LA CORTE DEI CONTI Visti il regio decreto 13 agosto 1933, n. 1038, il decreto-legge 15 novembre 1993, n. 453, convertito dalla legge 14 gennaio 1994, n. 19 e la legge 14 gennaio 1994, n. 20; Visti gli atti ed i documenti di causa; Uditi nella pubblica udienza del giorno 10 novembre 2005 il relatore, dott. Massimiliano Atelli, l'avv. Mario Viviani ed il pubblico ministero rappresentato in udienza dal Vice Procuratore generale dott. Gaetano Berretta; Ha pronunciato la seguente ordinanza nel giudizio iscritto al n. 22911 del registro di segreteria su istanza della Procura regionale, contro Facchini Carlo, nato a Campione il 20 agosto 1941 e residente in Cantello (Varese), via Mazzini, n. 5, elettivamente domiciliato in Milano, galleria San Babila n. 4/A, presso lo studio dell'avv. Mario Viviani che lo rappresenta e difende con l'avv. Angela Sarli, giusta delega. F a t t o Con atto di citazione depositato in data 1° giugno 2005, la Procura attrice conveniva innanzi a questa sezione Facchini Carlo, nato a Campione il 20 agosto 1941 e residente in Cantello (Varese), via Mazzini, n. 5, elettivamente domiciliato in Milano, galleria San Babila n. 4/A presso io studio delIavv. Mario Viviani che lo rappresenta e difende con l'avv. Angela Sarli, giusta delega, deducendo quanto segue: a) che, sulla scorta di indagini effettuate dalla Procura della Repubblica di Varese, e in particolare delle dichiarazioni (anche dello stesso Facchini) raccolte nel corso dei conseguenti interrogatori, era emerso che il convenuto, in qualita' di Presidente del Consorzio interprovinciale per la tutela e la salvaguardia delle acque del lago di Varese, si era reso responsabile del reato di corruzione propria continuata e aggravata in danno del medesimo Consorzio, consumato in Varese dal 1982 al 1992 percependo somme non dovute, in qualita' di pubblico ufficiale nell'esercizio delle proprie funzioni, al fine di compiere atti contrari ai doveri d'ufficio; b) che per i fatti descritti, in sede penale, e' stata emessa sentenza di condanna nei confronti del convenuto con decisione del Tribunale di Varese 14 maggio 2002, n. 388, avverso la quale pende attualmente l'appello dinanzi alla Corte di appello di Milano; c) che la condotta del convenuto avrebbe arrecato un ingente danno erariale, quantificabile in complessivi euro 557.773,45 a titolo di danno all'immagine ed al prestigio del Consorzio; c) che le giustificazioni fornite dal convenuto in riscontro al notificato invito a dedurre non avevano escluso l'ipotizzato danno erariale. In particolare, deduceva la Procura attrice che il convenuto si sarebbe fatto fittiziamente assumere nel 1985 - grazie all'intervento degli esponenti politici Rezzonico e Di Luccio - come dipendente da Marchelli Piero, Pisante Ottavio e Giuseppe e Zocchi Aldo, amministratori della Sogeiva S.p.A. e di societa' collegate al gruppo Acqua, ricevendone a titolo di retribuzione circa 60 milioni di lire annui e ricevendo dal Marchelli, per il tramite del Di Luccio, un contributo annuo di circa 150 milioni di lire, per due annualita', in cambio del suo intervento volto a influire sul conferimento di incarichi professionali, di appalti di lavori pubblici e di concessioni della gestione degli impianti a favore del gruppo Acqua da parte dei Consorzi ecologici. Per conseguenza, l'attrice Procura regionale chiedeva la condanna del convenuto al pagamento della somma di euro 557.773,45, a titolo di risarcimento del procurato danno all'immagine dell'amministrazione, oltre rivalutazione, interessi legali e spese di giudizio. In data 19 ottobre 1995, il Consorzio interprovinciale per la tutela e la salvaguardia delle acque del lago di Varese si costituiva parte civile nel processo penale di primo grado conclusosi con la sopra indicata sentenza di condanna emessa dal Tribunale di Varese, la quale statuiva anche sulle richieste della parte civile, accogliendole, con rinvio a separata sede per la liquidazione. Con atto depositato in data 17 ottobre 2005, si costituiva il convenuto, che in data 20 ottobre 2005 faceva pervenire memoria difensiva. In particolare, la difesa del convenuto instava: per la declaratoria di inammissibilita' dell'azione erariale (o, in via subordinata, per la sospensione del presente giudizio sino alla definizione dell'appello pendente in sede penale), giacche' in sede di costituzione