IL TRIBUNALE

    Nel  procedimento  nei  confronti di: Assisi Massimiliano, nato a
Palermo  il  14  ottobre 1978, elettivamente domiciliato in Roma, via
dei   Ramni   n   24,   c/o   Mordacchini  Sergio,  difeso  d'ufficio
dall'avv. Antonio  Monaco del Foro di Roma; imputato del reato di cui
all'art. 648,  comma  2,  c.p.,  perche',  al  fine  di procurarsi un
profitto  acquistava  o comunque riceveva un telefono cellulare marca
«Alcatel»  mod.  Moby, avente numero seriale 291412208964, denunciato
rubato  da  Scaramuzza  Antonio in data 10 novembre 1997 in Fiumicino
epoca antecedente e prossima al novembre 1997 osserva quanto segue.
    Con decreto di citazione emesso in data 4 gennaio 2005 (a seguito
di  dichiarazione di nullita' di un precedente analogo decreto del 14
ottobre  2003), l'odierno imputato veniva tratto a giudizio avanti al
Tribunale  di  Roma  in composizione monocratica per rispondere dell'
ipotesi attenuata di ricettazione di cui all'art. 648, comma 2, c.p.,
delitto  commesso  in epoca antecedente e prossima al novembre 1997 e
punito  con  la  pena  della reclusione fino a sei anni e della multa
fino a Euro 516,00.
    L'udienza  di  prima  comparizione,  fissata per l'8 aprile 2005,
veniva  differita d'ufficio a causa dei funerali del Santo Padre, per
cui,  fino alla data odierna, non interveniva alcuna dichiarazione di
apertura  del  dibattimento;  conseguentemente, al delitto per cui si
procede, risultano applicabili, ex art. 10, comma 3, legge 5 dicembre
2005  n. 251,  i termini di prescrizione introdotti dall'art. 6 della
legge citata, comunque piu' favorevoli rispetto, a quelli di cui alla
previgente disciplina degli art. 157 n. 3) e 160, comma 3, c.p.
    Se,  poi,  si considera quale pena massima cui far riferimento ai
fini  del  calcolo  dei  termini  di prescrizione quella del delitto,
contestato  dal p.m., di cui all'art. 648, comma 2, c.p., in luogo di
quella   prevista  al  primo  comma  per  la  c.d.  ipotesi  base  di
ricettazione,   il   reato  per  cui  si  procede  risulterebbe  gia'
prescritto per intervenuta prescrizione c.d. prolungata.
    Infatti  per  i  delitti  puniti  con  pena  fino  a  sei anni di
reclusione  l'analogo termine di prescrizione ordinaria, ex art. 161,
comma  2,  c.p.,  puo'  essere  prolungato,  in  caso di imputato non
recidivo  (come  e',  appunto,  l'Assisi), nella misura massima di un
ulteriore quarto e, dunque, di un anno e mezzo.
    Alla data odierna il complessivo termine di anni sette e mesi sei
risulterebbe definitivamente decorso e per accertare e dichiarare, ex
art. 469 c.p.p., la sussistenza della conseguente causa di estinzione
del reato non sarebbe necessario procedere al dibattimento.
    A  siffatto  risultato potrebbe agevolmente pervenirsi laddove si
dovesse  ritenere  che  l'ipotesi  di cui all'art. 648, comma 2, c.p.
preveda   un'autonoma   fattispecie   delittuosa   e  non  un'ipotesi
circostanziata del delitto indicato al comma precedente, conclusione,
invero,  diversa  da quella cui e' sempre giunta la giurisprudenza di
merito  e  di legittimita' in materia che l'ha sempre, correttamente,
considerata quale mera circostanza attenuante del delitto previsto al
primo comma.
    La  conseguenza,  in  termini  di  prescrizione,  a seguito della
recente  novella dell'art. 157, comma 2, c.p., introdotta dall'art. 6
della  legge n. 251/2005 citata, risulta particolarmente rilevante in
quanto,  per  determinare  il tempo necessario a prescrivere, si deve
aver  riguardo  alla  pena  stabilita  per il reato, escluse tutte le
circostanze  ad  eccezione  delle  aggravanti  speciali  o ad effetto
speciale.
