IL GIUDICE

    Letti gli atti osserva quanto segue
    Con  ricorso  ex  articolo  414 c.p.c., depositato il 14 dicembre
2004  presso la cancelleria della sezione del lavoro del Tribunale di
Genova, Boni Ivana conviene in giudizio la cooperativa a r.l. «Gruppo
Albero  della  Vita»  rivendicando differenze retributive maturate in
forza di una attivita' avente ad oggetto mansioni di' ausiliaria e di
operatrice  socio  assistenziale,  e  svolta  dal  2 aprile  2002  al
2 febbraio 2004 quale dipendente della cooperativa stessa.
    E'  pacifico  fra  le parti (vedi il presente verbale di udienza)
che  nel periodo sopra specificato la ricorrente e' stata socia della
cooperativa convenuta. E' altresi' incontestato che la attivita' resa
dalla  attrice,  ed  indicata  nell'atto  introduttivo  del  presente
giudizio,  rientra  nell'oggetto  sociale  della  convenuta  (vedi la
relativa  visura camerale in cui si precisa quale oggetto sociale «La
gestione di servizi socio sanitari»).
    Tutto  cio'  premesso deve valutarsi se la presente controversia,
introdotta  dopo il 1° gennaio 2004, vada trattata col rito delineato
per  le  controversie  di  lavoro dagli articoli 413 ss c.p.c., o col
rito  disciplinato  dal  decreto  legislativo  n. 5/2003;  in  questa
seconda  ipotesi,  ai  sensi  dell'ultimo  comma  dell'articolo 1 del
decreto  legislativo  n. 5/2003,  dovrebbe  disporsi la cancellazione
della causa dal ruolo.
    Giova,   per   bene  intendere  la  problematica  da  affrontare,
richiamare  la  normativa  che  si  e' succeduta sulle cooperative di
lavoro.
    L'articolo 1, comma 3, della legge n. 142/2001, che ha introdotto
una   revisione   della  legislazione  in  materia  cooperativistica,
disponeva  che: «Il socio lavoratore di cooperativa stabilisce con la
propria  adesione  o  successivamente  all'instaurazione del rapporto
associativo  un  ulteriore  e  distinto  rapporto  di lavoro in forma
autonoma  o  subordinata o in qualsiasi altra forma...»; l'articolo 9
della  successiva  legge n. 30/2003 ha abolito l'aggettivo «distinto»
lasciando  tuttavia  l'aggettivo  «ulteriore». L'articolo 5, comma 2,
sempre   della   legge  n. 142/2001,  espressamente  attribuiva  alla
competenza funzionale del giudice del lavoro le controversie relative
ai  rapporti  di  lavoro fra socio e cooperativa di lavoro disponendo
quanto  segue:  «Le  controversie  relative  ai rapporti di lavoro in
qualsiasi  forma  di  cui  al comma 3 dell'articolo 1 rientrano nella
competenza  funzionale del giudice del lavoro; per il procedimento si
applicano  le  disposizioni  di  cui agli articoli 409 e seguenti del
c.p.c...  In  caso  di controversie sui rapporti di lavoro tra i soci
lavoratori   e   le   cooperative,   si  applicano  le  procedure  di
conciliazione   e   di   arbitrato  irrituale  previste  dai  decreti
legislativi   31 marzo  1998  n. 80  e  successive  modificazioni,  e
29 ottobre  1998  n  387.  Restino  di  competenza del giudice civile
ordinario  le  controversie  tra  soci  e  cooperative  inerenti.  al
rapporto associativo.»
    Giova  sottolineare  che  in  forza  dell'articolo  40  c.p.c. la
controversia  tra  socio  e  cooperativa,  attinente  al  rapporto di
lavoro,  attraeva  per  connessione  nella competenza del giudice del
lavoro,  e  nel  relativo  rito,  altre  controversie pendenti fra le
stesse parti e relative al rapporto associativo.
    L'articolo   5,   comma  2,  della  legge  n. 142/2001  e'  stato
integralmente  sostituito  dall'articolo  9,  lettera  d) della legge
n. 30/2003   che,   fra   l'altro,  ha  testualmente  stabilito:  «le
controversie  tra  socio  e  cooperativa  relative  alla  prestazione
mutualistica sono di competenza del tribunale ordinario». Pertanto in
base   a  tale  ultima  disposizione  le  suddette  controversie,  se
instaurate  dopo  il  1° gennaio  2004 (vedi l'articolo 43 del d.lgs.
n. 5/2003),  devono  essere  trattate  col rito delineato dal decreto
legislativo  n. 5/2003  che  si applica tra l'altro alle controversie
relative ai rapporti societari (vedi articolo 1, comma 1, lettera a).
    La  nozione  di  «prestazione mutualistica», cui allude il citato
articolo 9 nella parte sopra trascritta, viene espressamente definita
dall'articolo  1 della legge n. 142/2001 che recita: «Le disposizioni
della  presente  legge si riferiscono alle cooperative nelle quali il
rapporto  mutualistico  abbia  ad oggetto la prestazione di attivita'
lavorative da parte del socio sulla base di previsioni di regolamento
che  definiscono l'organizzazione di lavoro dei soci». La norma, come
emerge  dal  suo  chiaro  tenore  letterale,  espressamente inserisce
nell'oggetto  del  rapporto mutualistico la attivita' lavorativa resa
dal socio lavoratore ed attinente all'oggetto sociale. Tale attivita'
riveste  quindi, per espressa disposizione del legislatore, natura di
prestazione  mutualistica, sicche' le relative controversie, in forza
dell'articolo  5 comma 2 - ora sostituito dall'articolo 9, lettera d)
della legge n. 30/2003 - sono demandate alla cognizione del tribunale
ordinario e vanno ora trattate col rito c.d. societario delineato dal
decreto  legislativo  n. 5/2003,  poiche'  rientrano nella previsione
dell'articolo 1, comma 1, lettera a) del decreto stesso.
    Parte  della  dottrina  che  si  e'  occupata  specificamente del
problema,  ed  alcune  pronunce  giurisdizionali  (vedi  tra le altre
Cassazione  sezione  del lavoro ordinanza n. 850 del 18 gennaio 2005,
in  D-L  n. 1  del  2005)  hanno  invece sostenuto che la espressione
«prestazione   mutualistica»  di  cui  sopra  non  comprenderebbe  la
attivita'  lavorativa  resa  dal socio della cooperativa di lavoro ed
attinente all'oggetto sociale, con la conseguenza che le controversie
attinenti   alla   suddetta  attivita'  resterebbero  demandate  alla
competenza funzionale del giudice del lavoro.
