IL TRIBUNALE

    Nel  procedimento  penale n. 5510/05 RGNR e 200103/05 RG premesso
che in data 11 maggio 2005 alle ore 2,30 John Dolly e Falcones Zavala
Felix  Enrique  venivano  tratti  in  arresto  per  il  reato p. e p.
dell'art. 14,   comma 5-ter   d.lgs.   n. 286/1998   come  modificato
dall'art. 1,  comma 5-bis  decreto legge n. 241/2004 convertito nella
legge  n. 271/2004 perche', senza giustificato motivo si trattenevano
nel  territorio  dello Stato in violazione dell'ordine di lasciare il
territorio  nazionale  entro il termine di giorni 5 impartitogli, per
la prima, del Questore di Venezia l'11 aprile 2005 e, per il secondo,
dal  Questore  di  Venezia  il  13 gennaio  2005  emessi ai sensi del
comma 5-bis  del  suddetto  articolo di legge e notificatogli in pari
data;
        che  in  data  12 maggio  2005  le suddette persone arrestate
venivano  presentate  davanti a questo giudice per la convalida ed il
contestuale  giudizio  direttissimo  a  norma  dell'art. 14,  comma 5
d.lgs. n. 286/1998;
        che  successivamente  all'interrogatorio  degli  arrestati il
p.m.  ha richiesto la convalida dell'arresto chiedendo l'applicazione
della misura cautelare in carcere;
        che  l'arresto,  ricorrendone  le condizioni di legge, veniva
convalidato  senza applicazione della misura cautelare della custodia
in carcere;
        che  nel corso del successivo giudizio la difesa sollevata la
questione  di  legittimita' costituzionale della norma incriminatrice
della  condotta  ascritta all'imputato per violazione degli artt. 3 e
37 della Carta costituzionale.

                            O s s e r v a

    1.  -  Il testo originario dell'art. 14, comma 5-quinquies d.lgs.
n. 286/1998 non prevedeva alcuna sanziona penale per lo straniero che
non  avesse  ottemperato all'ordine emesso dal questore in esecuzione
del decreto di espulsione del prefetto.
    2.  -  La  fattispecie penale di cui trattasi e' stata introdotta
dalla  legge  n. 189/2002,  come reato contravvenzionale punibile con
l'arresto da sei mesi ad un anno, prevedendo per tale reato l'arresto
obbligatorio.
    3.  -  Con  la  sentenza  n. 223/2004  la Corte costituzionale ha
dichiarato      l'illegittimita'     costituzionale     dell'art. 14,
comma 5-quinquies   per   contrasto   con  gli  artt. 3  e  13  della
costituzione  nella parte in cui stabilisce che per il reato previsto
dal  comma 5-ter  del  medesimo  articolo  e'  obbligatorio l'arresto
dell'autore  del  fatto,  per  la  manifesta  irragionevolezza  della
previsione  di  misura  precautelare  non suscettibile di sfociare in
alcuna misura cautelare in base al vigente ordinamento processuale.
    4. - Interveniva, quindi, il d.l. n. 241/2004, che non modificava
per la fattispecie in esame la pena prevista dalla legge n. 189/2002,
ma  riformulava  il  testo  dell'art. 14, comma 5-quinquies limitando
l'arresto   obbligatorio   all'ipotesi   di   cui  al  comma 5-quater
(reingresso nel territorio dello Stato dello straniero espulso), gia'
prevista  come  delitto  punibile  con la reclusione da uno a quattro
anni.
    5.  -  In  sede  di  conversione  del d.l. citato il reato di cui
all'art. 14, comma 5-ter veniva previsto come delitto punibile con la
reclusione  da  uno  a  quattro  anni  (ad  eccezione dell'ipotesi di
espulsione  motivata  dall'essere  scaduto  il permesso di soggiorno,
ipotesi  per  la  quale  veniva mantenuta la pena dell'arresto da sei
mesi   ad   un   anno)   e   veniva  nuovamente  stabilito  l'arresto
obbligatorio.
    Cio' detto, va osservato che nel corso di un breve lasso di tempo
e'   intervenuto   un   notevole   inasprimento  della  pena,  previa
riqualificazione   della  ipotesi  delittuosa  da  contravvenzione  a
delitto,  della  cui  proporzionalita'  e  ragionevolezza  si  dubita
concretamente.