di parte civile il Consorzio specifico' che la sua iniziativa era indirizzata ad ottenere la rifusione anche del danno derivante dalla grave lesione della sua immagine, sicche' ritenere procedibile l'azione pubblica di responsabilita' in un simile caso significherebbe violare la regola del ne bis in idem; in via subordinata, per la nullita' assoluta della citazione, che sarebbe a suo dire assolutamente generica, non specificando essa ne' quali incarichi sarebbero specificamente in contestazione, ne' quali Consorzi ecologici li avrebbero affidati (tenuto conto del fatto che il convenuto ha ricoperto cariche nel solo Consorzio interprovinciale per la tutela e la salvaguardia delle acque del lago di Varese) ne' motivando in ordine alla quantificazione dell'addebito; in via subordinata, per l'intervenuta prescrizione dell'azione erariale, anche alla luce dell'indirizzo fatto proprio da talune sentenze di appello di questa Corte in punto di efficacia interruttiva e/o sospensiva della decorrenza del termine prescrizionale; in via subordinata, per l'assoluzione del convenuto, in considerazione dell'asserita insussistenza, e comunque del carattere indimostrato, tanto del danno all'immagine per cui e' causa quanto della condotta illecita del convenuto che ne sarebbe stata la causa; in via ulteriormente gradata, per un ampio uso del potere riduttivo intestato a questa Corte, all'udienza del 10 novembre 2005, il rappresentante dell'accusa insisteva per la declaratoria di inammissibilita' dell'azione erariale (o, in via subordinata, di sospensione del presente giudizio sino alla definizione dell'appello pendente in sede penale), perche' ritenere procedibile l'azione pubblica di responsabilita' nel presente caso significherebbe violare la regola del ne bis in idem. D i r i t t o 1. - La difesa del convenuto ha dedotto in via principale l'inammissibilita' dell'atto di citazione (o, in via subordinata, la sospensione del presente giudizio sino alla definizione del giudizio contemporaneamente pendente in sede penale, per quanto consta, dinanzi al giudice di secondo grado), per essere stato questo emanato nonostante la gia' intervenuta condanna, emessa dal giudice penale di primo grado, al risarcimento del danno in favore della parte civile Consorzio interprovinciale per la tutela e la salvaguardia delle acque del lago di Varese. La deduzione difensiva riveste, ai fini della definizione del presente giudizio, carattere pregiudiziale. In proposito, va evidenziato che, per un verso, in sede di costituzione nel processo penale in qualita' di parte civile, il sopraindicato Consorzio ha effettivamente chiesto il risarcimento anche del danno asseritamene subito per la grave lesione della propria immagine cagionata dai fatti per cui e' causa, e, per altro verso, l'azione pubblica erariale e' stata esercitata al solo fine, secondo quanto risulta dall'atto di citazione, della riparazione del danno all'immagine ritenuto subito dall'amministrazione. Il giudice penale ha condannato in quella sede l'odierno convenuto al pagamento di un risarcimento - in favore del ridetto Consorzio - la cui liquidazione ha pero' rinviato a separata sede. Il rinvio alla separata sede per la liquidazione e' stato disposto dal giudice penale indistintamente, e quindi, deve ritenersi, non soltanto con riferimento alla quota del risarcimento del danno riferibile alla lamentata - dal Consorzio anzidetto - lesione dell'immagine dell'amministrazione, ma anche con riguardo alla residua quota, inerente al danno patrimoniale asseritamente arrecato dall'odierno convenuto. Reputa questo giudice che nello specifico caso sopra indicato, alla luce dell'indirizzo consolidatosi nella giurisprudenza delle sezioni unite della Corte di cassazione in ordine ai rapporti fra giudizi di competenza del giudice ordinario e quelli devoluti al giudice contabile, si applichi l'art. 75, comma 3, c.p.p., testo vigente, in base al quale «se l'azione e' proposta in sede civile nei confronti dell'imputato dopo la costituzione di parte civile nel processo penale o dopo la sentenza penale di primo grado, il processo civile e' sospeso fino alla pronuncia della sentenza penale non piu' soggetta a impugnazione, salve le eccezioni previste dalla legge», di tal che il presente giudizio, promosso in sede contabile dopo la sentenza penale di primo grado, dovrebbe