    Si  legge in un passo della citata ordinanza: «Ne consegue che la
norma  in  esame  non puo' che operare per quanto riguarda unicamente
"le  prestazioni  mutualistiche",  cioe' quelle prestazioni che - per
eliminare  l'intento  speculativo  delle societa' capitalistiche - si
traducono  in  prestazioni  che  la societa' assicura ai suoi soci in
termini  pii  vantaggiosi  rispetto  ai  terzi e che, a seguito della
riforma  introdotta  dal  decreto  legislativo  17 gennaio  2003 n. 6
caratterizzano   a   vario  titolo  le  suddette  societa',  con  una
distinzione   -operata   dalla   dottrina   commercialistica   -  tra
cooperative  a  mutualita'  esclusiva  e  a  mutualita'  prevalente e
cooperative  diverse»;  quindi,  sempre seguendo l'orientamento della
S.C.,  l'articolo 5, comma 2, della legge n. 142/2001, come novellato
dall'articolo 9,  lettera  d)  della  legge  n. 30/2003  deve  essere
interpretato    «...con   impossibilita'   di   estensione,   ...alle
controversie  riguardanti  i  diritti sostanziali e previdenziali dei
lavoratori...»
    La  tesi  appena  accennata  non puo' essere condivisa perche' in
insanabile  contrasto  con  la  inequivoca  lettera  del  gia' citato
articolo  1  della  legge  n. 142/2001  il  quale,  come si e' visto,
espressamente   qualifica   oggetto   del  rapporto  mutualistico  la
prestazione   di  attivita'  lavorative  rese  dal  socio  secondo  i
regolamenti  della cooperativa. In definitiva l'esito ermeneutico cui
perviene  la giurisprudenza nel provvedimento di cui sopra si risolve
non nella interpretazione ma nello stravolgimento della lettera della
legge,   e   quindi   in   una  riscrittura,  inammissibile  in  sede
giudiziaria, della legge stessa.
    E  la  tesi  ora  criticata  e'  inaccettabile  anche perche' sui
profili  processuali  delle  controversie  fra  soci e cooperative di
lavoro in definitiva rinviene nell'articolo 9, lettera d) della legge
n. 30/2003  una disciplina identica a quella gia' dettata dal secondo
comma dell'articolo 5 della legge n. 142/2001.
    Ma   siffatto   esito   interpretativo  rende  incomprensibile  e
manifestamente  irrazionale  il  comportamento  del  legislatore  che
avrebbe  novellato  quest'ultima  norma  per  lasciarne inalterato il
senso e la portata originati; avrebbe solo modificato la preesistente
formulazione, assai chiara, con una formulazione piu' oscura.
    Deve   pertanto  concludersi  che,  ai  sensi  dell'inequivoco  e
combinato  disposto dell'articolo 1, comma 1, della legge n. 142/2001
e  dell'articolo  9,  comma  1, lettera d) della legge n. 30/2003, la
prestazione  lavorativa  resa  dal socio di cooperativa, ed attinente
all'oggetto sociale, confluisce nel rapporto sociale.
    Non  va  pero'  sottaciuto che la stessa normativa (appunto legge
n. 142/2001  e  legge  n. 30/2003)  in  altri suoi passi distingue il
rapporto  di lavoro in capo al socio dal rapporto societario. Infatti
il comma 3 dell'articolo 1 della legge n. 142/2001 disponeva che: «Il
socio  lavoratore di cooperativa stabilisce con la propria adesione o
successivamente   all'instaurazione   del   rapporto  associativo  un
ulteriore  e  distinto  rapporto  di  lavoro  in forma subordinata od
autonoma  od  in  qualsiasi  altra  forma...»;  e  l'articolo 9 della
successiva  legge n. 30/2003 al comma 1, lettera a) ha soppresso solo
l'aggettivo   distinto,   lasciando   l'aggettivo  ulteriore.  Infine
l'articolo  9 lettera d) della successiva legge n. 30 del 14 febbraio
2003,  apportando  modifiche  all'articolo  5 della legge n. 142/2001
dispone  fra  l'altro:  «Il  rapporto  di  lavoro  si estingue con il
recesso  o  l'esclusione  del  socio  deliberati  nel  rispetto delle
previsioni  statutarie  e in conformita' con gli articoli 2526 e 2257
del  codice  civile»,  rendendo evidente che il rapporto mutualistico
non  puo'  identificarsi  col  rapporto  di lavoro del socio. In caso
contrario,  cioe'  se  fosse ravvisabile siffatta identificazione, lo
scioglimento  del  rapporto  sociale comporterebbe automaticamente la
risoluzione  del  rapporto  di  lavoro,  e  sarebbe  stata  del tutto
superflua  la  disposizione sopra trascritta dettata dall'articolo 5,
legge  n. 142/2001,  come modificato dall'articolo 9 lettera d) della
legge n. 30/2003.
    La normativa che si sta esaminando sembra pertanto dire in alcuni
passi  che  nelle  cooperative  di lavoro il rapporto di lavoro ed il
rapporto  societario  che fanno capo al socio non si identificano, ma
in   altri  passi  sembra  affermare  l'esatto  contrario,  cioe'  la
identificazione dei due rapporti.
    La  apparente  incongruenza  non puo' che risolversi limitando la
portata   dell'aggettivo  «ulteriore»  al  solo  ambito  del  diritto
sostanziale.
    In altri termini un minimo di coerenza, cui riportare la contorta
normativa  che  si  sta esaminando, impone di ritenere la separazione
tra  i  due  rapporti  limitata  al  solo diritto sostanziale; con la
conseguenza  di applicare all'attivita' lavorativa del socio le norme
sostanziali  in  materia  di lavoro subordinato od autonomo secondo i
casi,  salve  eventuali  deroghe  (e proprio tali deroghe saranno fra
breve  considerate).  Invece nell'ambito processuale tale separazione
viene   meno   con  la  conseguenza  che,  sulla  base  di  tutte  le
considerazioni sopra svolte, ai sensi dell'articolo 5, comma 2, della
legge  n. 142/2001 - ora sostituito dall'articolo 9, lettera d) della
legge n. 30/2003 - sono sottratte al giudice del lavoro ed attribuite
al  tribunale  ordinario  le  controversie  relative  alla  attivita'
lavorativa prestata dal socio per la cooperativa; e tali controversie
vanno  ora  trattate  col  rito c.d. societario delineato dal decreto
legislativo  n. 5/2003,  poiche',  come  si  e' gia' detto, rientrano
nella  previsione  dell'articolo  1,  comma 1, lettera a) del decreto
medesimo.
    A   questo   punto   sorgono  gravi  sospetti  di  illegittimita'
costituzionale della normativa in esame nella parte in cui sottrae le
suddette controversie alla cognizione del giudice del lavoro.
    La  accennata  questione  di illegittimita' costituzionale appare
rilevante e non manifestamente infondata.
    Sulla non manifesta infondatezza.
    Un  approfondimento  sulla non manifesta infondatezza comporta un
non breve discorso.
    Come  e'  noto  in  tema  di cooperative di lavoro un risalente e
consolidato  orientamento giurisprudenziale, ben anteriore alla legge
n. 142/2001,  escludeva  la natura subordinata della prestazione resa
dal socio d'opera; la escludeva a prescindere dall'accertamento degli
indici  elaborati  dalla  giurisprudenza  per la qualificazione di un
rapporto  come subordinato. L'esclusione conseguiva al mero fatto che
la  prestazione fosse inerente all'oggetto sociale, vale a dire fosse
teleologicamente  collegabile  con  l'oggetto  medesimo (in tal senso
Cass.  4 maggio 1983 n. 3068 in Giur. It., I, 1, 1841; Cass. 29 marzo
1989  n. 1530,  in Foro It. 1989, 2181; Cass. 11 aprile 1985 n. 2390,
in Riv. It. Dir. Lav. 1985, II, 831).
