ha pronunciato la seguente

                              Ordinanza

nel  giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 7, lettera f),
del  decreto  legislativo 31 dicembre 1992, n. 545 (Ordinamento degli
organi  speciali  di giurisdizione tributaria ed organizzazione degli
uffici  di  collaborazione  in  attuazione  della  delega  al Governo
contenuta   nell'art. 30   della  legge  30 dicembre  1991,  n. 413),
promosso   con   ordinanza   del   15   giugno 2005   dal   Tribunale
amministrativo  regionale  della  Liguria,  sul  ricorso  proposto da
Eugenio  Marcenaro  contro il Ministero dell'economia e delle finanze
ed altri, iscritta al n. 582 del registro ordinanze 2005 e pubblicata
nella  Gazzetta  Ufficiale della Repubblica n. 51, 1ª serie speciale,
dell'anno 2005.
    Visto  l'atto  di  intervento  del  Presidente  del Consiglio dei
ministri;
    Udito  nella  Camera  di  consiglio  del 5 aprile 2006 il giudice
relatore Franco Gallo.
    Ritenuto  che,  con  ordinanza  depositata  il 15 giugno 2005, il
Tribunale amministrativo regionale della Liguria - in un procedimento
promosso da un componente della Commissione tributaria provinciale di
Genova  nei  confronti  del  Ministero dell'economia e delle finanze,
della  Presidenza  del  Consiglio  dei  ministri,  del  Consiglio  di
presidenza  della  giustizia tributaria, della Commissione tributaria
provinciale di Genova - ha sollevato, in riferimento agli articoli 3,
97   e   108,   secondo   comma,  della  Costituzione,  questioni  di
legittimita'  costituzionale  dell'art. 7,  lettera f),  del  decreto
legislativo   31 dicembre  1992,  n. 545  (Ordinamento  degli  organi
speciali  di  giurisdizione tributaria ed organizzazione degli uffici
di  collaborazione  in  attuazione  della delega al Governo contenuta
nell'art. 30  della  legge  30 dicembre 1991, n. 413), nella parte in
cui  non prevede, per il giudice tributario, alcuna deroga al vincolo
della  residenza  nella  regione  nella  quale ha sede la commissione
tributaria presso cui presta servizio;
        che il giudice a quo riferisce che il ricorrente ha impugnato
il  diniego  opposto  dal  Consiglio  di  presidenza  della giustizia
tributaria  sull'istanza  intesa  ad ottenere, in deroga al censurato
art. 7,   lettera f),   del  decreto  legislativo  n. 545  del  1992,
l'autorizzazione  a  mantenere  la  residenza  anagrafica  in regione
diversa da quella in cui si trova la predetta Commissione tributaria;
        che,  in  punto  di  rilevanza  delle sollevate questioni, il
rimettente  premette di essere investito del giudizio cautelare sulla
sospensione dell'efficacia del provvedimento impugnato ed afferma che
l'esito  di  tale  giudizio dipende dalla risoluzione delle questioni
stesse;
        che,  in  punto  di non manifesta infondatezza, il rimettente
osserva  preliminarmente  che  la  mancata previsione, da parte della
norma  denunciata, di una deroga al predetto «vincolo della residenza
anagrafica»  comporta  un «vuoto normativo» che non sarebbe colmabile
attraverso l'interpretazione analogica;
        che il rimettente formula tre questioni di costituzionalita',
che  sarebbero  relative,  le prime due, all'interesse pubblico «alla
migliore   funzionalita'  dell'organo  giudicante»,  la  terza,  allo
«status soggettivo del singolo giudice»;
        che,  con la prima questione, il giudice a quo afferma che la
disposizione  censurata  viola  gli artt. 3, 97 e 108, secondo comma,
Cost.,  data l'irragionevolezza di una normativa che, da un lato, con
l'art. 8  del  citato  decreto  legislativo  n. 545  del  1992, quale
modificato  dall'art. 31,  comma 2,  della  legge  27 dicembre  1997,
n. 449  (Misure  per  la  stabilizzazione  della finanza pubblica), e
dall'art. 84  della legge 21 novembre 2000, n. 342 (Misure in materia
fiscale),  prevede  numerose  ipotesi di incompatibilita' dei giudici
tributari e, dall'altro, non consente a questi ultimi «di rimediare a
detta situazione spostando, previa deroga dell'organo di autogoverno,
la residenza anagrafica»;
        che,  con  riferimento  agli  stessi parametri, il rimettente
formula  una  seconda questione per cui, «in determinate ipotesi, per
conservare  la  professionalita'  acquisita  dal  giudice  altrimenti
dispersa sarebbe addirittura auspicabile l'autorizzazione alla deroga
della  residenza  qualora questi, in una realta' occupazionale sempre
piu' dinamica e sempre meno stabile, sia costretto, per contingenti e
