' di ablazione del bene privato»
al  fine  di realizzare obiettivi di interesse generale per dotare il
territorio di attrezzature e servizi.
    Il   comma 16   del   medesimo  art. 8,  invece,  stabilisce  che
l'amministrazione,   «ai   fini   dell'attuazione   dello   strumento
urbanistico    generale»,   puo'   applicare   il   principio   della
«perequazione  urbanistica»,  consistente «nel riconoscere a tutte le
proprieta' immobiliari ricomprese in ambiti oggetto di trasformazione
urbanistica  un  diritto edificatorio la cui entita' sia indifferente
rispetto  alla  destinazione  d'uso,  ma derivi invece dallo stato di
fatto  e di diritto in cui si trovano le proprieta' stesse al momento
della formazione del piano urbanistico».
    I  principi  espressi  dalle  due norme sopra menzionate, a detta
della  difesa  regionale,  coinciderebbero con quelli che ispirano le
norme regionali impugnate.
    La Regione Lombardia si sofferma poi sull'art. 71, comma 4, dello
schema  di  decreto legislativo; la norma da ultimo citata stabilisce
infatti  che  ai  soggetti privati che eseguono lavori considerati di
pubblica utilita' e di interesse generale si applicano le norme della
legge n. 109 del 1994, solo se i lavori siano di importo superiore ad
un  milione di euro e se per la realizzazione «sia previsto, da parte
di  pubbliche  amministrazioni  o  organismi  di diritto pubblico, un
contributo diretto e specifico in conto interessi o in conto capitale
che,  attualizzato,  superi  il  cinquanta per cento dell'importo dei
lavori».
    Da  questa  disposizione,  a  detta  della  difesa  regionale, si
ricaverebbe  a  contrario  che  le  norme  regionali impugnate non si
porrebbero   in  contrasto  con  alcun  principio  fondamentale,  non
prevedendo  in  nessun  modo  che l'opera venga finanziata attraverso
contributi statali.
    8.2.  - Anche per quanto attiene al secondo motivo di ricorso, la
difesa  della  Regione  Lombardia  ritiene  che  possano trarsi utili
indicazioni dallo schema di decreto legislativo citato. La resistente
si  sofferma  in  special  modo  sull'art. 8,  comma 1-bis,  il quale
stabilisce   che  le  Regioni  emanino  norme  «sui  criteri  per  la
formazione  degli strumenti urbanistici ai fini della prevenzione del
rischio  sismico», e sull'art. 51, che si limita a disporre un rinvio
agli  articoli  da  83  a 106 del d.P.R. 6 giugno 2001, n. 380 (Testo
unico  delle  disposizioni  legislative  e  regolamentari  in materia
edilizia) ed al d.l. n. 343 del 2001.
    Fra  le norme cui fa rinvio l'art. 51, la difesa regionale reputa
di  particolare  importanza l'art. 83 del t.u. sull'edilizia, secondo
il  quale  «le  Regioni,  sentite le Province e i Comuni interessati,
provvedono  alla  individuazione delle zone dichiarate sismiche, alla
formazione  e  all'aggiornamento  degli elenchi delle medesime zone e
dei  valori  attribuiti  ai  gradi  di  sismicita',  nel rispetto dei
criteri generali».
    Si   sottolinea,  inoltre,  come  l'art. 89  del  t.u.  individui
nell'ufficio  tecnico  regionale l'autorita' competente a fornire, ai
comuni  nei quali sono applicabili le norme relative alla prevenzione
sismica,   il   parere   sugli   strumenti   urbanistici  generali  e
particolareggiati e sulle lottizzazioni e loro varianti.
    8.3.  -  In  merito  all'ultimo  motivo  di  ricorso,  la  difesa
regionale  ribadisce  che il d.lgs. n. 259 del 2003, a differenza del
precedente  d.lgs. n. 198 del 2002, non ha introdotto una clausola di
esclusivita'  per  quanto  attiene  alle  procedure  da  seguire  per
l'installazione     di     torri     e    tralicci    per    impianti
radio-ricetrasmittenti   e   di   ripetitori   per   i   servizi   di
telecomunicazioni.