    In presenza di tale collegamento teleologico si presumeva, sempre
secondo   l'orientamento   in   esame,  la  esclusione  della  natura
subordinata  della prestazione resa dal socio d'opera; la presunzione
veniva  meno  solo  nell'ipotesi di «un eventuale sovvertimento dello
schema  tipico  e  del fine mutualistico della societa» (in tal senso
specificamente 16 ottobre 1985 n. 5090, in Giust. Civ. 1986, I, 66).
    Come  e' stato sottolineato da parte autorevole della dottrina si
trattava di una operazione giurisprudenziale che aveva reso il lavoro
nelle   cooperative   una  specie  di  «zona  franca»  rispetto  alle
tradizionali   operazioni   espansive   della  fattispecie  delineata
dall'art. 2094  C.C.,  e  quindi  rispetto alle garanzie assicurate a
tutela del lavoratore subordinato.
    L'orientamento  giurisprudenziale,  di cui si e' fatto cenno, pur
se consolidato non era condivisibile.
    Innanzitutto  non  appariva  chiaro  il  limite all'operare della
presunzione  del  carattere  non  subordinato del lavoro prestato dal
socio  d'opera; presunzione esclusa nell'ipotesi di sovvertimento del
fine mutualistico.
    Come  e' noto lo scopo mutualistico va ravvisato nell'intento del
gruppo  organizzato di «fornire beni o servizi direttamente ai membri
dell'organizzazione  a  condizioni  piu'  vantaggiose  di  quelle che
otterrebbero dal mercato».
    Ora nelle cooperative di lavoro il fine mutualistico va ravvisato
nell'intento di fornire ai soci occasioni di lavoro a condizioni piu'
vantaggiose  di  quelle offerte dal mercato. Consegue che l'attivita'
prestata  dai soci, qualora presenti le caratteristiche che connotano
la  subordinazione,  deve  essere  assistita da tutte quelle garanzie
poste  da norme inderogabili di legge a tutela del lavoro dipendente.
In  caso contrario lo scopo mutualistico sarebbe sovvertito in quanto
al  socio  verrebbe fornita una occasione di lavoro a condizioni meno
vantaggiose  di  quelle di mercato, sia pur di un mercato reso rigido
da  norme  inderogabili  di  legge (ad es. il socio presta la propria
attivita'  verso  una  retribuzione inferiore ai minimi stabiliti dal
C.C.N.L.  del settore, con violazione dell'art. 36 della Costituzione
secondo un ormai consolidato orientamento giurisprudenziale; il socio
non usufruisce delle ferie annuali retribuite ecc...)
    Ne  consegue che il socio deduce per definizione un sovvertimento
del  fine mutualistico qualora agisca nei confronti della cooperativa
lamentando  di  aver  ricevuto  un  trattamento  deteriore rispetto a
quello  stabilito  da  norme  inderogabili  di  legge  o di contratti
collettivi.  E  si  tratta  di  una  doglianza che, come e' del tutto
evidente  (se  ne ha piena conferma scorrendo un qualsiasi repertorio
di  giurisprudenza,  e  la  presente  controversia  ne costituisce un
ulteriore  esempio),  di  solito  attiene  alla  causa  petendi della
controversia  promossa  da  un socio nei confronti di una cooperativa
cui   abbia   prestato  attivita'  caratterizzata  dagli  indici  che
connotano  la subordinazione. Sicche' quel limite alla presunzione di
non  subordinazione, che veniva dalla giurisprudenza prospettato come
eccezionale,  sarebbe  stato  di  regola  presente, vanificando cosi'
quella  operazione  giurisprudenziale  volta,  come  si  e'  visto, a
rendere  l'attivita'  prestata  dal  socio  d'opera una «zona franca»
rispetto alle garanzie dettate a tutela del lavoro subordinato.
    L'orientamento  giurisprudenziale  teste'  esaminato  era  quindi
contraddittorio, e gia' sotto questo profilo non condivisibile.
    Ed  ulteriori  pregnanti  considerazioni  ne  confermano  la  non
condivisibilita'.
    Giova   richiamare   due   importanti   decisioni   della   Corte
costituzionale  (Corte  costituzionale  sentenza  del 12 gennaio 1993
n. 121,   e  Corte  costituzionale  sentenza  del  1994  n. 115)  che
affermano  solennemente  nella  parte  motiva  il seguente principio:
«...non   sarebbe   comunque  consentito  al  legislatore  negare  la
qualificazione giuridica di rapporti di lavoro subordinato a rapporti
che   oggettivamente   abbiano   tale  natura,  ove  da  cio'  derivi
l'inapplicabilita' delle norme inderogabili previste dall'ordinamento
per  dare  attuazione ai principi, alle garanzie e ai diritti dettati
dalla Costituzione a tutela del lavoro subordinato».
    E'  evidente  che  se  nemmeno  il  legislatore  puo'  negare  la
qualifica   di   rapporti   di  lavoro  subordinato  a  rapporti  che
oggettivamente  abbiano  siffatta  natura,  a  maggior  ragione  tale
possibilita' non puo' essere attribuita all'autonomia negoziale, Come
messo  in  luce  da autorevole dottrina le menzionate decisioni della
Consulta  esprimono  un  chiaro  messaggio: la netta prevalenza della
prospettiva della effettivita' del rapporto rispetto alla prospettiva
del  contratto.  E'  un messaggio che collega alla subordinazione una
esigenza  di  tutela  che coinvolge valori fondamentali della persona
riconosciuti  a  livello  costituzionale. Tale esigenza giustifica un
complesso  di norme inderogabili (complesso che non ha l'eguale negli
altri  rapporti  di  diritto  privato,  e  che  ha indotto autorevole
dottrina a rilevare che il contratto fa nascere il rapporto di lavoro
subordinato  ma  non  lo  governa)  ed  impone adeguati strumenti per
evitarne  la  elusione. E la netta prevalenza della prospettiva della
effettivita'.   del   rapporto   sulla   prospettiva  del  contratto,
affermata, come si e' visto, dalla Corte Costituzionale, vuole essere
una barriera di non poco momento a tentativi di elusione.
    La  subordinazione  richiama  la accennata esigenza di tutela per
almeno  due  motivi:  1)  perche'  e'  allusiva  di  una posizione di
debolezza  economica  nei  confronti  della  controparte;  2) perche'
comporta  un  assoggettamento  del  prestatore  alle  direttive ed al
controllo  della  controparte nella cui organizzazione e' stabilmente
inserito,  assoggettamento  che  per  la  sua pregnanza, almeno nella
maggior parte dei casi, non ha riscontro nelle altre obbligazioni fra
privati,  e  che proprio per tale pregnanza coinvolge direttamente la
persona  che  lavora e reclama una particolare esigenza di tutela (si
pensi, a tacere di altro, alla imponente normativa sulla sicurezza).
