IL TRIBUNALE Ha emesso la seguente ordinanza di rimessione alla Corte costituzionale. Con ricorso depositato in cancelleria il 19 settembre 2005 il dott. Vincenzo Ciravegna, dipendente della Provincia di Cuneo con qualifica di impiegato di livello C3, profilo di agente caccia e pesca, ha impugnato avanti a questo tribunale il provvedimento con cui la datrice di lavoro in data 10 marzo 2001 ha respinto la domanda di trasformazione del rapporto da rapporto di lavoro a tempo pieno a rapporto di lavoro a tempo parziale, con orario pari al 50 per cento di quello a tempo pieno, domanda presentata dal medesimo in data 1° marzo 2005 e motivata dall'intenzione di esercitare la professione di avvocato. Il «part time» e' stato negato dall'Amministrazione sul rilievo che la legge 25 novembre 2003, n. 339, ha sancito l'incompatibilita' tra la posizione di pubblico dipendente, anche in regime di «part time» c.d. ridotto (e cioe' con prestazione lavorativa non superiore al 50 per cento di quella a tempo pieno) e l'esercizio della professione di avvocato, stabilendo che le disposizioni di cui all'art. 1, commi 56, 56-bis e 57, della legge 23 dicembre 1996, n. 662, non si applicano all'iscrizione agli albi degli avvocati e facendo in tal modo rivivere i limiti e i divieti di cui art. 3 del regio decreto-legge 27 novembre 1933, n. 1578, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 gennaio 1934, n. 36. L'art. 3 del regio decreto-legge 1578/1933 («Ordinamento delle professioni di avvocato e procuratore») stabiliva, al comma 2, che l'esercizio delle professioni di avvocato e di procuratore e' incompatibile «con qualunque impiego od ufficio retribuito con stipendio sul bilancio dello Stato, delle province, dei comuni (...) ed in generale di qualsiasi altra amministrazione o istituzione pubblica soggetta a tutela o vigilanza dello Stato, delle province e dei comuni». Dalla suddetta disposizione erano eccettuati, in virtu' del comma 4 dell'art. 3, «i professori e gli assistenti delle universita' e degli altri istituti superiori ed i professori degli istituti secondari della Repubblica» nonche' «gli avvocati ed i procuratori degli uffici legali istituiti sotto qualsiasi denominazione ed in qualsiasi modo presso gli enti di cui allo stesso secondo comma, per quanto concerne le cause e gli affari propri dell'ente presso il quale pretano la loro opera». L'art. 1, comma 56, della legge 23 dicembre 1996, n. 662 («Misure di razionalizzazione della finanza pubblica»: c.d. legge finanziaria per l'anno 1997) ha abrogato il divieto di iscrizione all'albo degli avvocati prevista dall'art. 3, comma 3, stabilendo che «le disposizioni di cui all'art. 58, comma 1, del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29, e successive modificazioni ed integrazioni; nonche' le disposizioni di legge e di regolamento che vietano l'iscrizione in albi professionali non si applicano ai dipendenti delle pubbliche amministrazioni con rapporto di lavoro a tempo parziale, con prestazione lavorativa non superiore al 50 per cento di quella a tempo pieno». Il successivo comma 57 ha precisato che «il rapporto di lavoro a tempo parziale puo' essere costituito relativamente a tutti i profili professionali appartenenti alle varie qualifiche o livelli dei dipendenti delle pubbliche amministrazioni, ad esclusione del personale militare, di quello delle forze di polizia e del Corpo nazionale dei vigili del fuoco». Il richiamato art. 58, comma 1, del 3 d.lgs. 3 febbraio 1993, n. 29 («Razionalizzazione dell'organizzazione delle amministrazioni pubbliche e revisione della disciplina in materia di pubblico impiego, a norma dell'art. 2 della legge 23 ottobre 1992, n. 421») disponeva che «resta ferma per tutti i dipendenti pubblici la disciplina delle incompatibilita' dettata dagli artt. 60 ss. del T.U. approvato con d.P.R. 10 gennaio 1957, n. 3, nonche', per i rapporti di lavoro parziale, dell'art. 6, comma 2, del d.P.C.m. 17 marzo 1989 n. 117». L'art. 1 della legge 25 novembre 2003, n. 339 («Norme in materia di incompatibilita' dell'esercizio della professione di avvocato») ha infine ripristinato l'incompatibilita' tra la posizione di pubblico dipendente e l'esercizio della professione di avvocato, stabilendo che «le disposizioni di cui all'art. 1, commi 56, 