ha pronunciato la seguente

                              Sentenza

nel   giudizio   di   legittimita'  costituzionale  dell'articolo 45,
comma 1,  del  codice di procedura penale, promosso con ordinanza del
16  giugno 2004  dalla  Corte  di cassazione sull'istanza proposta da
B.F.,  iscritta  al  n. 828  del registro ordinanze 2004 e pubblicata
nella  Gazzetta  Ufficiale della Repubblica n. 43, 1ª serie speciale,
dell'anno 2004.
    Visto  l'atto  di  intervento  del  Presidente  del Consiglio dei
ministri;
    Udito  nella  camera  di  consiglio  del 22 marzo 2006 il giudice
relatore Giovanni Maria Flick.

                          Ritenuto in fatto

    1. - Con l'ordinanza indicata in epigrafe la Corte di cassazione,
Sezione  I  penale,  ha  sollevato,  in riferimento agli artt. 3, 24,
secondo comma, e 111, secondo comma, della Costituzione, questione di
legittimita'  costituzionale  dell'art. 45,  comma 1,  del  codice di
procedura  penale, nella parte in cui non prevede la parte civile tra
i  soggetti  legittimati  a presentare la richiesta di rimessione del
processo.
    La  Corte  rimettente  sottolinea  che  la  parte  civile,  in un
processo  pendente  davanti  alla  Corte  di  assise  di Trani, ne ha
chiesto  la rimessione, «prospettando come pregiudizievole per il suo
corretto svolgimento e per la libera determinazione delle persone che
vi   partecipano   la  grave  situazione  locale  venutasi  a  creare
nell'ambiente   giudiziario  per  effetto  di  taluni  comportamenti,
asseritamente  illeciti, tenuti da componenti delle forze dell'ordine
e da magistrati dell'ufficio del pubblico ministero nella trattazione
della vicenda criminosa, ed evidenziando altresi' motivi di legittimo
sospetto    circa   l'effettiva   imparzialita'   del   giudice,   in
considerazione  della  campagna  di  stampa  aspramente  avversa alle
posizioni  dell'accusa  e  della  parte  civile e degli atteggiamenti
manifestati  dal  presidente  della  corte di assise nella conduzione
dell'istruttoria    dibattimentale    e   in   alcuni   provvedimenti
endoprocessuali».  La  Corte  di cassazione rileva, poi, come rivesta
indubbia  e  pregiudiziale  rilevanza  la  delibazione  relativa alla
legittimazione  della  parte  civile  a  presentare  la  richiesta di
rimessione:  delibazione che conduce a risposta negativa, considerato
che  la  lettera  dell'art. 45  del codice di rito, i relativi lavori
preparatori  e  la stessa rigorosa giurisprudenza, formatasi sotto la
vigenza  del codice abrogato, indubbiamente escludono la parte civile
dal  novero  dei  soggetti  legittimati  a  formulare la richiesta di
rimessione del processo.
    Il  giudice  a quo segnala come siano previsti nel codice di rito
casi, gia' positivamente scrutinati da questa Corte, in cui risultano
limitati  i  diritti  della  parte  civile;  ma  quelle limitazioni e
preclusioni   rinvengono   giustificazioni  che  non  possono  valere
rispetto  alle garanzie di imparzialita' e indipendenza del giudice e
del  correlativo  diritto  di difesa, che stanno a base dell'istituto
della rimessione e che legittimano la deroga al principio del giudice
naturale,   precostituito  per  legge.  A  fronte  del  valore  della
imparzialita' del giudice - centrale nel quadro dei valori insiti nel
principio  del  giusto processo, ed affermato sia dalla Costituzione,
sia  dalla  Convenzione  europea dei diritti dell'uomo, sia dal Patto
internazionale  sui  diritti  civili  e politici: principio che a sua
volta  postula  condizioni di parita' dialettica tra tutte le parti -
il  diverso  trattamento  riservato  alla  parte  civile, quanto alla
legittimazione   a   richiedere   la  rimessione  del  processo,  non
risulterebbe  in  linea  con  il  dettato  costituzionale.  Il tutto,
d'altra parte, in sintonia con «le ripetute ed unanimi argomentazioni
della  dottrina,  fortemente  critica  verso  l'irrazionalita'  della
limitazione  codicistica, nonche' le rinnovate prospettive di lettura
logico-sistematica  dell'istituto e degli interessi ritenuti con esso
meritevoli   di   protezione  alla  luce  dei  principi  del  "giusto
processo"».