essere sospeso. Ritiene questo giudice che l'art. 75, comma 3, c.p.p. assuma rilevanza nel caso di specie, perche' obbliga a sospendere il diverso giudizio (instaurato per secondo) nel quale si faccia valere l'azione risarcitoria su cui si sia gia' pronunciato il giudice penale di primo grado dinanzi al quale sia stata proposta azione civile contro gli autori dei medesimi fatti, fonte di danno, costituenti reato. L'art. 75, comma 3, c.p.p., testo vigente, vincola infatti alla sospensione del giudizio civile instaurato dopo la sentenza penale di primo grado che abbia pronunciato anche sulla domanda civile in esso proposta, giacche' - evidentemente - l'azione esperibile nelle due sedi e' la medesima e si intende in tal modo evitare una duplicazione di giudizi (quello civile, per un verso, e quello penale nella parte relativa alla domanda civile, per altro verso). Sennonche', poiche' le Sezioni Unite reputano che l'esercizio da parte dell'amministrazione danneggiata dell'azione civile in sede penale escluda la proponibilita', una volta formatosi il giudicato sulla prima, dell'azione di responsabilita' esercitabile innanzi alla Corte dei conti per danno erariale, ne deriva che - in casi come quello per cui e' causa - ammettere la procedibilita' di quest'ultima azione (dopo che nel definire il processo penale di primo grado il relativo giudice abbia pronunciato anche sulla domanda civile in esso proposta) comporterebbe parimenti un problema di duplicazione della prima azione. Cosi' stando le cose, ritiene questo giudice di trovarsi nell'impossibilita' di sottrarsi - nel caso di specie - all'applicazione dell'art. 75, comma 3, c.p.p., testo vigente. Secondo questa sezione, cioe', se - come ritengono le sezioni unite - l'esercizio da parte dell'amministrazione danneggiata dell'azione civile in sede penale rende improponibile, una volta formatosi il giudicato sulla prima, l'azione di responsabilita' esercitabile innanzi alla Corte dei conti per danno erariale, allora l'esercizio dell'azione civile in sede penale di cui all'art. 75, comma 3, c.p.p. vincola inevitabilmente, una volta intervenuta la sentenza penale di primo grado che abbia pronunciato anche sulla domanda civile, alla sospensione non soltanto del giudizio civile instaurato dopo la sentenza penale di primo grado che abbia pronunciato sulla domanda civile in esso proposta, ma anche del giudizio di responsabilita' instaurato (parimenti dopo la sentenza penale di primo grado che abbia pronunciato su quella domanda) innanzi alla Corte dei conti per danno erariale. Va in proposito notato che, come meglio si vedra' nel seguito, le Sezioni unite della Corte di cassazione ricollegano la non proponibilita' dell'azione erariale solamente alla sentenza definitiva di condanna al risarcimento dei danni per il medesimo fatto che venga emessa dal giudice penale davanti al quale l'amministrazione danneggiata si sia costituita parte civile. Da cio' deriva che, sino al momento del passaggio in giudicato della sentenza del giudice penale, per il giudice regolatore della giurisdizione l'azione intestata al p.m. contabile resta proponibile. Tuttavia, una volta che quest'ultima sia stata proposta (dopo la sentenza penale di primo grado), ritiene questo giudice che il processo contabile, in applicazione dell'art. 75, comma 3, c.p.p., testo vigente, vada sospeso (divenendo l'azione erariale, in base a quest'ultima norma, improcedibile). Detto altrimenti, se, come affermano le sezioni unite, l'azione erariale non e' (neppure) proponibile (solo) una volta formatosi il giudicato sulla sentenza penale che abbia pronunciato anche sulla domanda civile proposta in quella sede, medio tempore la prima va considerata evidentemente proponibile e procedibile. Sennonche' - una volta intervenuta la decisione penale di primo grado che, in via non definitiva, abbia pronunciato sulla domanda civile proposta in quella sede - il processo contabile cosi' instaurato va sospeso ai sensi dell'art. 75, comma 3, c.p.p., perche' Il rischio di duplicazione e' lo stesso che si da' fra l'azione civile esercitata nel processo penale e quella invece esercitata nel processo civile dopo l'emanazione della sentenza penale di primo grado che abbia pronunciato sulla domanda civile proposta in quella sede. Nei due casi, ove non esistesse (o si ritenesse non applicabile) l'art. 