56-bis e 57, della legge 23 dicembre 1996, n. 662, non si applicano all'iscrizione agli albi degli avvocati, per i quali restano fermi i limiti ed i divieti di cui al regio decreto-legge 27 novembre 1933, n. 1578, convertito, con modificazioni, dalla legge 22 gennaio 1934, n. 36, e successive modificazioni». Orbene, secondo il ricorrente, l'art. 1 della legge n. 339/2003 violerebbe gli artt. 3, 4, 35 e 41 della Costituzione. L'eccezione di incostituzionalita', ad avviso di questo giudice, e' rilevante e non manifestamente infondata. In punto rilevanza, va osservato che dagli atti risulta che il dott. Ciravegna, laureato in giurisprudenza, ha conseguito in data 16 ottobre 2003 l'idoneita' all'esercizio della professione di avvocato. L'unico ostacolo allo svolgimento della suddetta libera professione da parte del ricorrente e' rappresentato, pertanto, dal divieto reintrodotto dall'art. 1 della legge n. 339/2003 (divieto che costituisce altresi' l'unico motivo in base al quale la Provincia di Cuneo ha negato il «part time» al ricorrente, avendo quest'ultimo dichiarato nella relativa domanda che la richiesta di trasformazione del rapporto di lavoro a tempo pieno in rapporto di lavoro a tempo parziale era finalizzata allo svolgimento dell'attivita' di avvocato). Dubbi sulla legittimita' costituzionale dell'art. 1 della legge n. 339/2003 sorgono, anzitutto, con riferimento all'art. 3 Costituzione. Nel quadro legislativo attuale in cui vige il principio generale secondo il quale il pubblico dipendente in regime di «part time» c.d. ridotto puo' esercitare la libera professione per la quale abbia conseguito la richiesta abilitazione, il divieto di iscrizione agli albi degli avvocati fatto rivivere dall'art. 1 della legge n. 339/2003 rappresenta una lex specialis dettata con riferimento ad una sola, specifica, libera professione. Al dipendente delle pubbliche amministrazioni, anche se in regime di «part time» c.d. ridotto, e' inibito, in via generale ed astratta, l'esercizio della professione di avvocato, mentre analogo divieto non vale con riferimento a tutte le altre libere professioni (medici, ingegneri, architetti, commercialisti, geometri, ragionieri, eccetera). La normativa censurata dovrebbe, per essere rispettosa dell'art. 3 della Costituzione ossia per non creare una ingiustificata disparita' di trattamento, trovare giustificazione in principi di rango costituzionale o comunque in ragioni che rendano effettivamente diversa la situazione del pubblico dipendente che esercita la professione di avvocato da quella del pubblico dipendente che svolge qualsiasi altra professione «liberale». Una ragione giustificatrice della deroga alla lex generalis di cui all'art. 1, comma 56, della legge n. 662/1996 non sembra rinvenibile ne' se si guarda il problema dal punto di vista della professione forense ne' se lo considera dal punto di vista della pubblica amministrazione. Sotto il primo profilo va osservato che nel corso dei lavori preparatori della legge n. 339/2003 e' stato frequentemente affermato che il divieto di esercizio della professione di avvocato da parte del pubblico dipendente in regime di «part time» c.d. ridotto avrebbe come finalita' quella di assicurare l'indipendenza del difensore (intesa in senso ampio e tecnico di mancanza di subordinazione) e l'inviolabiita' del diritto di difesa garantito dall'art. 24 della Costituzione. Tale motivazione non appare convincente. L'idoneita' allo svolgimento della professione di avvocato, per quanto riguarda il possesso delle capacita' e delle cognizioni tecniche, e' attestata dal superamento dell'esame di Stato che l'aspirante deve obbligatoriamente sostenere per conseguire l'abilitazione all'esercizio di detta professione. Quanto alla fedelta' al mandato conferito dal cliente, essa non appare affatto pregiudicata dal rapporto di dipendenza con la pubblica amministrazione, in quanto nell'esercizio della professione di avvocato il pubblico dipendente non e' soggetto agli ordini e alla direttive della datrice di lavoro, ma esclusivamente alle norme deontologiche valide per tutti gli iscritti all'ordine (e al riguardo vengono in considerazione il Codice deontologico approvato dal Consiglio nazionale forense il 17 aprile 1997 e quello europeo, approvato dal Consiglio degli