    La  nozione  di  lavoratore, che richiama la suddetta esigenza di
tutela  ed  il  complesso apparato protettivo volto a realizzarla, e'
quindi  collegata alla subordinazione che connota il rapporto nel suo
effettivo  svolgimento,  a  prescindere  dal tipo di contratto in cui
viene dedotta.
    Si  tratta  di  un  principio fondamentale che, oltre ad emergere
dalle  decisioni  della  Corte  costituzionale sopra richiamate (vedi
appunto  le  sentenze n. 121/1993 e n. 115/1994), si sta consolidando
nel    diritto    comunitario,   grazie   alla   elaborazione   della
giurisprudenza  della  Corte  di Giustizia (vedi C. Giust. 6 novembre
2003,  causa n. 413/01, Ninni-Orasche; C. Giust. 23 marzo 2004, causa
n. 138/02  Brian  Francis  Collins-Secretary  of  State  for Work and
Pensions;  C. Giust. 7 settembre 2004 causa n. 456/02, Michel Troiani
contro   centre   public  d'aide  sociale  de  Bruxelles;  C.  Giust.
13 gennaio  2004,  causa  n. 256/01  Debra  Allonby c. Accrington and
Rossendale College.).
    Si  legge  nella  motivazione  della  sentenza 413 del 6 novembre
2003:  «Si  deve  ricordare,  in  via  preliminare,  che  secondo una
giurisprudenza   costante,  la  nozione  di  "lavoratore",  ai  sensi
dell'articolo  48 del Trattato riveste portata comunitaria e non deve
essere interpretata in modo restrittivo ... Inoltre tale nozione deve
esser  definita  secondo  criteri  obiettivi  che  caratterizzano  il
rapporto di lavoro ...»
    Non  puo'  non  colpire la piena sintonia col principio affermato
dalle  richiamate  sentenze  (n. 121/1993  e  n. 115/1994 della Corte
costituzionale)  «...  non sarebbe comunque consentito al legislatore
negare  la  qualifica  giuridica  di rapporti di lavoro subordinato a
rapporti che oggettivamente abbiano tale natura». Ed in questo senso,
ancora  piu' incisivamente, la sentenza (sopra richiamata) n. 456 del
7 settembre  2004  «...  come  la  Corte  ha  affermato la nozione di
lavoratore ai sensi dell'articolo 39 CE riveste portata comunitaria e
non   deve   essere   interpretata   in   modo  restrittivo...  ...La
caratteristica   del   rapporto  di  lavoro  e'  data,  secondo  tale
giurisprudenza,  dalla  circostanza  che  una persona fornisca per un
certo  periodo di tempo, a favore di un'altra e sotto la direzione di
quest'ultima,  prestazioni  in  contropartita  delle quali riceve una
retribuzione ... Inoltre la natura sui generis del rapporto di lavoro
riguardo   al   diritto   nazionale...»  non  puo'  «...avere  alcuna
conseguenza  sulla  qualita'  di  lavoratore  ai  sensi  del  diritto
comunitario...».  Non  si  potrebbe  esprimere in modo piu' chiaro il
principio  sopra  richiamato:  il  complesso di garanzie a favore del
lavoratore  si collega alla subordinazione che connota il rapporto di
lavoro, a prescindere dal tipo di contratto in cui viene dedotta.
    Ora  sotto  il  profilo  della subordinazione e' agevole rilevare
sotto questo profilo la analogia fra chi presta attivita' in forza di
un contratto tipico di lavoro subordinato, ed il socio lavoratore che
presti  attivita'  subordinata  in  una  cooperativa  che annoveri un
rilevante  numero  di  soci (ad esempio parecchie centinaia), che sia
soggetto  al  potere  gerarchico e disciplinare esercitato dai membri
del  consiglio  di  amministrazione,  vincolato  all'osservanza di un
orario   di   lavoro,  retribuito  con  una  somma  fissa  mensile  o
settimanale,  inquadrato  professionalmente  secondo  l'inquadramento
delineato dalla contrattazione collettiva del settore.
    Non  appaiono quindi condivisibili le considerazioni svolte dalla
stessa  Corte  costituzionale  nella sentenza 30/1996 con la quale ha
dichiarato  infondata  la  questione  di  illegittimita' dell'art. 2,
legge  29 maggio 1982 n. 297 nella parte in cui non estendeva ai soci
delle  cooperative  di  produzione  e  lavoro  la tutela del Fondo di
Garanzia  per  il  trattamento di fine rapporto in caso di insolvenza
della societa'. Si legge nella parte motiva della suddetta decisione:
«Per  l'applicazione  degli  altri  aspetti  della tutela del lavoro,
invece,  e  in  particolare  per  quelli concernenti la retribuzione,
assume  rilievo non tanto lo svolgimento di fatto di una attivita' di
lavoro  connotata  da  elementi  di subordinazione, quanto il tipo di
interessi  cui  l'attivita'  e'  funzionalizzata  e il corrispondente
assetto  di  situazioni  giuridiche  in cui e' inserita.» Ora, sempre
secondo  la  Corte  costituzionale  in questo caso influenzata da una
esasperata  ed astratta prospettiva contrattualistica, la prestazione
resa  dal  socio  nei  confronti  di  una  cooperativa si inserirebbe
comunque in un assetto diverso da quello che caratterizza il rapporto
di  lavoro  subordinato.  E  cio'  perche' il socio sarebbe partecipe
dello  scopo dell'impresa collettiva e si vedrebbe attribuiti «poteri
e   diritti  di  concorrere  alla  formazione  della  volonta'  della
societa',  di controllo sulla gestione sociale e infine il diritto ad
una quota degli utili.». Nel discorso svolto nei passi ora trascritti
riaffiora  il  non condivisibile argomento sulla pretesa unicita', in
capo  al  datore ed al prestatore, del centro di interesse; argomento
posto  a  sostegno  del risalente orientamento giurisprudenziale che,
come  si e' visto, ha reso l'attivita' prestata (in modo subordinato)
dal  socio d'opera una «zona franca» rispetto alle garanzie dettate a
tutela del lavoratore subordinato.
    Si  tratta  di  un argomento non condivisibile perche' viziato da
astrattezza.
    Come  e' noto nell'elaborazione dei criteri idonei ad individuare
gli  estremi della subordinazione, per applicare garanzie previste da
norme  inderogabili  a  favore del lavoratore, parte autorevole della
dottrina  ha  teorizzato  il c.d. metodo tipologico da contrapporre a
quello   tradizionale  c.d.  sussuntivo.  Quest'ultimo,  fondato  sul
principio  di  identita', si limita ad esaminare isolatamente ciascun
elemento della fattispecie concreta e ad accertarne la corrispondenza
a quello previsto dalla fattispecie astratta. La norma deve ritenersi
applicabile   al  caso  concreto  qualora,  a  seguito  del  suddetto
raffronto,  ciascun  elemento  da  essa delineato sia rinvenibile nel
caso singolo.