    La   resistente   ritiene,   al   riguardo,   che  «l'unicita'  e
l'onnicomprensivita»  dell'autorizzazione  prevista  nel Codice delle
comunicazioni  elettroniche  avrebbero  dovuto  essere esplicitamente
previste,  come  nel  d.lgs.  n. 198  del  2002.  Di conseguenza, nel
silenzio  del legislatore statale, le norme regionali non contrastano
con i principi fondamentali in materia.
    La  Regione insiste poi sulla duplice valenza delle installazioni
in  parola,  che  «sono  sicuramente  parti di una rete di servizi di
comunicazione  elettronica»  ma anche «infrastrutture edilizie» ed in
particolare  opere  di  urbanizzazione  primaria; in quanto tali sono
soggette   a   permesso   di   costruire   in  base  al  testo  unico
dell'edilizia.
    Infine,  si sottolinea come il Tribunale amministrativo regionale
del  Lazio,  sez. I-quater, con ordinanza 16 dicembre 2004, n. 16332,
abbia   sollevato  questione  di  legittimita'  costituzionale  degli
artt. 87  e  88  del  Codice delle comunicazioni, in riferimento agli
artt. 3,  76,  97  e  117  Cost. In particolare, secondo il Tribunale
rimettente,  la  violazione  dell'art. 76  Cost. si avrebbe in quanto
l'art. 41  della legge delega 1° agosto 2002, n. 166 (Disposizioni in
materia  di  infrastrutture  e  trasporti),  non  avrebbe affidato al
Governo   la  revisione  della  disciplina  urbanistico-edilizia  con
specifico riguardo al permesso di costruire.
    Inoltre,  gli  artt. 87  e  88  sarebbero lesivi delle competenze
regionali in materia di governo del territorio.
    La   difesa  regionale  conclude  affermando  l'esistenza  di  un
rapporto di pregiudizialita' tra la questione di cui ora si discute e
quella  sollevata  dal  Tribunale amministrativo regionale del Lazio,
con  la conseguenza che un eventuale accoglimento di quest'ultima non
potrebbe che comportare il rigetto del presente ricorso governativo.

                       Considerato in diritto

    1.  -  Con  ricorso  notificato il 16 maggio 2005 e depositato il
24 maggio   2005,   il   Presidente   del   Consiglio  dei  ministri,
rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello  Stato, ha
promosso  questione  di  legittimita'  costituzionale  del  combinato
disposto   dell'art. 9,  commi 12  e  13,  e  dell'art. 11,  comma 3;
dell'art. 19,  comma 2,  lettera b),  n. 2,  e dell'art. 10, comma 1,
lettera d), entrambi in relazione all'art. 55, comma 1, lettera b), e
all'art. 57,   comma 1,   lettere a)  e  b);  dell'art. 27,  comma 1,
lettera e),  n. 4, e dell'art. 33 della legge della Regione Lombardia
11 marzo   2005,   n. 12  (Legge  per  il  governo  del  territorio),
pubblicata  nel Bollettino Ufficiale della Regione n. 11 del 16 marzo
2005,  in  riferimento  all'art. 117,  primo  e  terzo  comma,  della
Costituzione.
    2.   -   Preliminarmente   vanno   dichiarati  inammissibili  gli
interventi  nel  presente  procedimento  di  TIM  ITALIA  S.p.a. e di
VODAFONE  OMNITEL  N.V.  Infatti,  nel  giudizio di costituzionalita'
delle  leggi promosso in via d'azione, parti sono soltanto i soggetti
titolari  delle potesta' legislative in contestazione. Pertanto, alla
stregua  della  normativa  in  vigore  e  conformemente alla costante
giurisprudenza di questa Corte (ex plurimis: sentenze numeri 80, 59 e
51 del 2006, 469 e 383 del 2005), non e' ammesso l'intervento in tali
giudizi di soggetti privi di potere legislativo.
    3.   -   La   Regione  Lombardia  eccepisce  in  via  preliminare
l'inammissibilita'  del  ricorso  governativo  per  non  essere stato
effettuato  il  deposito  contestuale  dell'estratto  del verbale del
Consiglio  dei  ministri  e  della relazione del Ministro proponente.
Cio' risulterebbe dallo stesso ricorso, che si riferisce ad un futuro
deposito,   successivo   alla  notifica  dell'atto  introduttivo  del
presente giudizio.
    L'eccezione non puo' essere accolta.