    2.  - Nel giudizio e' intervenuto il Presidente del Consiglio dei
ministri,  rappresentato  e  difeso  dalla  Avvocatura generale dello
Stato,  chiedendo  che  la  questione  sia  dichiarata  irrilevante e
comunque   infondata.   L'Avvocatura   si   e'   limitata  a  dedurre
l'irrilevanza   della   questione   «alla   luce   del   tradizionale
insegnamento,  secondo il quale la parte civile, in quanto eventuale,
non   puo'   richiedere   la   modificazione   del  giudice  naturale
precostituito per legge».
    Con  successiva  memoria,  la  stessa  Avvocatura ha sostenuto la
infondatezza della questione, osservando che il danneggiato dal reato
ha  libera scelta tra la volontaria partecipazione al processo penale
ed  il  promovimento  della  azione  risarcitoria  davanti al giudice
civile,  senza  che - in questa seconda ipotesi - il giudicato penale
di  assoluzione  possa  in  alcun  modo incidere sul giudizio civile.
Sarebbe, quindi, del tutto razionale e coerente con il sistema che il
fondamentale  principio  sancito  dall'art. 25,  primo  comma,  della
Costituzione,  «non  possa  essere  derogato dietro iniziativa di una
parte processuale diversa dalle parti necessarie».

                       Considerato in diritto

    1.   -   La   Corte   di  cassazione  dubita  della  legittimita'
costituzionale dell'art. 45, comma 1, del codice di procedura penale,
in  quanto  tale  norma  non  prevede  la parte civile tra i soggetti
legittimati  a  presentare  la  richiesta di rimessione del processo.
Secondo la Corte di legittimita', una simile omissione si porrebbe in
contrasto  con  gli artt. 3, 24, secondo comma, e 111, secondo comma,
della   Costituzione,   in   quanto,   a   fronte  del  valore  della
imparzialita'  del  giudice - il quale occupa un posto centrale tra i
principi  del  «giusto  processo»  e,  quindi,  postula condizioni di
parita'   dialettica   tra  tutte  le  parti  -  non  puo'  ritenersi
ragionevole ne' costituzionalmente compatibile il diverso trattamento
che  la  disposizione  censurata  riserva alla parte civile, rispetto
all'imputato  ed  al  pubblico ministero, in tema di legittimazione a
richiedere la rimessione del processo.
    2. - La questione non e' fondata.
    Va  anzitutto  rammentato  come  soltanto nel codice di procedura
penale  del  1865  venne  prevista  la possibilita' che la domanda di
rimessione  del  procedimento per legittimo sospetto fosse formulata,
oltre  che  dall'imputato  o dall'accusato, anche dalla parte civile.
Gia'  nel  codice  del  1913, infatti, tale scelta fu abbandonata: la
Relazione   al   Re   del   Guardasigilli   dell'epoca   sottolineava
esplicitamente  che  «l'attivita'  e  prudenza  dello stesso pubblico
ministero,   che   puo'   essere  sempre  eccitata  dalle  parti,  e'
sufficiente guarentigia per chi, come il civilmente responsabile e la
parte  civile,  non  abbia  nel  procedimento che interessi meramente
civili».
    Tale  scelta  venne  confermata  anche nel codice del 1930. Nella
Relazione  al  Progetto  preliminare,  il  Guardasigilli  ribadi' che
l'istanza  di  riesame  era  «facolta'  negata a tutte le altre parti
private,    i   cui   interessi   sono   sufficientemente   garantiti
dall'istituto  della  ricusazione  del giudice, anche quando non sono
libere di adire invece il giudice civile».
    Dunque, anche quando l'azione civile era preclusa in sede propria
(nel  sistema  del  codice  abrogato,  infatti, il processo civile si
sospendeva  in  attesa della definizione della azione penale, secondo
la  logica  del  primato  del  giudizio penale e della unicita' della
giurisdizione),  la  parte  civile  costituita  nel  processo penale,
stante  la  sua accessorieta', non poteva che far leva sugli istituti
della  astensione o della ricusazione, in ipotesi di iudex suspectus;
o  richiedere  al  pubblico  ministero  di valutare l'opportunita' di
sollecitare  la  rimessione  del  processo,  in ipotesi di condizioni
ambientali avverse.