75, comma 3, c.p.p., il principio di economia processuale risulterebbe infatti egualmente vulnerato, poiche' il convenuto (con la domanda civile nel processo penale e, contemporaneamente, con l'atto di citazione nel processo contabile) sarebbe esposto al rischio di doversi difendere in due sedi distinte, dinanzi a due giudici diversi, per i medesimi fatti. Rischio, questo, aggravato dalla circostanza che l'esercizio del diritto di difesa in una delle due sedi potrebbe persino rivelarsi inutile, qualora - secondo l'orientamento delle sezioni unite - l'azione erariale venisse proposta, ad esempio, prima del passaggio in giudicato della decisione penale di secondo grado che abbia pronunciato sulla domanda civile proposta, dall'amministrazione danneggiata in quella sede. Se infatti - in questo contesto - l'azione erariale fosse considerata realmente procedibile, a dispetto dell'art. 75, comma 3, c.p.p., lo svolgimento del processo, contabile (rectius di una parte del processo contabile) fra il momento in cui detta azione viene proposta e quello (successivo) in cui diviene definitiva la decisione penale di secondo grado che pronunci sulla domanda civile proposta dall'amministrazione danneggiata in quella sede (con la conseguente improcedibilita' dell'azione erariale) determinerebbe il paradossale effetto di un'inutile attivazione dell'organizzazione giudiziaria con accollo alla parte privata di oneri difensivi duplicati. Questa conclusione e' il precipitato naturale dell'indirizzo fatto proprio dal giudice regolatore della giurisdizione secondo il quale la formazione dei giudicato sulla decisione penale che abbia pronunciato sulla domanda civile proposta dall'amministrazione danneggiata in quella sede impedisce perfino la (stessa proponibilita' dell'azione erariale: ove siffatto giudicato si formi dopo la - anziche' prima della - proposizione dell'azione erariale da parte del p.m. contabile, quella «non proponibilita» deve infatti evidentemente declinarsi come «non procedibilita» di quest'ultima azione. Cio' premesso, ove si ritenesse inapplicabile l'art. 75, comma 3, c.p.p. a casi come quello per cui qui e' causa, dalle considerazioni che precedono deriverebbe una situazione paradossale di questo tipo: mentre il giudizio contabile (instaurato per secondo) potrebbe svolgersi anche inutilmente sino al momento in cui sopravvenisse il giudicato sulla decisione del giudice penale dinanzi al quale l'amministrazione danneggiata abbia proposto la relativa azione civile (giacche' sola a partire da quei momento l'azione erariale dovrebbe ritenersi improcedibile, seguendo il ragionamento delle sezioni unite), l'identico rischio di inutile svolgimento del processo civile in cui venisse proposta la stessa azione risarcitoria sulla quale il giudice penale si fosse gia' pronunciato con decisione di primo grado sarebbe ab imis scongiurato dall'art. 75, comma 3, c.p.p. Dal punto di vista del giudizio contabile (instaurato per secondo); il suo inutile svolgimento avverrebbe, si ripete, evidentemente a danno della parte privata convenuta nei due giudizi e della stessa amministrazione della giustizia. Cio' premesso, presupponendo un rapporto di concorrenza fra azioni risarcitarie omogenee proposte in sedi distinte, l'art. 75, comma 3, c.p.p., da intendersi - onde uniformarsi (secondo quanto meglio si specifichera) al summenzionato orientamento delle Sezioni unite della Corte di Cassazione in ordine ai rapporti fra giudizi di competenza del giudice ordinario, e quelli devoluti ai giudice contabile - come riferito anche ai giudizi di responsabilita' che si svolgono dinanzi alla Corte dei conti, si pone secondo questo giudice in contrasto con l'art. 103 comma, secondo, Cost., nell'interpretazione che, parimenti in ordine ai rapporti fra giudizi di competenza dell'uno e dell'altro giudice, ne ha sino ad oggi dato la Corte costituzionale, che ha viceversa esclusa l'esistenza di un rapporto di concorrenza tra le due giurisdizioni. Dubita cioe', questo giudice, della legittimita' costituzionale dell'art. 75, comma 3, c.p.p., testo vigente, nella parte in cui obbliga alla sospensione del processo civile - ma anche, per quanto qui interessa, dei processi nei quali puo', secondo il richiamato orientamento delle Sezioni unite, proporsi analoga domanda risarcitoria - se questi vengono iniziati dopo l'emanazione