    I   due   documenti   prima   citati   risultano   essere   stati
effettivamente   depositati   presso   la   cancelleria  della  Corte
costituzionale e non emergono elementi per ritenere che tale deposito
non sia stato contestuale a quello del ricorso.
    4.  -  Con  specifico riguardo alle censure contenute nel ricorso
governativo,  va  anzitutto  dichiarata  l'inammissibilita' di quella
avente  ad  oggetto  il  comma 13  dell'art. 9  della legge regionale
impugnata,  in  quanto  manca  ogni motivazione circa la sua asserita
illegittimita'  costituzionale.  La  norma  in  questione  si  limita
infatti a stabilire che non costituiscono vincolo espropriativo e non
sono  soggette  a  decadenza  le previsioni del piano dei servizi che
demandino  al  proprietario  dell'area  la  diretta  realizzazione di
attrezzature   e  servizi,  ovvero  ne  contemplino  la  facolta'  in
alternativa  all'intervento  della  pubblica  amministrazione. Nessun
legame  emerge  tra  tale disposizione e le questioni di legittimita'
costituzionale  illustrate  nel  ricorso dall'Avvocatura dello Stato,
con  la  conseguenza  che  la  stessa  non puo' essere assoggettata a
controllo di costituzionalita'.
    5.  -  Espunto  il  comma 13  dell'art. 9  della  legge regionale
impugnata, rimane da esaminare la censura riguardante il comma 12 del
medesimo  articolo,  in  combinato  disposto  con l'art. 11, comma 3,
della  stessa  legge.  Il  ricorrente  sostiene  che  tale  norma sia
costituzionalmente   illegittima  perche'  non  prevede  -  e  quindi
implicitamente  esclude  - che nell'ipotesi di realizzazione diretta,
da   parte   del   proprietario   dell'area   sottoposta   a  vincolo
espropriativo, delle attrezzature e dei servizi per la cui attuazione
e'  preordinato  il  detto  vincolo,  la  scelta  del contraente, per
appalti  che  eguaglino  o  superino  la  soglia comunitaria, avvenga
secondo  procedure  di evidenza pubblica. Vi sarebbe violazione delle
direttive   del  Consiglio  delle  Comunita'  europee  92/50  del  18
giugno 1992  (Direttiva  del  Consiglio  che coordina le procedure di
aggiudicazione  degli  appalti  pubblici  dei  servizi), 93/36 del 14
giugno 1993  (Direttiva  del  Consiglio  che coordina le procedure di
aggiudicazione degli appalti pubblici di forniture), 93/37 (Direttiva
del  Consiglio  che  coordina  le  procedure  di aggiudicazione degli
appalti  pubblici  di  lavori)  e  93/38 (Direttiva del Consiglio che
coordina  le  procedure di appalto degli enti erogatori di acqua e di
energia, degli enti che forniscono servizi di trasporto nonche' degli
enti  che  operano  nel  settore  delle  telecomunicazioni)  e quindi
dell'art. 117, primo comma, della Costituzione.
    5.1. - La questione e' fondata nei limiti di seguito precisati.
    5.2.  -  La normativa comunitaria in materia di appalti pubblici,
contenuta  in  un  gruppo di direttive, che hanno ricevuto attuazione
mediante atti legislativi nazionali, prevede che in ogni caso, quando
si  realizzi  un'opera  o  si  affidi un servizio o una fornitura per
importi  uguali  o  superiori  ad  un  certo  valore, il soggetto che
procede all'appalto debba adottare procedure di evidenza pubblica per
la  scelta  del contraente. L'obbligo sussiste sia che l'attribuzione
dell'appalto  spetti  ad  un  ente  pubblico  territoriale o ad altro
«organismo  di  diritto pubblico» (secondo la dizione delle direttive
prima  citate),  sia che lo stesso venga effettuato da un privato, il
quale  in  tal  caso  assume - come chiarito dalla Corte di giustizia
delle  Comunita'  europee  -  la  veste  di  «titolare  di un mandato
espresso»,   conferito  dall'ente  pubblico  che  intende  realizzare
l'opera  o  il servizio (sentenza 12 luglio 2001, in causa C-399/98).