    L'esclusione  della  parte  civile  dal  novero dei legittimati a
richiedere  la  rimessione  del  processo e' rimasta una costante nel
panorama  normativo  successivo,  sia  con  la direttiva n. 15) della
legge-delega  3 aprile  1974,  n. 108,  sulla  cui base fu redatto il
Progetto  preliminare  del nuovo codice di procedura penale del 1978,
sia con la nuova legge-delega 16 febbraio 1987, n. 81, in forza della
quale venne poi approvato il codice di rito vigente.
    Soltanto nel corso dei lavori preparatori del nuovo codice - come
si rammenta nell'ordinanza della Corte di cassazione - la Commissione
redigente   ebbe   a   rilevare   «l'opportunita'   di  estendere  la
legittimazione  a  richiedere  la  rimessione,  oltre che al pubblico
ministero  e  all'imputato,  anche  alle  altre  parti private». Tale
estensione   fu,   peraltro,  reputata  impraticabile  da  parte  del
legislatore  delegato, proprio perche' - puntualizzo' la Relazione al
Progetto  preliminare  -  in  contrasto  con il tenore testuale della
direttiva  n. 17)  della legge di delega, avuto riguardo, anche, alla
disciplina dettata in proposito dall'art. 55 del codice del 1930.
    Anche  nell'ultimo  intervento legislativo in tema di rimessione,
mediante  la  legge  7 novembre  2002,  n. 248  -  pur introducendosi
incisive  innovazioni  rispetto  alla  disciplina codicistica - si e'
mantenuta inalterata la platea dei soggetti abilitati a richiedere lo
spostamento  del  processo.  L'unica  innovazione  proposta  - ma non
accolta   -   in  quest'ambito,  ha  riguardato  la  possibilita'  di
introdurre  una sorta di contraddittorio anticipato sulla rimessione,
fra tutti i soggetti presenti nel processo.
    3.  -  La  scelta  del legislatore e', quindi, da circa un secolo
costante  nel limitare alle sole parti necessarie del processo penale
il  diritto  a  richiederne  la  rimessione;  e  questa  opzione deve
ritenersi  in  linea  non soltanto con i valori costituzionali che si
pretendono   compromessi,   ma  anche  con  lo  stesso  principio  di
ragionevolezza cui deve comunque essere informata la discrezionalita'
normativa.
    Infatti   questa  Corte  ha  avuto  modo  in  piu'  occasioni  di
sottolineare   la   peculiarita'   e   gravita'  delle  esigenze  che
l'ordinamento  del  processo  penale  intende soddisfare e bilanciare
attraverso  la  rimessione:  da  un  lato,  il divieto di distogliere
chiunque  dal  giudice  naturale precostituito per legge; dall'altro,
valori  anch'essi  costituzionalmente rilevanti, quali l'indipendenza
e,  quindi,  la  imparzialita' dell'organo giudicante e la tutela del
diritto  di  difesa (v. sentenze n. 50 del 1963 e n. 82 del 1971). Da
qui  il  richiamo,  costante nella giurisprudenza di legittimita', al
carattere del tutto eccezionale che contraddistingue l'istituto ed al
conseguente  rigore  cui deve essere informata la interpretazione dei
presupposti  sulla  cui  base  puo'  essere  statuita  la  translatio
iudicii.
    Siffatto  eccezionale  presidio  -  a garanzia della serenita' ed
imparzialita' del giudizio e, quindi, in ultima analisi, dello stesso
valore  del  «giusto processo» - e', da sempre, previsto soltanto per
il  processo  penale,  giacche' a garantire le parti dai rischi della
non  imparzialita'  e  terzieta'  del giudice soccorrono, nelle altre
sedi  giurisdizionali,  i  diversi  istituti della astensione e della
ricusazione.    Questa   indubbia   peculiarita'   si   fonda   sulla
constatazione  che  soltanto  il  processo penale e', per sua natura,
idoneo  a  suscitare gravi emozioni e perturbamenti, specie nel luogo
in cui esso si celebra.
    Tali turbamenti - sia che rilevino sul piano dell'ordine pubblico
processuale, sia che attengano al diverso profilo della serenita' del
giudizio  -  sono  comunque riconducibili all'intervento di «elementi
esterni».  Questi  ultimi  -  come  ha  piu'  volte  sottolineato  la
giurisprudenza  di  legittimita' - piu' che incidere direttamente sul
valore  della  imparzialita'  e terzieta' del giudice investito della
cognizione  della  regiudicanda (il «sospetto» di condizionamento non
riguarda,   infatti,   il   singolo   giudice,  ma  l'intero  ufficio
giudiziario),  finiscono  per  coinvolgere  la stessa possibilita' di
celebrare un «giusto processo».