della sentenza penale di prima grado. Detto altrimenti, dubita questo giudice - nello specifico caso di risarcimento dei danni, anche non patrimoniali, cagionati ad una amministrazione pubblica da amministratori e dipendenti mediante comportamenti costituenti reato - della legittimazione, che, l'art. 75, comma 3, c.p.p., testo vigente, presuppone, (se inteso coerentemente al predetto orientamento delle sezioni unite, e quindi del giudice regolatore della giurisdizione), dell'ente pubblico danneggiato a costituirsi parte civile nel processo penale instaurata nei confronti degli autori del reato medesimo, per far valere in quella sede il diritto di credito di cui assuma di essere titolare, derivandone, in caso di definitivo accoglimento della domanda proposta con l'azione civile, l'improponibilita' della domanda che venisse esercitata successivamente dal p.m. contabile dinanzi alla competente sezione giurisdizionale regionale della Corte dei conti (e, medio tempore, l'improcedibilita' del giudizio contabile instaurato dopo l'emanazione della sentenza penale di primo grado che abbia pronunciato anche sulla domanda civile proposta in quella sede dall'amministrazione danneggiata). In ragione di quanto precede, il Collegio ritiene, pertanto, di dover sollevare d'ufficio la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 75, comma 3, c.p.p., essendo la stessa rilevante al fini della definizione della specifica controversia sottoposta al suo esame, nella parte in cui prevede la necessaria sospensione del giudizio contabile nel quale venga esercitata l'azione risarcitoria gia' esperita vittoriosamente nel giudizio penale di primo grado. 2. - Come si e' gia' accennato, questo giudice ritiene che la norma costituzionale violata vada nella specie identificata con l'art. 103, comma 2, Cost., sicche', per quanto qui interessa, appare necessario rifarsi alla, portata e al significato che ad essa sono stati riconosciuti. Al riguardo, e' noto che, secondo la consolidata giurisprudenza della Corte, costituzionale «la giurisdizione "nelle materie di contabilita' pubblica", come prevista dalla Costituzione e alla stregua della sua conformazione storica, e' dotata infatti non di una "assoluta", ma solo di una tendenziale generalita' (sentenza n. 102 del 1977, nonche' sentenza n. 33 del 1968), in quanto essa e' suscettibile di espansione in via interpretativa, quando sussistano i presupposti soggettivi e oggettivi della responsabilita' per danno erariale, ma cio' solo "in carenza di regolamentazione specifica da parte del legislatore che potrebbe anche prevedere la giurisdizione ed attribuirla ad un giudice diverso" (sentenza n. 641 del 1987). Appartiene infatti alla discrezionalita' del legislatore, che deve essere circoscritta all'apprezzamento ragionevole dei motivi di carattere ordinamentale e, particolarmente, di quelli riconducibili agli equilibri costituzionali, la definizione concreta della materia di contabilita' pubblica, da attribuire alla giurisdizione della Corte dei conti, cosi' come appartiene al legislatore, nel rispetto delle norme costituzionali, la determinazione dell'ampiezza di ciascuna giurisdizione (ordinaria, amministrativa, contabile, militare, ecc.) (sentenza n. 641 del 1987)» (cosi', sent. n. 385 del 1996). Risulta allora essenziale comprendere con quali modalita' la c.d. interpositio legislatoris debba attuarsi, in questo contesto. Alla scopo, occorre rifarsi nuovamente alla giurisprudenza della Corte costituzionale. In particolare, questa - con la gia' citata sentenza n. 641 del 1987 - ha anzitutto ribadito che «il secondo comma dell'art. 103 Cost. e' stato piu' volte interpretato da questa Corte (sentt. nn. 17/1985; 189/1984; 241/1984; 102/1977), nel senso che alla Corte dei conti e' riservata la giurisdizione sulle materie di contabilita' pubblica, la quale va intesa nel senso tradizionalmente accolto dalla giurisprudenza e dalla legislazione, cioe' come comprensiva sia dei giudizi di conto che di responsabilita' a carico degli impiegati e degli agenti contabili dello Stato e degli enti pubblici non economici che hanno il maneggio del pubblico denaro; che la materia di contabilita' pubblica non e' definibile oggettivamente ma occorrono apposite qualificazioni legislative e puntuali specificazioni non solo rispetto all'oggetto ma anche rispetto ai