    Sul   punto,   infatti,   deve   essere  richiamato  il  criterio
costantemente adottato dalla Corte delle leggi, che, pur riservando -
come  evidente  -  alla  «discrezionalita'  del legislatore stabilire
quali  comportamenti debbano essere puniti, determinare quali debbano
essere  la  qualita'  e  la misura della pena ed apprezzare parita' e
disparita'  di  situazioni»,  ha  affermato  che «l'esercizio di tale
discrezionalita'  puo'  essere  censurato quando esso non rispetti il
limite  della  ragionevolezza e dia quindi luogo ad una disparita' di
trattamento palese ed ingiustificata» (cfr. sentt. 25/1994 - 333/1992
-  84/1997).  Ancora, e' stato chiarito (cfr. sent. n. 409/1989) «che
il  principio  di  eguaglianza,  di  cui all'articolo 3, primo comma,
Costituzione  esige  che  la  pena sia proporzionata al disvalore del
fatto illecito commesso, in modo che il sistema sanzionatorio adempia
nel  contempo  alla  funzione di difesa sociale ed a quella di tutela
delle  posizioni  individuali».  Tale funzione non verrebbe adempiuta
qualora non venisse rispettato il limite della ragionevolezza. A cio'
si   aggiunge   (cfr.   sent.  sopra  citata)  che  il  principio  di
proporzionalita'  porta  a  negare  legittimita' alle «incriminazioni
che, anche se presumibilmente idonee a raggiungere finalita' statuali
di  prevenzione,  producono,  attraverso la pena, danni all'individuo
(ai  suo  diritti  fondamentali) ed alla societa' sproporzionatamente
maggiori dei vantaggi ottenuti (o da ottenere) da quest'ultima con la
tutela  dei  beni e dei valori offesi dalle predette incriminazioni».
Questo principio e' ora recepito anche dalla Costituzione europea che
all'art. 2-109  prevede  che  «le  pene  inflitte  non  devono essere
sproporzionate rispetto al reato».
    Inoltre, per inciso, la Corte delle leggi ha piu' volte affermato
che  la  manifesta  mancanza  di proporzionalita' rispetto ai fatti -
reato  vanifica  il fine rieducativo della pena sancito dall'art. 27,
comma 3,   della   Carta   costituzionale   (cfr.  sentt. 313/1995  e
343/1993).
    E'  vero che con l'ordinanza n. 368/1995 la Corte costituzionale,
su un'eccezione concernente l'elevazione nel 1991 del minimo edittale
per  il reato di cui all'art. 629, ritenne rispettato il limite della
ragionevolezza  ritenendo  che  l'inasprimento  conseguente  non dava
luogo   «a   macroscopiche   differenze   rispetto   al   trattamento
sanzionatorio  previsto per il reato di rapina - fattispecie peraltro
no del tutto assimilabile a quella della estorsione», ma la questione
oggi in discussione e' del tutto diversa, per due ordini di ragioni.
    In  primo  luogo,  l'inasprimento  e', in questo caso, certamente
macroscopico:  non solo la fattispecie criminosa e' stata trasformata
da contravvenzione a delitto, ma il massimo della pena edittale della
pena   detentiva   in   precedenza  prevista  per  lo  stesso  fatto,
corrisponde oggi al minimo edittale previsto per il delitto mentre il
massimo  della  pena edittale previsto per il delitto oggi contestato
corrisponde  a quattro volte il massimo della penna edittale previsto
dalla contravvenzione abrogata.
    In secondo luogo, l'aumento di pena per il delitto di estorsione,
come  fa  intendere  la  Corte  con  il  riferimento  alla «difficile
individuazione    in    concreto   dell'aggravante   di   far   parte
dell'associazione  di  tipo  mafioso»,  costituiva  la risposta dello
Stato al fenomeno del c.d. «pizzo» emerso con particolare gravita' in
alcune  regioni nel corso degli anni ottanta e, quindi, molto lontano
nel  tempo  rispetto alle statuizioni sanzionatorie relative ai reati
di rapina ed estorsione.