    Tale ultima eccezione presenta, a giudizio del tribunale, profili
di  incostituzionalita'  nella parte in cui esclude dal calcolo della
pena  ai  fini  della prescrizione le analoghe circostanze attenuanti
speciali  o  ad effetto speciale, quale deve appunto ritenersi quella
di cui al comma 2 dell'art. 648 c.p.
    La   circostanza  suddetta,  infatti,  ancorche'  stabilisca  una
diminuzione  nel  massimo  (da  otto  a sei anni) inferiore al terzo,
opera  molto  piu'  significativamente  sui  minimi  edittali che, in
concreto, passano da due anni a quindici giorni di reclusione, minimi
di  cui,  indubbiamente,  deve  tenersi  conto  ai  sensi del secondo
capoverso    dell'art. 63    c.p.,   come   agevolmente   si   ricava
dall'interpretazione letterale della medesima disposizione.
    Infatti l'art. 63, comma 3, c.p. qualifica circostanze ad effetto
speciale  «quelle  che  importano  un aumento o una diminuzione della
pena  superiore  ad un terzo», senza distinguere tra massimi e minimi
edittali,  con la conseguenza che entrambi tali limiti vanno valutati
al   fine   di   determinare   la  «specialita»  di  una  determinata
circostanza.
    Ad  uguale  risultato, peraltro, si perviene ricorrendo al canone
ermeneutico   della   interpretazione  storico  -  sistematica  della
medesima disposizione e di quella di cui all'art. 648, comma 2 c.p.
    Invero  la  categoria  delle  circostanze  ad effetto speciale e'
stata  introdotta  dall'art. 5,  legge  31 luglio  1984 n. 400 che ha
sostituito  l'art. 63,  comma  3  c.p.  laddove prevedeva, oltre alle
circostanze  per  cui la legge stabilisce una pena di specie diversa,
quelle  per  le  quali  la  misura  della pena era stabilita «in modo
indipendente   dalla   pena  ordinaria  del  reato»,  come  l'ipotesi
attenuata di ricettazione per cui si procede.
    La  dottrina  prevalente,  correttamente,  sulla base della ratio
della  riforma, ha sempre sostenuto che la categoria introdotta dalla
legge  del  1984  comporta  la  necessita'  di un c.d. ideale calcolo
frazionato  al  fine  di  verificare quando la pena fissata in misura
indipendente  da  quella  ordinaria  sia  superiore o inferiore di un
terzo  rispetto  a  quella  ordinaria, calcolo che, come si e' visto,
conduce,  relativamente  al  minimo  edittale, ad una riduzione della
pena ben superiore al terzo.
    Allo  stesso  modo  deve  concludersi  anche se si ritiene di far
riferimento  alla sola disposizione di cui all'art. 648, comma 2 c.p.
introdotta   nell'ordinamento  dall'art. 15,  legge  22  maggio  1975
n. 152,   provvedimento   legislativo  che,  oltre  ad  inasprire  il
trattamento  sanzionatorio  per  la  c.d.  figura  base,  ha previsto
l'attenuante speciale proprio al fine di consentire, in concreto, una
sensibile  diminuzione della pena, in termini di gran lunga superiori
al  terzo,  per  i  fatti  di  particolare  tenuita',  valutati anche
indipendentemente  dalla sussistenza dell'attenuante ordinaria di cui
all'art. 62,  comma  4  c.p.  che  puo',  addirittura, concorrere con
quella in esame pur essendo, in parte, coincidente.