    Il  metodo  c.d.  tipologico,  fondato  sul  diverso principio di
approssimazione,  prende  in  considerazione i vari elementi del caso
concreto   non  isolatamente,  ciascuno  di  per  se',  ma  nel  loro
complesso,  li  valuta  cioe'  per  il  senso  che  assumono nel loro
reciproco  collegamento,  in  quanto parti di un contesto unitario; e
porta cosi' ad un giudizio non di identita', ma di equivalenza.
    E  tale  metodo  tipologico  e'  stato,  consapevolmente  o meno,
adottato dalla giurisprudenza nel suo concreto operare.
    Secondo  una  consolidata giurisprudenza la sussistenza o meno in
un  caso  concreto  di  un  rapporto di lavoro subordinato si ravvisa
sulla  base dei c.d. indici o spie (prestazione nei locali del datore
con  uso  dei  suoi  strumenti,  osservanza  di  un orario di lavoro,
percezione  di  una retribuzione fissa, soggezione alle direttive del
datore    etc...);   e,   sempre   secondo   il   cennato   indirizzo
giurisprudenziale,  non  e'  necessario,  per  ravvisare  in  un caso
concreto  gli estremi del lavoro subordinato, che i suddetti indici o
spie  ricorrano  tutti  insieme, mentre, nel contempo, la presenza di
taluni  soltanto  di  essi  non  e'  incompatibile con un rapporto di
lavoro  autonomo. E' chiaro che siffatta impostazione e' in contrasto
col   metodo   c.d.  sussuntivo  che  viene  quindi  ripudiato  dalla
giurisprudenza, quanto meno nel suo concreto operare.
    Nell'ordine  di  idee  ispirato  dal  c.d.  metodo  tipologico e'
agevole  rilevare, come si e' gia' accennato, che il socio lavoratore
nello esempio poc'anzi prospettato (cooperativa con centinaia di soci
etc....)  si  presenta  in  una posizione analoga, secondo appunto un
giudizio  di  equivalenza,  a  quella  del lavoratore subordinato. Si
tratta  in  altri  termini  di  una  situazione  che valutata nel suo
complesso,  in  base al legame fra i vari elementi che la compongono,
si   concreta   nello  stabile  inserimento  del  lavoratore  in  una
organizzazione produttiva, stabile inserimento che, secondo una ormai
diffusa  ed autorevole opinione, configura la connotazione essenziale
del   lavoro   subordinato.   Ne'   varrebbe   obiettare   che   tale
organizzazione   presenta   il   carattere  della  alienita'  per  il
prestatore  parte  di un contratto ex articolo 2094 c.c., mentre tale
carattere  mancherebbe  per  il  socio  in  grado  di partecipare con
diritto  di'  voto  alle  assemblee  sociali  ed influenzare cosi' la
attivita' della cooperativa.
    Tale obiezione non sarebbe convincente.
    In  molti  casi  la  possibilita'  del  socio  di  incidere sulla
attivita'  della cooperativa sarebbe in concreto assai meno pregnante
di  quella  esercitata, in aziende di medie dimensioni, da lavoratori
fortemente     sindacalizzati,     attesa     la     ormai    diffusa
«procedimentalizzazione» del potere direttivo dell'imprenditore.
    Tale   possibilita'   sarebbe  ancor  meno  pregnante  di  quella
esercitata  da lavoratori dipendenti in imprese in cui si sia attuato
l'istituto  della partecipazione. (L'istituto della partecipazione ha
ricevuto   un   notevole   impulso  a  seguito  delle  direttive  sul
coinvolgimento  dei lavoratori nella societa' europea, vedi direttiva
2001/1986/CE).
    E'  bene  altresi'  sottolineare  che  il  risalente orientamento
giurisprudenziale,  volto ad escludere la cooperativa dall'area delle
norme  protettive  in tema di subordinazione (norme la cui osservanza
comporta, come e' noto, gravosi oneri a carico del datore di lavoro),
si   risolve   anche   in  una  alterazione  delle  condizioni  della
concorrenza,  perche'  in  definitiva  attribuisce  alle cooperative,
rispetto  agli altri datori di lavoro, una posizione privilegiata per
legge.
    Anche   sotto  questo  profilo  si  ravvisa  la  inaccettabilita'
dell'orientamento giurisprudenziale in questione.
    La  esigenza  di equiparare il socio lavoratore, che presti nelle
cooperative attivita' subordinata, al lavoratore subordinato, proprio
perche',  per  tutte  le  ragioni  esposte,  risponde  a valori della
Costituzione,   si   e'   in   concreto   affermata  nell'ordinamento
costituendo  il  filo  conduttore di una evoluzione legislativa volta
sempre  piu'  a  parificare  il socio delle cooperative di lavoro, il
quale  presti  la  propria  attivita' subordinatamente, al lavoratore
subordinato.   Si   pensi   alla  materia  dell'assicurazione  contro
l'invalidita'  e la vecchiaia (art. 2, r.d. 28 agosto 1924, n. 1422 e
successive  modificazioni)  e contro gli infortuni sul lavoro (art. 4
n. 7 d.P.R. 30 giugno 1965 n. 1124), alle materie di orario di lavoro
(art. 2  R.D.  10 settembre  1923  n. 1955),  di  riposo domenicale e
settimanale  (art. 2,  legge  22 febbraio  1934,  n. 370), di assegni
familiari  (art. 1,  d.P.R.  30 maggio 1955, n. 797), di tutela della
lavoratrici madri (art. 1, legge 30 dicembre 1971, n. 1204); si pensi
altresi'  all'art. 8 d.l. 20 maggio 1993, n. 148 convertito con legge
19 luglio  1993,  n. 236  che  ha  disposto la equiparazione dei soci
lavoratori  ai  lavoratori  dipendenti in relazione alla procedura di
CIGS  ed  a quella di mobilita', estendendo quindi ai soci lavoratori
delle  cooperative  la  disciplina  dettata  dagli art. 14 e 24 della
legge  n. 223/1991; e la stessa legge ha esteso ai soci lavoratori di
cooperative  di produzione e lavoro i principi di non discriminazione
diretta  ed indiretta di cui alla legge 10 aprile 1991 n. 125; e deve
aggiungersi   l'articolo   24   della   legge   n. 196/1997   che  ha
espressamente   esteso   ai   soci   lavoratori  presso  le  societa'
cooperative la garanzia assicurata dall'INPS in ordine al trattamento
di fine rapporto.
    E'  bene  sottolineare  che  la  estensione  alle  cooperative di
produzione e lavoro della disciplina in tema di CIGS, di mobilita' ed
in  tema  di  divieto di discriminazione e' rivelatrice di una chiara
contrapposizione  di  interessi  fra prestatore e datore, e rivela la
artificiosita'  di  quella  costruzione che ravvisa in capo a costoro
quel  preteso  centro  unitario  di  interessi  che  ha  ispirato  il
risalente  e  consolidato orientamento giurisprudenziale di cui si e'
fatto cenno.