    Le  gravi  situazioni  locali  che  turbano  lo  svolgimento  del
processo,  di  cui  e'  menzione  nell'art. 45  cod.  proc. pen., non
possono,  pertanto,  che  fondarsi  e riflettersi su quello che e' il
naturale  oggetto  del  processo  penale:  vale a dire, una specifica
accusa  mossa  nei  confronti  di un determinato imputato; quindi, un
contesto  ambientale  che  genera  una  turbativa  a  favore o contro
l'accusa o, reciprocamente, a favore o contro l'imputato.
    Gia'  in  questa prospettiva, dunque, l'istituto della rimessione
si   rivela   concettualmente   eccentrico  rispetto  alla  ipotetica
attribuzione  di  un  potere di iniziativa in capo a chi, pur potendo
agire  in  sede  propria  (ove l'istituto stesso non e' previsto), ha
scelto  di attivare la domanda civile nel processo penale, del quale,
pertanto, deve accettare regole e peculiarita'.
    La   evocata   parita'   delle   parti   -   sulla  quale  si  e'
particolarmente  concentrata  l'ordinanza di rimessione - finisce per
risultare,  in  tale  prospettiva, fuorviante; giacche' su di essa si
intenderebbe  far  leva per omologare fra loro situazioni processuali
del  tutto  eterogenee,  quali  sono  quelle  che, agli effetti della
rimessione, caratterizzano gli «interessi» ed il coinvolgimento delle
parti  necessarie  del  processo, rispetto alla tutela risarcitoria o
restitutoria che l'ordinamento assicura alla parte civile.
    D'altro canto, proprio in materia di azione civile esercitata nel
processo  penale,  la  giurisprudenza  di  questa  Corte  ha  in piu'
occasioni  affermato il principio per il quale l'assetto generale del
nuovo  processo  penale  e'  ispirato  all'idea della separazione dei
giudizi,  penale  e  civile:  e'  prevalente, nel disegno del codice,
l'esigenza  di  speditezza  e  di  sollecita definizione del processo
penale,  rispetto  all'interesse del soggetto danneggiato di esperire
la  propria  azione  nel processo medesimo. Questa Corte, inoltre, ha
piu'  volte rilevato che l'eventuale impossibilita' di partecipare al
processo  penale, per il danneggiato, non incide in modo apprezzabile
sul  suo  diritto di difesa e, prima ancora, sul suo diritto di agire
in  giudizio,  poiche'  resta  intatta  la possibilita' di esercitare
l'azione  di risarcimento del danno nella sede civile; e ne ha tratto
la  conclusione  che  ogni separazione dell'azione civile dall'ambito
del processo penale non puo' essere considerata una menomazione o una
esclusione del diritto alla tutela giurisdizionale, perche' la scelta
della configurazione di quest'ultima, in vista delle esigenze proprie
del  processo  penale,  e'  affidata al legislatore (v., ex plurimis,
sentenza  n. 98  del  1996  e ordinanza n. 124 del 1999, nonche', sul
favor  separationis tra azione civile e azione penale, sentenza n. 75
del 2001).
    Dunque,  v'e'  quanto  basta  per concludere che imputato e parte
civile  esprimono - al lume della giurisprudenza costituzionale - due
entita'  soggettive  fortemente diversificate: non soltanto sul piano
del   differente  risalto  degli  interessi  coinvolti;  quanto  -  e
soprattutto  -  per  l'impossibilita' di configurare in capo ad essi,
nello  specifico  contesto  del  processo penale, un paradigma di par
condicio  valido,  sempre  e  comunque,  come  regola generale su cui
conformare i relativi diritti e poteri processuali.
    Questa  Corte,  d'altra  parte,  ha  costantemente  avuto modo di
affermare che le differenze di «trattamento processuale» tra le parti
sono   legittime,  sempre  che  abbiano  una  loro  ragionevole  base
all'interno  del  sistema  processuale.  Se  cio'  vale  per le parti
«necessarie»  del  processo,  a  fortiori  e'  possibile tracciare un
ragionevole  discrimen  in  riferimento  alle parti eventuali: specie
nelle  ipotesi in cui - come nel caso della parte civile nel processo
penale  -  sia  assicurato  un  diretto ed incondizionato ristoro dei
propri  diritti  attraverso  l'azione  sempre  esercitabile  in  sede
propria.