Ordini forensi europei il 28 ottobre 1998), norme a garanzia dell'osservanza delle quali sono contemplate sanzioni disciplinari e, ove occorra, anche sanzioni penali (artt. 380 e 622 c.p.). Nei lavori preparatori ricorre poi sovente l'affermazione secondo la quale la possibilita' che i dipendenti delle pubbliche amministrazioni possano essere iscritti agli albi degli avvocati verrebbe ad instaurare «uno strano rapporto di interazione pubblico-privato per cui il prestigio del difensore non sara' piu' basato sulla sua professionalita', ma sul suo potere nell'ambito dell'amministrazione con creazione di una clientela al di fuori di una corretta concorrenza professionale e di una commistione di interessi privati in attivita' pubbliche» (relazione alla proposta di legge n. 543 d'iniziativa dei deputati Bonito, Leoni, Finocchiaro, Kessler, Carboni, Lucidi, Crucianelli, Grillini, Mancini, Siniscalchi, presentata alla Camera dei deputati il 6 giugno 2001). Si tratta di situazioni di mero fatto che vanno, se del caso, affrontate e risolte con la previsione di limitazioni territoriali all'esercizio della professione di avvocato da parte del pubblico dipendente occupante, in seno all'amministrazione, una posizione suscettibile di fungere da «richiamo di clientela» (si pensi all'avvocato che contemporaneamente e' anche cancelliere o ufficiale giudiziario) e non gia' con l'introduzione di un divieto generale ed indiscriminato avente come destinatario qualsiasi pubblico dipendente e quindi anche quello che dalle mansioni svolte presso l'Amministrazione di appartenenza non puo' trarre alcun indebito vantaggio ai fini del reperimento della clientela (come e' il caso del ricorrente, dipendente della Provincia di Cuneo con qualifica di impiegato di livello C3, profilo di agente caccia e pesca). In ogni caso la medesima considerazione varrebbe anche per altre professioni «liberali», con riferimento alle quali, tuttavia, non e' previsto analogo divieto (si pensi, ad esempio, all'esercizio della professione di architetto o di geometra da parte di un impiegato in servizio presso un ufficio tecnico comunale). Va evidenziato, del resto, che il timore che il prestigio del difensore possa basarsi, anziche' sulle qualita' personali, sulle funzioni pubbliche ricoperte non ha impedito al legislatore di sancire la compatibilita' dell'esercizio della professione di avvocato con l'attivita' di professore di universita' o istituti secondari statali o con incarichi quali quelli di giudice di pace, giudice tributario, giudice onorario di tribunale e vice procuratore onorario (anzi addirittura i V.P.O. possono esercitare la professione di avvocato anche nella stessa circoscrizione purche' in sedi distaccate). Sotto altro punto di vista il divieto reintrodotto dall'art. 1 della legge n. 339/2003 non puo' essere giustificato con l'esigenza di garantire l'imparzialita' e il buon andamento dell'amministrazione. La normativa vigente, invero, gia' prevede una serie di limiti che appare idonea a salvaguardare l'anzidetta esigenza, come ha avuto modo di mettere in luce la Corte costituzionale nella sentenza n. 189 dell'11 giugno 2001, con la quale sono state dichiarate non fondate tutte le questioni di legittimita' costituzionale dell'art. 1, commi 56 e 56-bis, della legge n. 662/1996 sollevate dal Consiglio nazionale forense con riferimento agli artt. 3, 4, 24, 97 e 98 della Costituzione. Anzitutto, l'art. 1 della legge n. 662/1996, nell'abrogare il divieto di iscrizione agli albi degli avvocati nei confronti dei pubblici dipendenti in regime di «part time» c.d. ridotto, ha stabilito, al comma 56-bis (introdotto dal d.l. 28 marzo 1997, n. 79, convertito, con modificazioni, nella legge 28 maggio 1997, n. 140) che ai suddetti dipendenti non solo non possono essere conferiti incarichi da parte della pubblica amministrazione, ma che non e' neppure consentito loro di assumere il patrocinio in controversie in cui questa sia parte. L'art. 1, comma 58, della legge n. 662/1996 consente poi all'Amministrazione di negare la trasformazione del rapporto a tempo pieno in «part time» nel caso in cui l'ulteriore attivita' di lavoro (subordinato o autonomo) del dipendente «comporti un conflitto di interessi con la specifica attivita' di servizio svolta», ovvero di