sopravvenute  situazioni  di  lavoro o di famiglia indipendenti dalla
sua volonta', a stabilire la residenza in altra regione»;
        che   sotto  il  secondo  profilo  -  relativo  allo  «status
soggettivo  del  singolo  giudice»  -  il  rimettente,  con una terza
questione,  denuncia l'ingiustificata disparita' di trattamento tra i
giudici  tributari,  soggetti  al  predetto  vincolo  inderogabile di
residenza,  e  i  magistrati  amministrativi, per i quali, secondo lo
stesso  rimettente,  a norma dell'art. 26 della legge 27 aprile 1982,
n. 186   (Ordinamento   della   giurisdizione  amministrativa  e  del
personale  di  segreteria  ed ausiliario del Consiglio di Stato e dei
tribunali  amministrativi  regionali), l'obbligo di residenza sarebbe
«suscettibile   di  dispensa  previa  valutazione  del  Consiglio  di
presidenza  della  giustizia amministrativa che accerta l'impegno del
magistrato  a  garantire  l'ordinario  assolvimento degli obblighi di
servizio»;
        che  e' intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri,
rappresentato   e   difeso   dall'Avvocatura  generale  dello  Stato,
concludendo  per  l'inammissibilita'  o, comunque, per l'infondatezza
delle sollevate questioni;
        che,  ad  avviso  della  difesa  erariale, l'inammissibilita'
delle  questioni deriverebbe dal fatto che le stesse avrebbero dovuto
essere riferite all'art. 24 del decreto legislativo n. 545 del 1992 -
norma   che  assegna  al  Consiglio  di  presidenza  della  giustizia
tributaria  la competenza ad adottare «ogni provvedimento riguardante
i  componenti  delle  commissioni  tributarie»  (comma 1, lettera b),
senza  attribuirgli  il potere di autorizzare il giudice tributario a
risiedere   fuori   della  regione  -  e  non  al  censurato  art. 7,
lettera f),  dello  stesso decreto legislativo n. 545 del 1992, norma
che  si limita a prevedere, tra i requisiti per la nomina del giudice
tributario, la residenza nella regione in cui si trova la Commissione
tributaria;
        che,  nel  merito,  secondo  la difesa erariale, le questioni
sarebbero  infondate,  con  riferimento  all'art. 3 Cost., perche' la
previsione  della  norma  censurata  si giustificherebbe in base alla
triplice  esigenza:  a)  di una «razionale e coordinata delimitazione
della  platea  degli  aspiranti  alla  nomina»;  b)  del  «necessario
collegamento  territoriale  tra  il  luogo  di  residenza del giudice
onorario  e quello di esercizio della delicata funzione da conferire,
tale  percio'  da  assicurare  nel  modo  migliore  l'esercizio della
funzione   stessa»;   c)   del  contenimento  degli  oneri  derivanti
all'erario,   a  norma  dell'art. 13,  comma 2,  del  citato  decreto
legislativo  n. 545  del 1992, dal rimborso delle spese sostenute per
l'intervento alle sedute della commissione;
        che  inoltre,  sempre  ad avviso dell'Avvocatura generale, il
richiamato   tertium  comparationis  sarebbe  inconferente,  data  la
evidente disomogeneita' della posizione del magistrato professionale,
quale  quello  amministrativo, rispetto alla posizione del magistrato
onorario,  quale  quello tributario; e cio' a prescindere dal rilievo
che il riferimento all'art. 26 della legge n. 186 del 1982, contenuto
nell'ordinanza  di  rimessione,  non  sarebbe pertinente perche' tale
disposizione  prevede  -  come  la  norma  censurata  -  l'obbligo di
residenza  del  magistrato  in  un  comune  della regione ove ha sede
l'ufficio  cui  e'  assegnato,  mentre la dispensa da tale obbligo di
residenza  e' consentita, a norma dell'art. 13, secondo comma, numero
5),  della  stessa  legge, «sempre che l'assegnazione di sede non sia
avvenuta a domanda»;
        che,  con riferimento all'evocato art. 97 Cost., l'Avvocatura
erariale   sostiene   poi   che  la  norma  censurata  e'  pienamente
rispondente al dettato costituzionale, perche' e' diretta ad «evitare
lo  "sradicamento"  del  giudice dal contesto spaziale nel quale deve
esercitare  la  sua  funzione  e le ovvie conseguenze pregiudizievoli
alla stessa funzione correlate alla notevole distanza tra il luogo di
propria residenza e quello della sede dell'ufficio cui egli aspira»;
        che,  con  riferimento, infine, all'art. 108 Cost., la difesa
erariale   osserva  che  l'indipendenza  del  giudice  tributario  e'
garantita   dal   sistema  delle  cause  di  incompatibilita'  e  non
dall'obbligo di residenza nella regione in cui ha sede la commissione
tributaria.