    In   ogni   caso   nessun  dubbio  ha  mai  avuto  in  merito  la
giurisprudenza  di  legittimita', che, non solo ha sempre formalmente
definito  «speciale» l'attenuante suddetta (cfr., tra le tante, Cass.
pen.,  Sezioni  Unite,  11 ottobre 1989, n. 13330, e Cass. pen., sez.
prima,  7  luglio  1995, n. 7610) ma che, nell'unico caso, in tema di
applicazione  di  amnistia,  in  cui  la  questione  ha avuto fin qui
rilevanza  pratica,  ha  ritenuto  di  doverla  ricomprendere  tra le
circostanze di cui al secondo capoverso dell'art. 63 c.p. (cfr. Cass.
pen.,  sez.  seconda,  12  maggio  1992,  n. 5520  e Cass. pen., sez.
quinta, 15 marzo 1993, n. 2417).
    Appare  dunque  evidente la rilevanza, nel presente procedimento,
della  questione  di  costituzionalita'  cui  si e' fatto cenno e che
riguarda,  appunto,  la  mancata  previsione  da parte dell'art. 157,
comma 2 c.p., come modificato dall'art. 6 della legge 5 dicembre 2005
n. 251,  delle  circostanze attenuanti speciali e ad effetto speciali
quali  elementi  di cui si deve tener conto al fine di determinare il
tempo necessario a prescrivere.
    Siffatta  disposizione,  infatti,  appare violare, a giudizio del
Tribunale,  l'art. 3 Cost., sotto il duplice profilo del principio di
ragionevolezza e di quello di uguaglianza.
    Quanto  al  primo  aspetto  si rileva che la evidente ratio della
disposizione  della  cui  costituzionalita'  si dubita va individuata
nella  necessita'  di  isolare  a  priori,  e  in maniera quanto piu'
oggettiva   possibile,   criteri   che  consentano  di  diversificare
ragionevolmente  i  termini di prescrizione del reato e che l'attuale
legislatore  ha  ritenuto di individuare nella gravita' del reato e -
con un significativo aspetto di novita' riguardo al sistema normativo
precedente - nella pericolosita' sociale dell'imputato.
    Al fine di determinare quest'ultima il legislatore ha reputato di
far  ricorso  alla  recidiva,  elemento  che  -  per quanto in talune
circostanze   risulti   tutt'altro   che   indicativo  di  una  reale
pericolosita'   dell'imputato   (si   pensi   ad   esempio  al  caso,
tutt'affatto     infrequente,    del    cittadino    extracomunitario
pluricondannato per non aver ottemperato all'ordine di espulsione) e,
dunque,  lascia  spazio a profili di incostituzionalita' - quantomeno
appare ancorato al dato oggettivo costituito da precedenti condanne.
    Lo stesso, invece, non puo' dirsi relativamente al criterio della
gravita' del reato, laddove solo apparentemente il legislatore non si
e'  discostato  dalla precedente normativa che individuava l'elemento
obiettivo  di  riferimento  di  siffatto  canone nei massimi edittali
stabiliti per ogni singola fattispecie delittuosa.
    Secondo il previgente sistema la gravita' del reato poteva essere
verificata  in concreto dal giudice (con le necessarie conseguenze in
tema  di  prescrizione)  mediante  l'applicazione delle circostanze e
l'eventuale  giudizio  di  comparazione  delle  stesse, evenienza che
consentiva  di  attenuare  le conseguenze negative cui ogni metodo di
applicazione, automatica delle norme inevitabilmente conduce.
    L'odierna   scelta   legislativa,   escludendo   dal  calcolo  le
circostanze  ordinarie,  ha, praticamente, privato il giudice di ogni
discrezionalita'  nella  quantificazione  della  pena  ai  fini della
prescrizione  e  ha  reso  il  processo  di  determinazione del tempo
necessario  a  prescrivere  quanto  piu' rigido e rigoroso possibile,
introducendo  nell'ordinamento  una  sorta di presunzione iuris et de
iure di gravita' del reato.