La  citata  pronuncia  della  Corte di giustizia riguarda il caso del
titolare  di una concessione edilizia o di un piano di lottizzazione,
cui   e'   consentita   la   realizzazione  diretta  di  un'opera  di
urbanizzazione,  a  scomputo  totale o parziale del contributo dovuto
per  il  rilascio  della  concessione, quando il valore di tale opera
eguagli o superi la soglia comunitaria.
    Il  principio fissato dalla Corte di giustizia e' stato riversato
nell'ordinamento italiano per mezzo dell'art. 2, comma 5, della legge
11 febbraio   1994,   n. 109  (Legge  quadro  in  materia  di  lavori
pubblici),  nel  testo  sostituito  dall'art. 7, comma 1, della legge
1° agosto  2002,  n. 166 (Disposizioni in materia di infrastrutture e
trasporti),  che,  riferendosi  agli interventi eseguiti direttamente
dai  privati a scomputo di contributi connessi all'attivita' edilizia
o  alla  lottizzazione  di aree, stabilisce che «per le singole opere
d'importo  superiore  alla soglia comunitaria i soggetti privati sono
tenuti  ad  affidare  le  stesse nel rispetto delle procedure di gara
previste dalla [...] direttiva 93/37/CEE».
    La  fattispecie  configurata  dalle  norme regionali impugnate e'
assimilabile  a  quella  oggetto  delle  direttive  comunitarie sopra
citate,  nell'interpretazione  datane  dalla  Corte  di  giustizia  e
riprodotta  dal  legislatore nazionale italiano. Si tratta infatti di
accordi  che  i  privati  proprietari  di  aree  destinate  ad essere
espropriate  per  la realizzazione di attrezzature e servizi pubblici
possono  stipulare  con  il  comune  competente, in base ai quali «il
proprietario puo' realizzare direttamente gli interventi di interesse
pubblico  o  generale,  mediante  accreditamento  o  stipulazione  di
convenzione  con  il  comune  per la gestione del servizio» (art. 11,
comma 3, della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005). Si tratta quindi
di  accordi  a  titolo  oneroso,  dai  quali  derivano  per  le parti
contraenti   diritti   e   obblighi   reciproci,  che  consentono  al
proprietario espropriando, in particolare, di mantenere la proprieta'
dell'area  e  di ottenere la gestione del servizio previsto in cambio
della   realizzazione   diretta  degli  interventi  necessari.  Tutta
l'operazione  prevista  dalle  norme  impugnate  e'  preordinata alla
soddisfazione   di   interessi   pubblici,   come   viene  confermato
dall'art. 9,   comma 12,   della  legge  regionale  de  qua,  che  fa
riferimento  a  vincoli previsti «per la realizzazione esclusivamente
ad opera della pubblica amministrazione, di attrezzature e servizi».
    Da  quanto  sinora  detto si deduce come sia applicabile anche al
proprietario  espropriando che accetta di realizzare l'opera prevista
dall'ente  pubblico la qualifica di «titolare di un mandato espresso»
conferito  dal  comune,  di  cui  alla citata sentenza della Corte di
giustizia.
    Non  entrano  in  discussione, per i profili di costituzionalita'
evocati  nella  presente  questione,  le  modalita'  della cosiddetta
urbanistica  consensuale  e  perequativa,  ma  soltanto  l'obbligo di
procedere  alle  prescritte  gare  di  appalto,  poste  a  base della
normativa   europea  citata,  a  tutela  della  trasparenza  e  della
concorrenza,  qualora  l'importo  delle realizzazioni superi un certo
limite. Il ricorso a procedure di evidenza pubblica per la scelta del
contraente  non  puo'  peraltro essere ritenuto incompatibile con gli
accordi   tra   privati   e  pubblica  amministrazione,  giacche'  la
possibilita'  che  tali  procedure  siano svolte dagli stessi privati
risulta  gia'  ammessa  nell'ordinamento  proprio  nella  fattispecie
oggetto  della  richiamata  pronuncia  della  Corte  di  giustizia  e
disciplinata in modo conforme dal citato art. 2, comma 5, della legge
n. 109 del 1994, come sostituito dalla legge n. 166 del 2002.