differire la trasformazione stessa, per un periodo non superiore a sei mesi, allorche' possa derivarne grave pregiudizio alla funzionalita' dell'amministrazione medesima. Il successivo comma 58-bis (anch'esso introdotto dal citato d.l. n. 79/1997) ha demandato alle singole amministrazioni - ferma la valutazione in concreto dei singoli casi di conflitto di interesse - di individuare (con decreto ministeriale emanato di concerto con il Ministro per la funzione pubblica) le attivita' da considerare «comunque non consentite», in «ragione della interferenza con i compiti istituzionali». In attuazione di tale norma sono state emanate istruzioni generali da parte della Presidenza del Consiglio dei ministri (in particolare, la circolare del 18 luglio 1997) e specifiche previsioni ad opera delle singole amministrazioni, tra cui il Ministero della giustizia (d.m. 6 luglio 1998), il Ministero delle finanze per i dipendenti dell'Amministrazione dei Monopoli di Stato (d.m. 20 settembre 2000) e per i propri dipendenti (d.m. 15 gennaio 1999), il Ministero per i beni culturali e ambientali (d.m. 5 giugno 1998 e circolare del 4 febbraio 1999), il Ministero dei trasporti e della navigazione (d.m. 14 maggio 1998). Infine, il comma 2-ter dell'art. 18 della legge n. 109/1994 (inserito dall'art. 9, comma 30, della legge n. 415/1998) esclude in modo assoluto che i pubblici dipendenti possano espletare, nell'ambito territoriale del proprio ufficio, incarichi professionali per conto delle amministrazioni di appartenenza. La disparita' di trattamento creata dal denunciato art. 1 della legge n. 339/2003 risulta ancor piu' accentuata ove si ponga mente alla normativa comunitaria. L'art. 2 della direttiva n. 98/5/CE stabilisce che «gli avvocati hanno diritto di esercitare stabilmente le attivita' di avvocato in tutti gli Stati membri con il proprio titolo professionale di origine». Il successivo art. 5, comma 1, dispone che «l'avvocato che esercita con il proprio titolo professionale di origine svolge le stesse attivita' professionali dell'avvocato che esercita con il corrispondente titolo professionale dello Stato membro ospitante». La stessa direttiva prevede inoltre la possibilita' di costituire societa' tra avvocati e societa' con avvocati di altri Stati membri. Orbene, come ha osservato il ricorrente, il dipendente pubblico italiano, anche se in regime di «part time» c.d. ridotto e anche se in possesso dell'abilitazione professionale, non puo', in base alla legge n. 339/2003, iscriversi agli albi degli avvocati italiani e conseguenzialmente non puo' esercitare la professione di avvocato neppure negli altri Stati membri in quanto l'art. 3 della direttiva, al comma 2, stabilisce che «lo Stato membro ospitante procede all'iscrizione dell'avvocato straniero su presentazione del documento attestante l'iscrizione di questi presso la corrispondente autorita' competente dello Stato membro di origine». Viceversa, l'avvocato straniero che sia anche pubblico dipendente puo' esercitare in Italia e puo' partecipare a societa' di avvocati con professionisti italiani. L'ostacolo frapposto dalla norma censurata allo svolgimento dell'attivita' professionale per la quale si e' conseguita la prescritta abilitazione appare inoltre in contrasto non solo con l'art. 3 della Costituzione, ma anche con altre norme della Carta fondamentale e segnatamente con l'art. 4, che riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro, e con l'art. 35, che tutela il lavoro in tutte le sue forme ed applicazioni. Appare infine vulnerato anche l'art. 41 della Costituzione, in quanto il divieto posto dall'art. 1 della legge n. 339/2003 all'esercizio della professione di avvocato da parte dei pubblici dipendenti non puo' dirsi dettato da «fini sociali», laddove, come ha evidenziato l'Autorita' garante della concorrenza e del mercato nel parere n. 48/01 e come ha affermato anche la Corte costituzionale nella citata sentenza n. 189/2001, le disposizioni della legge n. 662/1996, delle quali la norma qui impugnata esclude l'applicazione con riguardo alla sola professione forense, «sono intese a favorire l'accesso di tutti i soggetti in possesso dei prescritti requisiti alla libera professione e cioe' ad un ambito del mercato del lavoro che e' naturalmente concorrenziale».