    Se tutto cio', pero', puo' essere astrattamente ricondotto ad una
legittima,  per  quanto  da molti ritenuta poco condivisibile, scelta
del  legislatore  che,  con un salto indietro di oltre due secoli, ha
ritenuto  di  dover tornare ai sistemi fissi di calcolo delle pene di
memoria prenapoleonica, appare, a giudizio del tribunale, palesemente
lesiva  del  canone  di  ragionevolezza  la  ulteriore  decisione  di
computare, nella determinazione della pena ai fini prescrittivi, solo
le  circostanze  aggravanti  speciali  o ad effetto speciale e non le
corrispondenti attenuanti.
    La  parziale eccezione contenuta nell'ultima parte dell'art. 157,
comma  3  c.p.p.,  infatti,  si  rivela  irragionevole,  illogica  ed
immotivata  in  quanto  somma  al  criterio,  comunque oggettivo, del
massimo  edittale  di  pena,  un ulteriore elemento di calcolo che si
sostanzia   in   una   incoerente  e  contraddittoria  determinazione
legislativa della gravita' del reato.
    In  altri  termini se il legislatore ha ritenuto, per determinare
la  gravita'  del  reato  cui,  a  sua  volta,  agganciare  i termini
differenziati  di  prescrizione,  di  ricorrere  ai  massimi edittali
escludendo   dal  calcolo  le  circostanze  ordinarie  (attenuanti  o
aggravanti   che   siano)   e   impedendo,   comunque,   qualsivoglia
possibilita'  di  ricorrere al bilanciamento, la successiva scelta di
utilizzare  contra  reum  le  circostanze  aggravanti  speciali  e ad
effetto   speciale  senza  tener  conto  delle  analoghe  circostanze
attenuanti,  non  trova  alcuna valida spiegazione, atteso che queste
ultime  concorrono  a  determinare,  al pari delle prime, la gravita'
dell'illecito penale.
    Delle  due  l'una:  o  il  legislatore,  per determinare il tempo
necessario  a  prescrivere,  ha  inteso  abbandonare  il preesistente
criterio  della  gravita' del reato e, dunque, di tener autonomamente
conto  dei  massimi edittali in se', oppure ha - coerentemente con le
precedenti  scelte  legislative  -  utilizzato siffatti massimi quale
mero  indice  convenzionale  del  citato  canone  che  ha  deciso  di
irrigidire   ulteriormente  escludendo  le  circostanze  ordinarie  e
valorizzando  solo  quelle che incidono piu' significativamente sulla
pena  (e, dunque, sulla stessa determinazione legislativa di gravita'
di un dato fatto di reato).
    Nel primo caso pero' non si spiega il ricorso ad elementi esterni
al reato quali le circostanze sia pur speciali o ad effetto speciale,
mentre  nel  secondo  -  che  e' quello indubbiamente da preferire in
quanto  altrimenti,  a  tacer  d'altro,  rimarrebbe  priva  di valida
giustificazione   la   mantenuta   differenziazione   tra  delitti  e
contravvenzioni  - rimane oscura la ragione per cui si e' ritenuto di
escludere dal novero le attenuanti speciali e ad effetto speciale.
    Se  allora  il  riferimento non puo' che essere alla gravita' del
reato,  non  possono residuare dubbi sul fatto che, una volta operata
la  scelta  di  far  intervenire  nel  calcolo  della  pena  anche le
circostanze    aggravanti    speciali    e   ad   effetto   speciale,
ragionevolmente, debbano essere valutate anche quelle attenuanti che,
al   pari   delle   prime   quantunque  in  senso  opposto,  incidono
astrattamente sulla gravita' dell'evento criminoso.
    Che  questa  sia  la  corretta  chiave di lettura della questione
risulta  chiaramente  dalle  conseguenze in termini di violazione del
principio di uguaglianza cui conduce la nuova disciplina.
    Invero,  non aver operato la coerente e ragionevole scelta logica
di valutare anche le attenuanti speciali o ad effetto speciale, porta
ad ingiustificate disparita' di trattamento laddove, come nel caso di
specie,  il  reato  attenuato  da  circostanze  ad  effetto speciale,
verrebbe  a  prescriversi  in  un  termine  di gran lunga superiore a
quello  stabilito  per  altri  delitti  puniti  con  la medesima pena
stabilita per l'espressa ipotesi delittuosa attenuata.