    5.3.  - Sulla scorta delle precedenti considerazioni, non si puo'
dubitare  che  le  direttive comunitarie prima citate - in materia di
procedure   ad   evidenza  pubblica  per  l'attribuzione  di  lavori,
forniture e servizi - debbano essere osservate anche nell'ipotesi che
sia  conferito  ad  un  privato il compito di realizzare direttamente
l'opera   necessaria  per  la  successiva  prestazione  del  servizio
pubblico, la cui gestione puo' essere affidata, mediante convenzione,
al  privato  medesimo.  Come questa Corte ha gia' affermato (sentenze
n. 406  del  2005,  n. 7 e n. 166 del 2004), le direttive comunitarie
fungono  da  norme  interposte  atte ad integrare il parametro per la
valutazione  di  conformita'  della normativa regionale all'art. 117,
primo  comma,  Cost.  La norma costituzionale citata, collocata nella
Parte   seconda   della   Costituzione,  si  ricollega  al  principio
fondamentale  contenuto  nell'art. 11  Cost. e presuppone il rispetto
dei  diritti e dei principi fondamentali garantiti dalla Costituzione
italiana.  Pertanto  la  mancata  previsione,  nelle  norme regionali
impugnate, dell'obbligo di adottare procedure ad evidenza pubblica in
ogni  caso  in  cui  l'appalto sia di importo uguale o superiore alla
soglia comunitaria, determina la loro illegittimita' costituzionale.
    6.  -  Il Presidente del Consiglio dei ministri ha pure impugnato
l'art. 19,   comma 2,   lettera b),   n. 2,   e  l'art. 10,  comma 1,
lettera d), entrambi in relazione all'art. 55, comma 1, lettera b) ed
all'art. 57,  comma 1,  lettere a)  e  b),  della legge della Regione
Lombardia  n. 12  del 2005. Tali norme violerebbero l'art. 117, terzo
comma, Cost., ed in particolare i principi fondamentali della materia
«protezione  civile»,  di  cui  all'art. 107  del decreto legislativo
31 marzo   1998,   n. 112   (Conferimento   di   funzioni  e  compiti
amministrativi  dello  Stato  alle  Regioni  ed  agli enti locali, in
attuazione  del  capo I  della  legge 15 marzo 1997 n. 59), in quanto
attribuiscono  alla  Regione,  e  non  allo Stato, la predisposizione
degli   indirizzi  e  dei  criteri  generali  per  il  riassetto  del
territorio   ai   fini   della   prevenzione  dei  rischi  geologici,
idrogeologici  e  sismici, nonche' delle direttive per la prevenzione
del rischio sismico.
    6.1. - La questione non e' fondata.
    6.2.  - Questa Corte ha gia' rilevato che il legislatore statale,
con  la  legge  24 febbraio  1992,  n. 225  (Istituzione del Servizio
nazionale  della  protezione  civile),  «ha  rinunciato ad un modello
centralizzato    per   una   organizzazione   diffusa   a   carattere
policentrico»  (sentenza  n. 327 del 2003). In materia di prevenzione
dei  rischi,  la  legislazione nazionale vigente configura un sistema
composito  di competenze, ordinato secondo il criterio della maggiore
o  minore  generalita'  degli  indirizzi,  in  base  al quale ciascun
livello  di  governo  deve  contenere  l'esercizio  dei propri poteri
all'interno  degli  indirizzi dettati su piu' vasta scala dal livello
superiore.
    Alla  luce  del  criterio  prima  indicato, si puo' osservare che
l'art. 107  del  d.lgs.  n. 112  del 1998 attribuisce allo Stato «gli
indirizzi  per  la  predisposizione  e  l'attuazione dei programmi di
previsione e prevenzione in relazione alle varie ipotesi di rischio».
Le  norme  regionali impugnate attribuiscono alla Giunta regionale la
definizione degli indirizzi per il riassetto del territorio, «ai fini
della  prevenzione  dei rischi geologici e idrogeologici e della loro
mitigazione» (art. 55, comma 1, lettera b, della legge reg. Lombardia
n. 12  del  2005). Gli indirizzi in parola devono pero' confluire nel
piano  territoriale  regionale  (art. 19,  comma 2,  lettera b, n. 2,
della  legge  reg.  Lombardia  n. 12  del 2005), il quale costituisce
«atto  fondamentale  di  indirizzo,  agli effetti territoriali, della
programmazione  di  settore  della  Regione,  nonche' di orientamento
della programmazione e pianificazione territoriale dei Comuni e delle
Province»  (art. 19,  comma 1,  della  legge reg. Lombardia n. 12 del
2005).