    Considerato  che  il  Tribunale  amministrativo  regionale  della
Liguria  solleva,  in  riferimento  agli  artt. 3,  97 e 108, secondo
comma,  della  Costituzione, questioni di legittimita' costituzionale
dell'art. 7,  lettera f),  del  decreto legislativo 31 dicembre 1992,
n. 545 (Ordinamento degli organi speciali di giurisdizione tributaria
ed  organizzazione degli uffici di collaborazione in attuazione della
delega  al  Governo  contenuta  nell'art. 30  della legge 30 dicembre
1991,  n. 413),  nella  parte  in  cui  non  prevede,  per il giudice
tributario,  alcuna  deroga  al vincolo della residenza nella regione
nella  quale  ha  sede  la  commissione  tributaria presso cui presta
servizio;
        che  deve  preliminarmente  essere  rigettata  l'eccezione di
inammissibilita' proposta dall'Avvocatura dello Stato, secondo cui le
sollevate  questioni avrebbero dovuto essere riferite all'art. 24 del
decreto  legislativo  n. 545 del 1992, e cioe' alla norma che assegna
al  Consiglio  di presidenza della giustizia tributaria la competenza
ad  adottare  «ogni  provvedimento  riguardante  i  componenti  delle
commissioni  tributarie»  e  non  prevede il potere di autorizzare il
giudice tributario a risiedere fuori della propria regione;
        che,  contrariamente a quanto sostenuto dall'Avvocatura dello
Stato,  la  questione  e'  stata  correttamente  riferita  alla norma
censurata,  perche'  solo tale norma fissa l'obbligo di residenza del
quale il rimettente lamenta l'inderogabilita';
        che il rimettente afferma che la disposizione censurata viola
gli  artt. 3,  97  e 108, secondo comma, Cost., in quanto «e' affatto
irragionevole  che si incrementino le ipotesi di incompatibilita' per
i   giudici   tributari»  indicate  nell'art. 8  del  citato  decreto
legislativo  n. 545  del 1992 «e, nello stesso tempo, non si consenta
agli stessi, di rimediare a detta situazione spostando, previa deroga
dell'organo di autogoverno, la residenza anagrafica»;
        che   tale   censura   e'  manifestamente  inammissibile  per
insufficiente   ed   illogica   motivazione   sulla   non   manifesta
infondatezza, in quanto il rimettente, non solo non chiarisce perche'
si  dovrebbe  «rimediare»  a  situazioni di incompatibilita' intese a
garantire  l'indipendenza  e  l'imparzialita' del giudice, ma adduce,
quali   ragioni   che   dovrebbero   giustificare   la  derogabilita'
dell'obbligo di residenza, le numerose situazioni di incompatibilita'
soggettive  e  familiari  del  giudice tributario - come, ad esempio:
l'appartenenza   ad   assemblee   elettive   e   ad   alcuni   uffici
dell'amministrazione   pubblica;   particolari   legami  con  partiti
politici    e    con    societa'    operanti    in   alcuni   settori
dell'amministrazione   finanziaria;   l'esercizio  della  consulenza,
assistenza,   rappresentanza   tributaria;   rapporti   di  coniugio,
parentela  e  affinita'  con coloro i quali esercitano o hanno titolo
per  esercitare  l'attivita'  professionale in campo tributario - che
non  hanno  alcuna relazione con detto obbligo e, di conseguenza, non
potrebbero  venire  meno  nel  caso  in cui fosse prevista l'invocata
derogabilita' dell'obbligo di residenza;
        che,  inoltre,  il  rimettente  afferma  che  la disposizione