soggetti; che, comunque, essa appare sufficientemente individuata nell'elemento soggettivo che attiene alla natura pubblica dell'ente (Stato, Regioni, altri enti locali e amministrazione pubblica in genere) e nell'elemento oggettivo che riguarda la qualificazione pubblica del denaro, e del bene oggetto della gestione. Si e' anche affermato che la giurisdizione della Corte del conti; nelle dette, materie, e' solo tendenzialmente generale (tanto che nell'ordinamento precostituzionale la si qualificava giurisdizione speciale) e che sono, possibili deroghe con apposite disposizioni legislative, specie nella, materia della responsabilita' amministrativa non di gestione e che la cognizione delle cause attinenti alla responsabilita' patrimoniale per danni cagionati agli enti pubblici da pubblici funzionari, nell'esercizio delle loro funzioni, siccome involge questioni relative a diritti soggettivi, sarebbe spettata al giudice ordinario se non vi fosse stata la previsione legislativa derogatoria la quale sancisce una diversa ripartizione giurisdizionale». La medesima decisione (n. 641) ha specificato che «la richiamata giurisprudenza non e' in contrasta con l'altra di questa stessa Corte (sentt. nn. 110/1970; 68/1971; 211/1972; 102/1977; 241/1984; 53/1985) che ha affermato la espansione tendenziale della giurisdizione della Corte dei conti, ove sussista identita' di materia e di interesse tutelato, In carenza di regolamentazione specifica da parte del legislatore che potrebbe anche prevedere la giurisdizione ed attribuirla ad un giudice diverso (per es. in tema di responsabilita' amministrativa dei funzionari, regionali in fattispecie di gestione di interessi patrimoniali pubblici)». Ne discende, evidentemente, un modello costituzionale di riparto di giurisdizione nell'ambito del quale e' riconosciuto carattere non cogente ed assoluto, ma solo tendenzialmente generale, all'attribuzione alla Corte dei conti, ad opera dell'art. 103 Cost., della giurisdizione in materia di contabilita' pubblica, fermo restando che se «la concreta attribuzione della giurisdizione, in relazione alle diverse fattispecie di responsabilita' amministrativa e ... rimessa alla discrezionalita' del legislatore ordinario e non opera automaticamente in base all'art. 103 Cost., richiedendo l'interpositio legislatoris, al quale sono rimesse valutazioni che non toccano solo gli aspetti procedimentali del giudizio investendo la stessa, disciplina sostanziale della responsabilita» (sent. n. 24 del 1993), cio', non va pero' ritenuto in contrasto con «la espansione tendenziale della giurisdizione della Corte del conti, ove sussista identita' di materia e di interesse tutelato, in carenza di regolamentazione specifica da parte del legislatore che potrebbe anche prevedere la giurisdizione ed attribuirla ad un giudice diverso» (sent. n. 641 del 1987). Ancor piu' in dettaglio, premessa che «la cognizione delle cause attinenti alla responsabilita' patrimoniale per danni cagionati agli enti pubblici da pubblici funzionari, nell'esercizio delle loro funzioni, siccome involge questioni relative a diritti soggettivi, sarebbe spettata al giudice ordinario se non vi fosse stata la previsione legislativa derogatoria la quale sancisce una diversa ripartizione giurisdizionale» (sent. n. 641 del 1987), resta fermo che la necessita' dell'interpositio legisiatoris e' per la Corte costituzionale compatibile con «la espansione tendenziale della giurisdizione della Corte dei conti, ove sussista identita' di materia e di, interesse tutelato, in carenza di regolamentazione specifica da parte del legislatore che potrebbe anche prevedere la giurisdizione ed attribuirla, ad un giudice diverso» (sent. n. 641 del 1987). L'assetto disegnato dal Costituente fa dunque della giurisdizione della, Corte dei conti un limite alla giurisdizione del giudice ordinario, riconoscendo alla prima, nel proprio ambito, carattere tendenzialmente generale, ovvero la capacita' di espandersi, «ove sussista identita' di materia e di interesse tutelato, in carenza di regolamentazione specifica da parte del legislatore che potrebbe anche prevedere la giurisdizione ed attribuirla ad un giudice diverso». In altri termini, purche' sussista identita' di materia e di interesse tutelato (cioe', come specificato dalla sent. n. 385 del 1996, «quando sussistano i presupposti soggettivi