    Dall'esame  della normativa statale e regionale in materia emerge
che la Regione ha solo voluto disciplinare l'esercizio delle funzioni
di  prevenzione  dei  rischi nell'ambito del proprio territorio. Cio'
non  implica  un'invasione  della sfera di competenza dello Stato, in
quanto,  come  questa  Corte  ha  gia'  statuito (sentenza n. 327 del
2003),  la  mancanza dell'esplicita menzione dell'obbligo di rispetto
degli indirizzi nazionali non comporta la loro violazione, che dovra'
essere  eventualmente  accertata  nelle  singole  norme e nei singoli
atti.
    6.3.  - Per quanto riguarda l'individuazione delle zone sismiche,
bisogna  rilevare  che  l'art. 83  del  d.P.R.  6 giugno 2001, n. 380
(Testo  unico  delle  disposizioni  legislative  e  regolamentari  in
materia  edilizia),  dispone:  «Le  regioni,  sentite le province e i
comuni   interessati,   provvedono  alla  individuazione  delle  zone
dichiarate  sismiche [...], alla formazione e all'aggiornamento degli
elenchi  delle  medesime  zone  e  dei  valori attribuiti ai gradi di
sismicita',  nel  rispetto  dei  criteri generali di cui al comma 2».
Tale ultima disposizione richiamata stabilisce che il Ministro per le
infrastrutture  ed  i  trasporti,  di  concerto  con  il Ministro per
l'interno,  sentiti  il  Consiglio  superiore dei lavori pubblici, il
Consiglio   nazionale  delle  ricerche  e  la  Conferenza  unificata,
determina    con    proprio   decreto   «i   criteri   generali   per
l'individuazione   delle   zone   sismiche   e  dei  relativi  valori
differenziati  del  grado  di  sismicita'  da  prendere a base per la
determinazione  delle  azioni  sismiche  e di quant'altro specificato
dalle norme tecniche».
    Come  si  vede,  il  quadro  normativo sistematico di allocazione
delle  competenze  ai vari livelli di governo e' chiaro e non risulta
contraddetto   dalla  norma  regionale  impugnata,  che  deve  essere
interpretata nel contesto ora richiamato.
    7.  -  Il  Governo  ha  infine promosso questione di legittimita'
costituzionale    dell'art. 27,    comma 1,   lettera e),   n. 4,   e
dell'art. 33  della  legge  reg.  della Lombardia n. 12 del 2005, per
violazione  dell'art. 87  del  decreto  legislativo  1° agosto  2003,
n. 259   (Codice   delle   comunicazioni   elettroniche),  in  quanto
sottopongono  l'installazione  di  torri  e  tralicci per impianti di
radio-ricetrasmittenti   e   di   ripetitori   per   i   servizi   di
telecomunicazione  ad  un  iter autorizzatorio comunale (rilascio del
permesso  di costruire) ulteriore rispetto a quello gia' previsto dal
citato art. 87 del d.lgs. n. 259 del 2003.
    7.1.   -   Preliminarmente   si  deve  rigettare  l'eccezione  di
inammissibilita'  proposta  dalla  difesa  regionale e motivata dalla
mancanza,  nel  ricorso dell'Avvocatura dello Stato, dell'indicazione
del  parametro  di  costituzionalita' di cui si assume la violazione.
Deve  infatti rilevarsi che l'art. 117, terzo comma, Cost. e' evocato
nella  parte  generale  del ricorso, con particolare riferimento alla
materia  «governo  del  territorio»,  e  che  la  norma  impugnata e'
indicata espressamente nel medesimo contesto. Nel punto 3) dei motivi
specifici,   il   ricorrente   non  ha  ritenuto  di  dover  ripetere
l'indicazione  della  norma  costituzionale  e  si  e' limitato a far
riferimento  alla  norma  interposta.  Cio'  non  determina  tuttavia
incertezze  nella individuazione della disposizione costituzionale di
cui si lamenta la violazione.
    7.2. - Nel merito la questione e' fondata.