    Cio', in realta', potrebbe anche rispondere ad una precisa scelta
discrezionale  del  legislatore  che,  per  una  o  piu'  determinate
categorie  di  crimini,  per intuibili ragioni che possono ricercarsi
nella   complessita'   dell'accertamento   processuale,  nell'allarme
sociale  destato  da  determinati  fenomeni  criminali o nel concreto
pregiudizio  arrecato  alle  persone  offese,  decida  di aumentare i
termini  di  prescrizione  come,  per esempio, ha ritenuto fare per i
delitti di cui al novellato art. 157, comma 6 c.p.
    Nel  caso  di  specie,  pero',  trattandosi  di  una disposizione
applicabile  a  tutte  le fattispecie criminose per cui sono previste
circostanze (aggravanti o attenuanti) speciali o ad effetto speciale,
non  puo'  individuarsi  alcuna  delle  ragioni suddette o di altre a
queste  analoghe,  in  quanto  proprio  per  l'effetto generale della
norma,  non  possono venire in considerazione speciali presupposti di
qualsivoglia  natura  a seguito dei quali il legislatore - sempre nei
limiti   del  citato  principio  di  ragionevolezza  e  nel  corretto
bilanciamento di altri interessi e valori costituzionalmente protetti
-  puo'  essersi  determinato  ad introdurre termini diversificati di
prescrizione.
    Conseguentemente  non  possono ritenersi sussistenti apprezzabili
motivi  per  differenziare la posizione di chi debba rispondere di un
delitto  il  cui massimo edittale sia, per restare al caso di specie,
di  sei  anni riguardo a chi sia imputato di altro delitto per cui la
pena   massima   in  concreto  irrogabile  sia  identica,  pur  quale
conseguenza  di  una  circostanza  ad  effetto speciale; e tutto cio'
senza  voler  considerare  la  ancor  piu'  rilevante  disparita'  di
trattamento  che,  in relazione alla gravita' dell'illecito, potrebbe
verificarsi  tra  chi  debba  rispondere  di  un  delitto  variamente
aggravato  da circostanze ordinarie ma punito, nella figura base, con
pena  uguale  a  quella  prevista per un'ipotesi di altra fattispecie
criminosa attenuata da circostanze speciali o ad effetto speciale.
    La  citata  evidente  disparita'  di trattamento, che, come si e'
visto,  trasmoda,  in  concreto,  in  un  regolamento  irrazionale di
identiche situazioni sostanziali, produce un'ulteriore conseguenza in
termini  di ragionevolezza se sol si consideri che, nel caso in esame
(in  mancanza  di  aggravanti  contestate  e,  comunque,  esclusa, ex
art. 157,   comma  3  c.p.,  la  possibilita'  di  operare,  ai  fini
prescrizionali,  il  giudizio  di  bilanciamento  di  cui all'art. 69
c.p.),  l'odierno  imputato  non potrebbe in alcun caso riportare una
pena superiore a sei anni di reclusione, mentre il tempo necessario a
prescrivere andrebbe calcolato su una pena massima diversa (quella di
anni  otto  prevista  al primo comma) e, soprattutto, sostanzialmente
estranea e, comunque, inapplicabile alla fattispecie.
    Siffatti motivi, una volta accertata la rilevanza della questione
nel  presente  procedimento,  conducono a ritenere non manifestamente
infondata    la    questione    di    illegittimita'   costituzionale
dell'art. 157,  comma 2 c.p., per violazione dell'art. 3 Cost., sotto
il  duplice  profilo  del canone di ragionevolezza e del principio di
uguaglianza,  nella  parte in cui non prevede che, per determinare il
tempo  necessario  a  prescrivere  debba tenersi conto, almeno, della
diminuzione  minima  prevista  per  le  circostanze attenuanti per le
quali  la  legge  stabilisce  una  pena  di  specie diversa da quella
ordinaria e per quelle ad effetto speciale.