    Attese  le  considerazioni  svolte  e'  pienamente condivisibile,
perche'  conforme  ai principi della Costituzione, ed in linea con la
accennata  evoluzione  legislativa,  di  cui ha esplicitato la logica
profonda,  quella  costruzione  dottrinale  che  ha  distinto,  nelle
cooperative  di  lavoro  e  con  riferimento  ai soci lavoratori, due
ordini di rapporti, quello sociale e quello di lavoro subordinato,
    E'  stato infatti affermato da recente ed autorevole dottrina che
la  fruizione  di  piu'  vantaggiose occasioni (che concreta lo scopo
mutualistico)  non  si  realizza  sulla base del rapporto sociale, ma
richiede  la creazione di rapporti contrattuali ulteriori rispetto al
contratto di societa'. Cosi' in una cooperativa edilizia la fruizione
di  un  alloggio  da  parte  di  un  socio  comporta la stipula di un
contratto   di  compravendita.  In  questo  ordine  di  idee  in  una
cooperativa  di  produzione  e  lavoro  viene  fornita  al  socio una
occasione  di  lavoro  subordinato  (e  si  realizza  cosi'  il  fine
mutualistico)  mediante  la  stipula di un apposito contratto tipico;
dal che discende pianamente l'applicazione al relativo rapporto delle
tutele sancite da norme inderogabili di legge a favore del lavoratore
subordinato. In conclusione passo dopo passo la legislazione (vedi la
rassegna di cui sopra) ha equiparato al rapporto di lavoro dipendente
il  rapporto  del socio che presti per la cooperativa di produzione e
lavoro attivita' connotata dalla subordinazione.
    Pertanto   la   legge   n. 142/2001   che,   come  si  e'  detto,
nell'articolo  1,  comma  3 in capo al socio di cooperativa di lavoro
distingueva due ordini di rapporti, uno associativo ed uno di lavoro,
e  nell'articolo  5,  comma  2  demandava  al  giudice  del lavoro le
controversie  attinenti  al  secondo  rapporto,  aveva  in definitiva
portato  a  compimento,  e  con estrema chiarezza, la sopra delineata
evoluzione  del  preesistente  ordinamento  giuridico; evoluzione, e'
bene  ribadire,  ispirata  da  valori  costituzionali, ed esplicitata
dalla costruzione dottrinaria appena richiamata.
    Senonche'  il  legislatore  del  2003  (vedi il piu' volte citato
articolo  9,  lettera  d)  ha  compiuto una netta inversione di rotta
sottraendo  al  giudice  del  lavoro,  ed  attribuendo  al  tribunale
ordinario,  le  controversie  promosse  dal  socio  di cooperative ed
attinenti  ad  attivita'  lavorative  comprese  nell'oggetto sociale.
Controversie  ora  da  trattare  col  rito  c.d. societario di cui al
decreto legislativo n. 5/2003 e successive modificazioni.
    Si  tratta  di  una  netta inversione di rotta perche' la cennata
innovazione  sul  rito  non  produce  i  suoi effetti nel solo ambito
processuale,  ma,  a  ben  guardare,  sfocia  nel diritto sostanziale
comportando una massiccia riduzione di garanzie prima riconosciute al
socio  in  regime  di  subordinazione.  E'  opportuno  ricordare  una
risalente esigenza di sorreggere ed integrare le garanzie sostanziali
riconosciute  al  lavoratore mediante la previsione di speciali forme
processuali  aderenti  alle peculiarita' delle situazioni sostanziali
in  materia  di  lavoro,  e  cosi' adeguate agli specifici bisogni di
tutela ad esse connaturate.
    Da  oltre  un  secolo si e' affermato nel nostro ordinamento, sia
pure  attraverso il succedersi di discipline notevolmente diverse, un
rito  speciale del lavoro, Tale affermazione ha preso le mosse con la
istituzione   dei   collegi   dei  probiviri  in  forza  della  legge
n. 15 giugno  1893,  n. 195;  e  nel  periodo  del  fascismo la legge
3 aprile  1926  n. 563  ha  istituito  la magistratura del lavoro. Se
successivamente  la  disciplina  delle  controversie  del  lavoro  e'
rifluita  nel  codice  di  procedura  del 1942, l'esigenza di un rito
speciale  del  lavoro  e'  stata  nuovamente  realizzata con la legge
11 agosto 1973 n. 533.
    Gia'  questa  breve  disamina  dell'esperienza  legislativa mette
sull'avviso   che   il  mutamento  di  rito  introdotto  dalla  legge
n. 30/2003 non limita i suoi effetti all' ambito processuale.
    Giova  in  proposito  sottolineare che il c.d. rito societario ex
decreto  legislativo  n. 5/2003 e successive modifiche, come ha messo
in   luce   la   dottrina   che   ne   ha  fatto  oggetto  dei  primi
approfondimenti,  e'  ispirato dalla visione del processo come di «un
gioco  tra  le parti» in cui la comparsa del giudice e' lasciata alla
volonta'  di  esse  e  trasposta in teoria ad un tempo indefinito. Si
tratta   quindi,  come  ha  sottolineato  la  dottrina,  di  un  rito
tendenzialmente «paritario» privo di un qualsiasi connotato di tutela
di  una  parte debole, quindi agli antipodi dello spirito informatore
del  diritto  del lavoro mosso, come e' noto, dalla esigenza di fondo
di  tutela  del  lavoratore considerato parte debole del rapporto. Il
legislatore  del 2003 ha quindi operato in macroscopico contrasto con
la  tradizionale  tendenza  di  elaborare in relazione al diritto del
lavoro moduli processuali aderenti alle peculiarita' delle situazioni
sostanziali.
    Un  esame  specifico consente di rilevare agevolmente in tutta la
loro  portata  le massicce riduzioni di' garanzie, in danno del socio
lavoratore,  che  discendono  dal  mutamento di rito introdotto dalla
legge n. 30/2003.
    Innanzitutto  il  processo  societario  comporta  maggiori costi,
soprattutto  se demandato ad arbitri (sulla devoluzione ad arbitri si
vedra'  approfonditamente  piu'  oltre), con evidente pregiudizio del
lavoratore  soprattutto  per le controversie di non rilevante entita'
economica,  e  sotto  questo  profilo  gia'  si  ravvisa un possibile
contrasto con l'articolo 24 della Costituzione..
    Inoltre  nel  rito  societario  il  giudice  e'  privo dei poteri
istruttori  di  ufficio che sono attribuiti al giudice del lavoro per
assicurare  piu'  adeguatamente  la ricerca della verita' e quindi la
tutela  della parte piu' debole che faccia fondatamente valere un suo
diritto.
    Deve  aggiungersi  che  al  socio  lavoratore  viene sottratta la
garanzia   di   cui   all'ultimo   comma   dell'articolo  429  c.p.c.
(rivalutazione  automatica  del  credito)  connaturata  al  rito  del
lavoro.
    Ed ancora.