    7.3.   -   L'art. 87  del  d.lgs.  n. 259  del  2003  costituisce
attuazione  della delega legislativa contenuta nell'art. 41, comma 2,
lettera a),   della   legge  n. 166  del  2002,  che  in  materia  di
telecomunicazioni  prescrive,  al  n. 3,  la «previsione di procedure
tempestive,  non discriminatorie e trasparenti per la concessione del
diritto  di installazione di infrastrutture», e al n. 4 la «riduzione
dei  termini  per  la  conclusione  dei  procedimenti amministrativi,
nonche'  regolazione  uniforme  dei  medesimi  procedimenti anche con
riguardo  a  quelli  relativi  al  rilascio  di autorizzazioni per la
installazione delle infrastrutture di reti mobili».
    Con tali norme il legislatore nazionale ha posto la tempestivita'
delle  procedure  e  la  riduzione  dei  termini per l'autorizzazione
all'installazione  delle  infrastrutture  di  cui sopra come principi
fondamentali  operanti  nella  materia  «governo  del territorio», di
competenza   legislativa  concorrente.  La  confluenza  in  un  unico
procedimento        dell'iter       finalizzato       all'ottenimento
dell'autorizzazione  a  costruire  tali impianti risponde pertanto ai
principi  generali  sopra  richiamati  perche',  come ha osservato il
Consiglio  di  Stato  (sezione  VI,  sentenza  n. 4159  del 2005), le
«esigenze  di  tempestivita'  e contenimento dei termini resterebbero
vanificate  se  il  nuovo  procedimento  venisse ad abbinarsi e non a
sostituirsi a quello previsto in materia edilizia».
    Bisogna  aggiungere che l'unificazione dei procedimenti non priva
l'ente   locale  del  suo  potere  di  verificare  la  compatibilita'
urbanistica  dell'impianto  per  cui  si  chiede l'autorizzazione. Il
citato  art. 87  del  d.lgs. n. 259 del 2003 prevede infatti che tali
installazioni   vengano   autorizzate   dagli   enti  locali,  previo
accertamento,  da  parte  dell'organismo  competente  ad effettuare i
controlli,   della  compatibilita'  del  progetto  con  i  limiti  di
esposizione,  i  valori  di  attenzione  e gli obiettivi di qualita'.
Questi  ultimi  sono  specificati  dall'art. 3,  comma 1, lettera d),
numeri 1 e 2, della legge 22 febbraio 2001, n. 36 (Legge quadro sulla
protezione   dalle   esposizioni  a  campi  elettrici,  magnetici  ed
elettromagnetici).  Nella  suddetta  disposizione  sono  compresi  «i
criteri  di  localizzazione»  e «gli standard urbanistici». La tutela
del  territorio  e  la  programmazione urbanistica sono salvaguardate
dalle  norme  statali  in vigore ed affidate proprio agli enti locali
competenti,  i  quali,  al  pari  delle  Regioni (sentenza n. 336 del
2005),  non  vengono  percio'  spogliati  delle  loro attribuzioni in
materia,  ma  sono  semplicemente  tenuti  ad esercitarle all'interno
dell'unico  procedimento previsto dalla normativa nazionale, anziche'
porre in essere un distinto procedimento.
    7.4.  -  Da  quanto  detto  si  deduce  che  la  previsione di un
ulteriore  procedimento  finalizzato  al  rilascio  del  permesso  di
costruire, che si sovrappone ai controlli da effettuarsi a cura dello
stesso   ente   locale   nell'ambito   del   procedimento  unificato,
costituisce  un  inutile  appesantimento dell'iter autorizzatorio per
l'installazione     di     torri     e    tralicci    per    impianti
radio-ricetrasmittenti   e   di   ripetitori   per   i   servizi   di
telecomunicazione, in contrasto con le esigenze di tempestivita' e di
contenimento dei termini, da ritenersi, con riferimento a questo tipo
di  costruzioni,  principi fondamentali di governo del territorio. Da
cio'  consegue  l'illegittimita' costituzionale delle norme regionali
impugnate per violazione dell'art. 117, terzo comma, Cost.
    8.  -  L'art. 33  della  legge  della Regione Lombardia n. 12 del
2005, impugnato insieme all'art. 27, comma 1, lettera e), n. 4, resta
immune dalla censura di illegittimita' costituzionale prospettata nel
ricorso,  giacche'  disciplina  in generale il permesso di costruire,
dall'ambito  del  quale  viene  sottratta, per effetto della presente
sentenza,  l'autorizzazione all'installazione di torri e tralicci per
le finalita' di cui sopra.