e oggettivi della responsabilita' per danno erariale»), in mancanza dell'attribuzione da parte del legislatore della giurisdizione ad un giudice diverso questa spetta - nell'ambito nel quale opera quella tendenziale espansivita' di cui si e' detto - alla Corte dei conti. Appare del resto questo il senso dell'ulteriore affermazione della Corte costituzionale secondo la quale «a parte la rilevata necessita' della carenza di una diversa disciplina legislativa si rimane sempre nei campo della giurisdizione contabile, come sopra specificata. Trattasi sempre di un limite funzionale alla giurisdizione del giudice ordinario che nell'ordinamento e' il giudice dei diritti soggettivi, tranne le eccezioni legislativamente stabilite» (nuovamente, sent. n. 641 del 1987). Questa conclusione e' stata raggiunta dalla Corte costituzionale all'esito di un processo interpretativo che muove dalla sentenza n. 110 del 1970 nella quale la Corte ha parlato di «principio tendenzialmente generale del secondo comma dell'art. 103 della Costituzione, che non contiene - per questa parte - alcuna riserva di legge e adopera una locuzione ("materie di contabilita' pubblica") anche letteralmente piu' ampia di quella dell'art. 44, primo comma, del T.U. del 1934. Ora, pur senza escludere che l'attuazione concreta del detto principio possa richiedere, in particolari settori, originariamente sottratti alla giurisdizione della Corte dei conti e che presentino aspetti peculiari e differenziati, l'intervento di apposite disposizioni legislative, e' da ritenere che, laddove ricorra identita' oggettiva di materia, e beninteso entro i limiti segnati da altre norme e principi costituzionali, il principio dell'art. 103 conferisca capacita' espansiva alla disciplina dettata dal T.U. del 1934 per gli agenti contabili dello Stato, consentendone l'estensione a situazioni non espressamente regolate in modo specifico». Ne discende, allora, che l'interpositio legislatoris appare declinarsi, nella giurisprudenza della Corte costituzionale, piu' esattamente come possibilita' per il legislatore di enucleare - nell'ambito in cui opera, con carattere tendenzialmente generale, quella giurisdizione della Corte dei conti che funge da limite funzionale alla giurisdizione del giudice ordinario - materie in cui si giustifichi, nei limiti del parametro costituzionale della non manifesta irragionevolezza della scelta legislativa, l'attribuzione della giurisdizione ad un giudice diverso da quello contabile. Se di questa possibilita' il legislatore non fa uso, operera' appunto «la espansione tendenziale della giurisdizione della Corte dei conti, ove sussista identita' di materia e di interesse tutelato ...» (sent. n. 641 del 1987), nei termini specificati dalla citata sentenza n. 385 del 1996. Per quanto qui interessa, in base a tali premesse ritiene questo giudice che la lettura dell'art. 103, comma 2, Cost. affermatasi e consolidatasi nella giurisprudenza della Corte costituzionale escluda la possibilita' di configurare i rapporti fra la giurisdizione del giudice ordinario e quella del giudice contabile in termini di concorrenza. In altri termini, muovendo dalla premessa che - a parita' di materia e di interesse tutelato (nel senso specificato dalla gia' citata sent. n. 385 del 1996) - laddove manchi l'attribuzione da parte del legislatore della giurisdizione ad un giudice diverso questa spetta, nell'ambito in cui opera quella tendenziale espansivita' della quale si e' detto, alla Corte dei conti, ne discende invariabilmente che nei corrispondenti casi non e' rivenibile uno spazio di azione - di tipo concorrente - per un giudice diverso da quello contabile. Il che conduce a riformulare in via ultimativa lo schema concettuale sopra esposto, quale affermatasi nella giurisprudenza della Corte costituzionale, nel senso che - a parita' di materia e di interesse tutelato (nei termini anzidetti) - laddove manchi l'attribuzione da parte del legislatore della giurisdizione ad un giudice diverso da quello contabile questa spetta, nell'ambito in cui opera quella tendenziale espansivita' della quale si e' detto, non gia', semplicemente, alla Corte dei conti, bensi' esclusivamente alla Corte dei conti. 