censurata  viola  gli evocati parametri basandosi sul rilievo che «in
determinate ipotesi, per conservare la professionalita' acquisita dal
giudice   altrimenti   dispersa   sarebbe   addirittura   auspicabile
l'autorizzazione alla deroga della residenza qualora questi [...] sia
costretto,  per  contingenti e sopravvenute situazioni di lavoro o di
famiglia indipendenti dalla sua volonta', a stabilire la residenza in
altra regione»;
        che   tale  questione  e'  manifestamente  inammissibile  per
difetto  di  motivazione  sulla rilevanza, perche' il rimettente, pur
auspicando  una  pronuncia  additiva  di questa Corte che consenta la
derogabilita'   dell'obbligo   della   residenza   in   presenza   di
«sopravvenute»  esigenze  di  lavoro  o  di  famiglia, non chiarisce,
tuttavia,  se  nel  giudizio  a  quo  tali esigenze siano state fatte
valere;
        che  il  rimettente  infine,  in  riferimento  al solo art. 3
Cost.,  denuncia  l'ingiustificata  disparita'  di trattamento che la
normata censura determinerebbe tra i giudici tributari e i magistrati
amministrativi, ed evoca, come tertium comparationis, l'art. 26 della
legge   27 aprile   1982,  n. 186  (Ordinamento  della  giurisdizione
amministrativa  e  del  personale  di  segreteria  ed  ausiliario del
Consiglio  di  Stato  e  dei  tribunali amministrativi regionali), il
quale,   a   suo   dire,  prevede  che  «l'obbligo  di  residenza  e'
suscettibile   di   dispensa  previa  valutazione  del  Consiglio  di
presidenza  della  giustizia amministrativa che accerta l'impegno del
magistrato  a  garantire  l'ordinario  assolvimento degli obblighi di
servizio»;
        che   tale  ultima  questione  e'  manifestamente  infondata,
perche'  le  fattispecie  poste a raffronto sono eterogenee; e cio' a
prescindere  dal  fatto  che  la  norma  che consente al Consiglio di
presidenza della giustizia amministrativa di dispensare il magistrato
dall'osservanza  dell'obbligo  di  residenza  nella regione in cui si
trova l'ufficio presso il quale esercita le funzioni non e' l'evocato
art. 26,  ma  l'art. 13, secondo comma, numero 5), della legge n. 186
del 1982, il quale, peraltro, e' applicabile solo se «la assegnazione
di sede non sia avvenuta a domanda dell'interessato»;
        che,   infatti,  questa  Corte  ha  gia'  affermato,  in  via
generale,   che   «le   posizioni   dei   magistrati   che   svolgono
professionalmente  e  in  via  esclusiva  funzioni  giurisdizionali e
quelle  dei  componenti  le  commissioni  tributarie,  che esercitano
funzioni  onorarie,  non  sono  fra  loro raffrontabili ai fini della
valutazione  del  rispetto  del  principio di eguaglianza» (ordinanza
n. 272  del 1999; v. anche sentenza n. 60 del 2006 e ordinanza n. 479
del 2000);
        che   la   rilevata   eterogeneita'   delle  due  fattispecie
giustifica,  dunque,  la  disciplina legislativa prevista dalla norma
denunciata;
        che,   pertanto,   devono  essere  dichiarate  manifestamente
inammissibili  le  questioni  sollevate in riferimento congiunto agli
articoli 3,  97  e  108 della Costituzione e manifestamente infondata
quella sollevata in riferimento al solo art. 3 della Costituzione.
    Visti  gli  artt. 26,  secondo  comma, della legge 11 marzo 1953,
n. 87,  e  9,  comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti
alla Corte costituzionale.