    Se  le  controversie  fra  socio lavoratore e cooperativa vengono
trattate  col  rito  societario  i  correlativi  rapporti sostanziali
esulano  dalla  previsione  di  cui  all'articolo  409 c.p.c., con la
conseguenza  che ad essi non e' piu' applicabile l'articolo 2113 c.c.
che assicura una specifica garanzia al prestatore.
    Ma non basta.
    L'articolo  34  del  decreto  legislativo n. 5/2003 consente agli
atti costitutivi della cooperativa la devoluzione ad arbitri di tutte
le controversie insorgenti fra i soci ovvero tra i soci e le societa'
che  abbiano  ad  oggetto  diritti  disponibili  relativi al rapporto
sociale  e  specifica  al  comma  3 che la claurola compromissoria e'
«...vincolante  per la societa' e per tutti i soci, inclusi coloro la
cui  qualita'  di socio e' oggetto della controversia.»; e l'articolo
36  del  predetto  decreto dispone che l'arbitrato secondo equita' va
escluso solo qualora gli arbitri:«... per decidere abbiano conosciuto
di   questioni  non  compromettibili,  ovvero  quando  l'oggetto  del
giudizio  sia costituito dalla validita' delle delibere assembleari,»
Pertanto  i  diritti dei soci nascenti dalla prestazione di attivita'
lavorativa  resa a favore della cooperativa di produzione e lavoro, e
compresa   nell'oggetto  sociale,  sono  compromettibili  ad  arbitri
autorizzati  a decidere secondo equita'. Sono compromettibili perche'
caratterizzati da entrambi i requisiti previsti dal cito articolo 34,
vale a dire: 1) sono pienamente disponibili, esclusa, come si e' gia'
visto, la applicabilita' dell'articolo 2113 cc.; 2) discendono da una
prestazione lavorativa che, almeno sotto il profilo processuale (vedi
sopra), confluisce nel rapporto sociale.
    La accennata compromettibilita' ad arbitri autorizzati a decidere
equitativamente   costituisce   la  conseguenza  piu'  devastante  in
pregiudizio dei soci lavoratori.
    Va  ribadito che la esigenza di tutela del lavoratore considerato
parte debole del rapporto costituisce il principio di fondo su cui il
diritto  del  lavoro  nasce e si sviluppa quale ramo dell'ordinamento
dotato, rispetto al diritto civile, di una sua pur relativa autonomia
caratterizzata  da  principi  di  settore.  Ed  uno  dei  pilastri di
siffatta  tutela  e'  un  apparato  protettivo assicurato da norme di
legge o di contratto collettivo che sono unilateralmente inderogabili
in  sede  di  autonomia individuale, vale a dire che si sostituiscono
automaticamente   a   clausole   contrattuali   difformi   in   senso
peggiorativo  per  il lavoratore. Tale apparato protettivo, in quanto
volto  a  controbilanciare  la  disparita'  di  fatto  a le parti del
rapporto  di  lavoro, trova fondamento innanzitutto nel secondo comma
dell'articolo  3 della Costituzione che sancisce, quale compito della
Repubblica,  rimuovere gli ostacoli di ordine economico e sociale che
limitano  di  fatto  la  eguaglianza  dei  cittadini;  trova altresi'
fondamento  negli  articoli  35  e  36  che  proclamano la tutela del
lavoro.
    Ora ognuno vede come sia contraddittorio disciplinare un rapporto
con   norme   inderogabili  e  nel  contempo  demandare  le  relative
controversie  ad arbitri autorizzati a decidere secondo equita', vale
a  dire  autorizzati  a  non  osservare  le  suddette  norme.  E' una
contraddizione  che  si  risolve  nella  pratica  vanificazioue della
inderogabilita' e dell'esigenza di tutela ad essa sottesa.
    Vanificando  la  inderogabilita'  delle norme che disciplinano il
rapporto  di  lavoro  si colpisce al cuore lo spirito informatore del
diritto  del  lavoro,  e  di fatto si priva il socio lavoratore di un
apparato protettivo frutto di una lunga evoluzione che ha interessato
il  secolo appena trascorso, E' illuminante in proposito sottolineare
che  anche  ai  probiviri  era  stata  demandata una giurisdizione di
equita'.  Ma si era nel 1893, mancava all'epoca un diritto del lavoro
col  suo  apparato  protettivo  (a  parte  alcune sparse e specifiche
disposizioni,  in particolare sulla tutela dei fanciulli), sicche' la
disciplina  del  rapporto  di  lavoro  andava  rinvenuta  nel diritto
civile.  In questo contesto la giurisdizione di equita' dei probiviri
aveva   proprio   lo   scopo  di  adeguare  il  diritto  civile  alle
peculiarita'  del  rapporto  di lavoro, ed alle esigenze di tutela ad
esso   connaturate.   Oggi  invece,  con  una  sorta  di  paradossale
inversione,   viene   introdotta   una   giurisdizione   di   equita'
potenzialmente  idonea  a  smantellare  un  ormai collaudato apparato
protettivo predisposto a tutela del prestatore, ed a stemperare cosi'
il diritto del lavoro nel diritto civile.
    Attese  le  considerazioni svolte e' agevole rilevare gli aspetti
di  illegittimita'  costituzionale che viziano l'articolo 9, comma 1,
lettera  d)  della  legge  n. 30/2003  nella  parte in cui sottrae al
giudice  del  lavoro,  e  sottopone  al  rito  ex decreto legislativo
n. 5/2003,  le  controversie  fra  soci  e  cooperative  di lavoro ed
attinenti  alle  prestazioni  lavorative  rese  dal  socio e comprese
nell'oggetto sociale.
    Si  ravvisa  un  contrasto  con  gli  articoli  24, 35 e 36 della
Costituzione,  e  con  l'articolo  3 secondo comma della Costituzione
nella  parte in cui demanda alla Repubblica di rimuovere gli ostacoli
che di fatto limitano la eguaglianza dei cittadini.
    Come  si e' gia' accennato la norma che si sta esaminando apre la
strada  allo  smantellamento di un apparato di garanzie assicurate al
socio lavoratore in attuazione appunto di citati articoli 3, 24, 35 e
36 della Costituzione.
    Ora,  come ha messo in luce autorevole dottrina, la soppressione,
o  la  limitazione di garanzie gia' sancite dal legislatore ordinario
in  attuazione  di principi costituzionali si risolve in un contrasto
con  quei  principi  stessi  perche' ne sopprime, o ne limita la gia'
avvenuta attuazione.
    Detto  contrasto  potrebbe  superare  il vaglio di illegittimita'
costituzionale  solo  qualora  una situazione sopravvenuta imponga la
limitazione   delle   suddette   garanzie   a  salvaguardia,  in  una
prospettiva di bilanciamento, di altri valori costituzionali.
