LA CORTE D'APPELLO


                           Rileva in fatto

    Con  sentenza  in  data  12  febbraio  2004  il Tribunale di Roma
assolveva  perche'  il fatto non costituisce reato Esposito Fernando,
De  Santis  Loredana,  Esposito  Giuseppe  e  Ricci Mara dal reato di
ricettazione in concorso commesso in Roma il 15 marzo 1998.
    Avverso  tale  sentenza  proponeva  appello  il Procuratore della
Repubblica  presso  il  tribunale di Roma chiedendo la condanna degli
imputati.
    In  pendenza  dell'appello in data 9 marzo 2006 entrava in vigore
la  legge  20 febbraio 2006, n. 46, escludente la possibilita' per il
pubblico  ministero  di proporre gravame avverso sentenze assolutorie
eccezion  fatta  per  i  casi  in  cui  ricorre  l'ipotesi  delineata
dall'art. 603, secondo comma c.p.p.

                         Osserva in diritto

    Ritiene  la  Corte  non  manifestamente infondata la questione di
legittimita'  costituzionale  dell'art.  1  della  legge n. 46/2006 e
delle disposizioni ad esso correlate, nella parte in cui non consente
al  pubblico  ministero  di  proporre  appello avverso le sentenze di
assoluzione, se non nel caso previsto dall'art. 603, comma 2 c.p.p.
    La  norma in esame appare invero in conflitto con gli articoli 3,
24, 111 e 112 della Costituzione.
    1.  -  Quanto al contrasto con il principio di eguaglianza di cui
all'art.  3  Cost.  rileva  la  Corte come consentire all'imputato di
proporre  appello  nei  confronti  di  sentenze  di  condanna  ma non
consentire  al  p.m. lo speculare diritto di proporre appello avverso
le  sentenze  di  assoluzione, se non in un caso delimitato, comporti
una  violazione  del principio di eguaglianza dei cittadini di fronte
alla legge.
    All'imputato,   infatti,  viene  in  tal  modo  riconosciuta  una
posizione  di evidente favore nei confronti degli altri componenti la
collettivita'  che  vedono cosi' fortemente limitato, nelle modalita'
di  espletamento,  il  diritto-dovere  del p.m., che i loro interessi
tutela, di esercitare l'azione penale.
    Tanto piu' ove si tenga presente che la possibilita' per l'accusa
di  interporre  gravame nella ipotesi prevista dall'art. 603, secondo
comma  c.p.p.  appare  poco  piu'  che teorica: il pubblico ministero
avrebbe  infatti la possibilita' di proporre appello nel caso in cui,
nei  ristretti  limiti  di  tempo  compresi  tra  la  pronuncia della
sentenza  di primo grado e i termini per l'appello, sopravvenissero o
venissero  per  avventura  scoperte  nuove  prove e le stesse fossero
decisive.
    2.  -  Le norme in questione si pongono altresi' in contrasto con
l'art. 24  Cost.  nella  parte  in cui stabilisce - primo comma - che
tutti  possono  agire  in  giudizio per la tutela dei loro diritti ed
interessi  legittimi  e - secondo comma - che la difesa e' un diritto
inviolabile in ogni stato e grado del procedimento.
    In  effetti  la  norma  impugnata  elidendo  quasi  totalmente la
possibilita'  per  il  p.m.  di  proporre  appello,  nella ipotesi di
assoluzione  del  prevenuto,  non  consente alla collettivita', i cui
interessi  sono dal p.m. medesimo rappresentati e difesi, di tutelare
adeguatamente i suoi diritti di fronte, in ipotesi ad un errore nella
ricostruzione  del  fatto  o  nella  interpretazione  del diritto che
abbiano portato alla assoluzione dell'imputato.
    Devesi  in questa sede porre in evidenza come, mentre da un canto
la   normativa   introdotta   dalla   legge   in  questione  comporti
sostanzialmente,  in caso di assoluzione dell'imputato, la perdita di
un  grado  di  merito  della giurisdizione e cioe' di un giudizio che
investe la vicenda processuale nella sua completezza, riesaminando il
fatto e valutandone nuovamente le implicazioni giuridiche, dall'altro
non  valga a colmare tale perdita la nuova formulazione dell'art. 606
c.p.p.
    Quest'ultimo prevede, invero, delle modifiche di limitata portata
a  due  motivi di ricorso, quelli elencati sotto le lettere d) ed e):
tali modifiche consentono, nella nuova formulazione, di sottoporre al
vaglio  della Corte di cassazione, il primo, la mancata assunzione di
una  controprova  «anche  quando questa sia stata richiesta nel corso
della  istruzione  dibattimentale»  ed,  il  secondo,  la  mancanza o
illogicita'  della  motivazione che risulti oltre che dal testo della
sentenza    impugnata,    «anche   da   altri   atti   del   processo
specificatamente indicati nei motivi di gravame».
    3. - Va rilevato ancora il contrasto della norma impugnata con il
disposto di cui all'art. 111 Cost.
    Sancisce  invero  la  predetta disposizione che «Ogni processo si
svolge  nel  contraddittorio  tra  le parti, in condizioni di parita'
davanti ad un giudice terzo ed imparziale....».
    Appare  dunque evidente come la normativa introdotta dell'art. 1,
legge  n. 46/2006  non  consentendo al pubblico ministero di proporre
appello  avverso  le  sentenze di assoluzione - se non nel caso sopra
specificato  -  leda il principio costituzionale della parita' tra le
parti  in  giudizio  sancito dalla norma di cui all'art. 111 cit. non
consentendo  all'accusa  di  tutelare  le sue ragioni con modalita' e
poteri simmetricamente eguali a quelli di cui dispone la difesa.
    4.  -  La  norma  in  esame  appare,  infine,  in  contrasto  con
l'art. 112 Cost.
    L'esercizio della azione, tanto penale quanto civile, comporta il
dispiegamento della azione medesima lungo i due gradi di merito ed il
terzo  di  legittimita' previsti dalla nostra legislazione secondo un
canone  accettato  e seguito, oltre che dal nostro, dalla maggioranza
degli ordinamenti giuridici europei e piu' in generale occidentali.
    Invero  la possibilita' di esaminare la vicenda processuale sotto
entrambi  i  profili, fattuale e giuridico, per mezzo di due gradi di
giurisdizione  di  merito  risponde  alla  fondamentale  esigenza  di
ovviare,  mediante  un  duplice  vaglio,  a  possibili  errori  nella
determinazione  del fatto e nella sua riconduzione ad una determinata
fattispecie giuridica.
    Detto  altrimenti  un  secondo  grado  di  giudizio  di  merito a
disposizione  dell'imputato  o  del p.m., dell'attore o del convenuto
appare consustanziale al sistema processuale vigente.
    Cosi'  delineata  la  natura della azione penale, ne consegue che
l'esclusione di fatto del p.m. dalla possibilita' di proporre appello
avverso   una   sentenza   di   assoluzione   dell'imputato,  sancita
dall'art. 1  cit.,  elude  il  principio  della obbligatorieta' della
azione   medesima,  considerata  nella  sua  interezza,  e  si  pone,
conseguentemente, in contrasto con la norma di cui all'art. 112 della
Costituzione.
    Posti  in  rilievo  gli  elementi  che  inducono  a  ritenere  la
questione    di    illegittimita'   costituzionale   in   esame   non
manifestamente infondata, e quindi rilevante, osserva infine la Corte
come il giudizio in corso non possa essere definito indipendentemente
dalla risoluzione di detta questione: essa appare pertanto, oltre che
rilevante, altresi' ammissibile.