    Cio'  detto,  un  simile  ragionamento  non puo' essere fatto per
l'inasprimento  di pena per lo straniero che non ottempera all'ordine
del questore.
    Ed  invero, si osservi: nei soli due anni che intercorrono tra la
legge  n. 189  e  la  legge  n. 271,  il  fenomeno  dell'immigrazione
clandestina   non  ha  subito  variazioni  tali  da  giustificare  la
conversione   del   delitto   dell'inottemperanza   dello   straniero
all'ordine di allontanamento del questore e l'elevazione macroscopica
di  pena  introdotta  in  sede  di  conversione  in  legge  del  d.l.
n. 241/2002.
    Cio'  e  reso  ancor  piu'  manifesto, se possibile, dalla stessa
relazione  di  accompagnamento  del predetto d.l. n. 241/2002, atteso
che   i  relatori  fanno  riferimento  soltanto  alla  necessita'  di
adeguarsi  alla  sentenza n. 223/2004 della Corte costituzionale, con
riferimento al citato inasprimento della pena previa riqualificazione
della   fattispecie  criminosa  come  delitto,  cosi'  da  consentire
l'arresto  obbligatorio per coloro che non ottemperino all'ordine del
questore,  senza  cenno  alcuno a nuove situazioni o esigenze di tipo
sociale o attinenti all'ordine o alla sicurezza pubblica.
    E' evidente che la trasposizione di un'esigenza di tipo meramente
processuale  nel  diritto  penale  sostanziale  non puo' integrare il
criterio  della ragionevolezza e si pone in contrasto con gli artt. 3
e 27 comma 3 della Costituzione.
    Ancora,  per  valutare se l'inasprimento di pena introdotto dalla
legge  n. 271/2004 sia compatibile con l'art. 3 della Costituzione si
deve  fare  riferimento  a  norme  incriminatici poste a tutela degli
stessi  interessi (individuati nell'ordine pubblico e nella sicurezza
pubblica), con previsione di analoghe modalita' di condotta.
    A tal fine deve esser preso in considerazione l'art. 650 c.p. che
punisce  con  l'arresto  fino  a  tre  mesi  o  con  la  sola ammenda
l'inottemperanza  ad  un provvedimento legalmente dato dall'autorita'
per ragioni di sicurezza pubblica o d'ordine pubblico.
    Ancora,  sempre  a  tutela dell'ordine pubblico e della sicurezza
pubblica  e'  ispirata  la  fattispecie di cui all'art. 2 della legge
n. 1423/1956.  Anche  qui  vi  e'  un  ordine della medesima pubblica
autorita',  il Questore, concernente persone ritenute «pericolose per
la  sicurezza  pubblica»  e, anche qui, l'inottemperanza configura un
reato  contravvenzionale, per il quale e' previsto l'arresto da uno a
sei mesi.
    Da  quanto sopra ne discende che coerentemente il legislatore del
2002,  consapevole  delle  sanzioni  comminate  per  la violazione di
fattispecie  delittuose analoghe e similari, aveva previsto l'ipotesi
criminosa    di    cui    all'art. 14,    comma 5-ter,   come   reato
contravvenzionale,   potendosi  la  maggiore  pena  prevista  per  il
contravventore,  rispetto  alle situazioni similari poco sopra viste,
trovare   effettivamente  giustificazione  nella  nuova  esigenza  di
contrastare  il  fenomeno,  complesso, dell'immigrazione clandestina,
del  tutto  sconosciuto all'epoca della redazione del codice penale e
della legge n. 1423/1956.
    Sussiste, pertanto, una rilevante e non giustificata sproporzione
tra  la  pena  ora  prevista  per la stessa ipotesi, configurata come
delitto,  e  le sanzioni penali dettate per le contravvenzioni di cui
agli artt. 650 c.p. e 2, legge n. 1423/1956.
    L'irragionevolezza  sussiste,  quindi,  sotto un duplice profilo,
ovvero sia con riferimento alla pena che il legislatore solo due anni
prima  aveva ritenuto congrua per l'ipotesi in esame, senza l'essersi
manifestate  medio  tempore  nuove  e  diverse piu' gravi esigenze di
ordine  pubblico  e  di  sicurezza pubblica, sia con riferimento alle
pene previste per analoghe fattispecie.