    Tale  conclusione trova tra l'altro un saldo fondamento normativo
nella  lettera  G)  della  parte  V  della Carta Sociale Europea che,
tradotto  in  lingua  italiana,  recita:  «I  diritti  ed  i principi
enunciati nella parte prima, quando saranno effettivamente attuati, e
l'esercizio  effettivo di tali diritti e principi come previsto nella
parte   seconda   non   potranno  essere  oggetto  restrizioni  o  di
limitazioni non specificate nelle parti I e II ad eccezione di quelle
stabilite  dalla  legge  e  che  sono  necessarie,  in  una  societa'
democratica,  per  garantire il rispetto dei diritti e delle liberta'
altrui o per proteggere l'ordine pubblico, la sicurezza nazionale, la
salute  pubblica o il buon costume.» E' pur vero che la Carta Sociale
Europea  non  e'  direttamente  applicabile nell' ordinamento interno
della Repubblica Italiana, tuttavia, firmata a Strasburgo il 3 maggio
1996,  e'  stata  ratificata  dall'italia  con legge 9 febbraio 1999,
n. 30  -  Gazzetta  Ufficiale  23 febbraio  1999  suppl. ord. - ed e'
entrata in vigore il 1° settembre 1999, a seguito dello scambio degli
strumenti  di  ratifica  avvenuto  il  6 luglio 1999, e comunicato in
Gazzetta Ufficiale 5 ottobre 1999, n. 234.
    Pertanto  i  principi  da  essa affermati rivestono valore quanto
meno in sede interpretativa.
    Ebbene  nella  specie non si ravvisano, in relazione ad una norma
come l'articolo 1 lettera d) della legge n. 30/2003 che disciplina il
rito per la trattazione di una determinata categoria di controversie,
sopravvenute  esigenze  tali da giustificare, a salvaguardia di altri
valori  costituzionali,  e  secondo  il  criterio  di  un ragionevole
bilanciamento,  la  pesante  riduzione,  di  cui  si  e' detto, delle
garanzie gia' riconosciute al socio lavoratore.
    Appare quindi tutt'altro che manifestamente infondato il sospetto
che  si  ponga  in  contrasto  con  gli articoli 3, 24, 35 e 36 della
Costituzione l'articolo 9, comma 1, lettera d) della legge n. 30/2003
nella  parte in cui sottrae al giudice del lavoro le controversie fra
soci  e  cooperative  e  relative  a  prestazioni  rese  dai primi ed
attinenti all'oggetto sociale.
    Ed  e'  ravvisabile un ulteriore contrasto con l'articolo 3 della
Costituzione  almeno  sotto  altri  due  profili  oltre a quello gia'
esaminato.
    Il  primo riguarda la violazione del principio di uguaglianza per
disparita' di trattamento.
    Invero  il  socio  di  cooperativa perde le tutele connaturate al
rito  del  lavoro,  e  si trova cosi' in una situazione sperequata in
relazione  non  solo  agli  altri lavoratori subordinati, ma anche ai
titolari  di  altri  rapporti,  aventi  per  oggetto  una prestazione
lavorativa,  che  presentano  solo  un fondamento associativo - senza
alcun  contratto  di  lavoro (neppure accessorio o collegato, come e'
invece per il socio di cooperativa di lavoro) - ed in ordine ai quali
la  giurisprudenza  pacificamente riconosce, la competenza funzionale
del  giudice  del  lavoro  (vedi la associazione in partecipazione, o
l'impresa   familiare).   Una   disparita'   priva   di   ragionevole
giustificazione  atteso  che  lo  stesso legislatore, come si e' gia'
visto,  nell'arco  di  diversi  anni, muovendosi secondo una costante
direzione, ha sempre piu' assimilato il socio lavoratore in regime di
dipendenza al lavoratore subordinato.
    Il  secondo  profilo  riguarda  la  violazione  del  principio di
ragionevolezza.
    Il  legislatore,  fatta una scelta di fondo deve, per esigenze di
ragionevolezza  e  di  coerenza,  ad  essa  mantenersi  fedele.  Sono
certamente  ammissibili  deroghe, purche' restino appunto tali; vi e'
un  limite oltre il quale le deroghe ad una scelta di fondo diventano
cosi'   numerose   e   massicce   da  risolversi  nella  sua  pratica
vanificazione.
    E' bene chiarire.
    La  revoca  di  una  scelta  di fondo ed una conseguente radicale
inversione   di  rotta,  sono  ammissibili  qualora  rientrino  nella
discrezionalita' del legislatore. Tuttavia una elementare esigenza di
ragionevolezza  impone che vengano attuate in modo trasparente, e non
siano operate in modo surrettizio, vale a dire attraverso deroghe che
solo  apparentemente  rispettino  una  scelta  di fondo gia' attuata,
mentre   in   realta'  la  travolgono  (in  ordine  al  principio  di
ragionevolezza   quale   limite   posto   alla  iiscrezionalita'  del
legislatore  vedi  Corte  costituzionale  sentenza  n. 72 e n. 87 del
1962;  n. del 1965; n. 94 del 1966; n. 103 del 1969; n. 190 del 1971;
n. 9 del 1975).
    Ebbene   nel   caso  in  esame  (anche  a  prescindere  dal  gia'
sottolineato  contrasto  fra  la  inversione  di  rotta  operata  dal
legislatore  e  valori  costituzionali)  proprio  questo principio di
trasparenza viene violato.
      Come  si  e'  visto con l'articolo 9, comma 1, lettera d) della
legge   n. 30/2003   viene   predisposto   uno   strumento  idoneo  a
smantellare,  in  pregiudizio  del  socio  lavoratore,  un  complesso
apparato  protettivo  a  tutela del lavoro subordinato, frutto di una
evoluzione legislativa che ha trovato la sua espressione piu' alta in
norme  della  Costituzione.  Ed a siffatto smantellamento si provvede
non in modo diretto e trasparente, ma in modo obliquo, attraverso una
norma  che  apparentemente  si  occupa  di tutt'altra cosa, si occupa
cioe'  del  rito  da  applicare alle controversie tra soci e societa'
cooperative.
    Attesi  i  motivi  sopra  esposti  si  ravvisa  la  non manifesta
infondatezza   della   questione   di  illegittimita'  costituzionale
dell'articolo  9,  comma  l, lettera d) della legge n. 30/2003, nella
parte  sopra  specificata,  per contrasto con gli articoli 3, 24, 35,
36, della Costituzione,
    Rilevanza della questione.
    La  questione  e'  anche  rilevante nel presente processo perche'
incide sui suoi futuri sviluppi.
    Infatti allo stato, ai sensi dell'articolo 9, comma 1, lettera d)
della   legge   n. 30/2003,   deve   ritenersi  applicabile  il  rito
societario,  sicche' andrebbe disposto il mutamento di rito in ordine
alla presente controversia instaurata avanti al giudice del lavoro, e
da  trattarsi  invece  col  rito  delineato  dal  decreto legislativo
n. 5/2003.  Il mutamento di rito comporterebbe, ai sensi del comma 5,
dell'articolo   1,  del  citato  decreto  legislativo  n. 5/2003,  la
cancellazione  della  causa dal ruolo. L'accoglimento della questione
di illegittimita' costituzionale, come sopra sollevata, consentirebbe
invece  la  prosecuzione  della presente controversia avanti a questo
giudice, e col rito delineato dagli articoli 413 ss c.p.c.,