    4.   -  Per  altro  verso,  le  peculiarita'  che  caratterizzano
l'istituto  della  rimessione,  traggono  a loro volta alimento dallo
specifico  (e  anch'esso  peculiare)  risalto  assegnato dalla stessa
Carta  costituzionale  al  processo penale ed ai valori, molteplici e
tutti  di rango primario, in esso coinvolti. Se, infatti, le esigenze
di   serenita'   ed   imparzialita'  -  che  devono  accompagnare  la
celebrazione  del  processo «turbato» dalle gravi situazioni locali -
ben  possono giustificarne lo «spostamento» dalla sede «fisiologica»,
un  siffatto  epilogo  deve  confrontarsi  con la garanzia apprestata
dall'art. 25,  primo  comma,  della  Costituzione  e,  prima  ancora,
dall'art. 71  dello  Statuto albertino: parametri, questi, non a caso
insistentemente  evocati  dalle  relazioni  che hanno accompagnato le
varie codificazioni post-unitarie in tema di rimessione.
    Proprio  su  questo delicato crinale si misura, ancora una volta,
la  specificita'  del  giudizio  penale  rispetto  a  tutti gli altri
giudizi.  E'  ben  vero,  infatti  - come la giurisprudenza di questa
Corte  ha  in piu' occasioni sottolineato - che la locuzione «giudice
naturale»  «non  ha  nell'art. 25  [Cost.]  un  significato proprio e
distinto,  e  deriva  per  forza  di  tradizione da norme analoghe di
precedenti  Costituzioni, nulla in realta' aggiungendo al concetto di
«giudice  precostituito  per  legge»» (v., ad es., sentenza n. 88 del
1962  e  ordinanza  n. 100  del  1984);  ma  deve riconoscersi che il
predicato  della «naturalita» assume nel processo penale un carattere
del  tutto particolare, in ragione della «fisiologica» allocazione di
quel   processo   nel  locus  commissi  delicti.  Qualsiasi  istituto
processuale,  quindi, che producesse - come la rimessione - l'effetto
di  «distrarre»  il processo dalla sua sede, inciderebbe su un valore
di  elevato  e  specifico risalto per il processo penale; giacche' la
celebrazione  di  quel processo in «quel» luogo, risponde ad esigenze
di  indubbio  rilievo,  fra le quali, non ultima, va annoverata anche
quella  -  piu'  che  tradizionale  -  per  la  quale il diritto e la
giustizia  devono  riaffermarsi  proprio  nel luogo in cui sono stati
violati.
    Perche'  l'imputato  possa  ragionevolmente subire lo spostamento
del  processo  dal  suo  «giudice  naturale»,  deve  essere  il «suo»
processo  (vale  a  dire  quello  penale)  ad essere turbato da gravi
situazioni   locali.  Quindi,  solo  i  protagonisti  necessari  sono
logicamente   abilitati   ad  attivare  il  relativo  ed  eccezionale
meccanismo  di  scrutinio, e non altri, che possono assumere soltanto
la veste di cointeressati o controinteressati rispetto alle posizioni
assunte dall'imputato e dal pubblico ministero.
    D'altra  parte, ove cosi' non fosse, l'imputato convenuto in sede
propria  avrebbe la garanzia del suo giudice civile «naturale», senza
possibilita'  per  l'attore (parte offesa o danneggiato dal reato) di
far  «rimuovere»  la  causa da quella sede giudiziaria; invece, nella
ipotesi,  in  cui  l'imputato  assuma la veste di «convenuto» in sede
penale,  a  seguito della costituzione di parte civile della medesima
parte  offesa,  esso  potrebbe  subire  la rimessione del processo su
domanda  della stessa parte. Una disparita' in peius, fatta dipendere
dalla  scelta unilaterale del danneggiato, il quale - giova ripeterlo
-  ben  puo'  tenersi indenne rispetto alla gravita' della situazione
locale, sviluppando la propria azione in sede civile.
    Ne  deriva,  quale corollario conclusivo, che, nella ponderazione
dei  valori  coinvolti,  la  scelta  del  legislatore  di  consentire
soltanto  all'imputato  ed  al  pubblico  ministero  di  formulare la
richiesta  di  rimessione  del  processo,  non  puo' ritenersi scelta
discriminatoria.