3. - Cio' detto, appare opportuno evidenziare che, per quanto qui interessa, la giurisprudenza della Corte costituzionale ha dapprima (sent. n. 211 del 1972) escluso che l'amministrazione avesse autonomia di decisione nella proposizione delle azioni nei confronti dei propri dipendenti autori di comportamenti fonte di danno, ribadendo il potere del Procuratore generale della Corte dei conti di agire d'ufficio, «essendo ovvio che l'art. 103, comma secondo, della Costituzione, allorche' ha riconfermata, e, secondo quanto si ritiene da molti, anche ampliata, la giurisdizione della Corte dei conti in materia di contabilita' pubblica, ha richiamato tutto l'istituto cosi' come esso era ed e' regolato dalle, norme relative, e nel quadro delle quali l'iniziativa del Procuratore generale si colloca come ovviamente necessaria per evitare lassismi e contrasti di posizioni e di interessi». Indi, con sentenza n. 102 del 1977, la Corte -- di fronte al sospetto di incostituzionalita' della normativa siciliana nell'occasione contestata anche nella parte in cui attribuiva il promuovimento della relativa azione agli organi dell'ente danneggiato o all'autorita' di vigilanza -(anziche' al Procuratore generale della Corte dei conti) - ha dichiarato non fondata la questione prospettata dalla magistratura contabile, escludendo cosi' la assoluta (piuttosto che la tendenziale) generalita' della relativa giurisdizione, e la sua immediata operativita' in tutti i casi, -perche' la Corte dei conti aveva nell'ordinanza di rimessione ritenuto «implicitamente (in contrasto con quanto affermato da questa Corte con la sentenza n. 110 del 1970) che alla sua concreta attuazione anche per particolari settori, originariamente sottratti alla giurisdizione della Corte dei conti, non sia mal necessaria una interpositio legislatoris». Dunque, tanto nella decisione n. 110 del 1970, quanto nella n. 102 del 1977, la necessita' dell'interpositio legislatoris ai fini del radicamento della giurisdizione del giudice contabile viene chiaramente affermata -dalla Corte costituzionale non gia' in assoluto, bensi' con specifico riferimento a particolari ipotesi (rectius, a particolari settori/materie) -«originariamente sottratti alla giurisdizione della Corte dei conti». Il che perfettamente coerente con l'affermazione secondo la quale la giurisprudenza della Corte costituzionale che postula la necessita' dell'interpositio legislatoris ai fini sopra indicati «non e' in contrasto con l'altra di questa stessa Corte (sentt. nn. 110/1970; 68/1971; 211/1972; 102/1977; 241/1984; 53/1985 che ha affermato la espansione tendenziale della giurisdizione della Corte del conti, ove sussista identita' di materia e di interesse tutelato. In carenza di regolamentazione specifica da parte del legislatore che potrebbe anche prevedere la giurisdizione ed attribuirla ad un giudice diverso» (sent. n. 641 del 1987). Conforme a questa linea di tendenza appare peraltro anche la successiva decisione n. 773 del 1988 della Corte costituzionale, secondo la quale «la "tendenziale generalita'" della giurisdizione della Corte dei conti, al di la' dei casi gia' in essa espressamente o istituzionalmente ricompresi, necessita normalmente di apposite previsioni legislative e non puo' sortire un effettivo invalidante di norme che - come nella specie - facciano ricadere la materia nell'ambito della generale giurisdizione del giudice ordinario». Anche in tal caso appare infatti confermato l'ordinamento della Corte costituzionale incline a ritenere necessaria l'interposito legislatoris solamente per attribuire al giudice contabile materie prima attribuite espressamente dalla legge ad un giudice diverso, e non anche per radicare la giurisdizione del primo nelle ipotesi di «carenza di regolamentazione specifica da parte del legislatore», perche' in questa seconda ipotesi e' destinata ad operare la espansione tendenziale della giurisdizione della Corte dei conti, ove sussista identita' di materia e di interesse tutelato, nei termini piu' volte richiamati. Va in proposito evidenziato che, nella vicenda definita con la sentenza n. 773, la Corte dei conti aveva rimesso la questione di legittimita' costituzionale dell'art, 26 c.p.p., che precludeva - nel vigore del «vecchio» c.p.p. - l'azione di responsabilita' amministrativa nei confronti del pubblico dipendente, in presenza del giudicato penale che avesse provveduto alla liquidazione del danno in favore della pubblica amministrazione costituitasi parte civile. L'ordinanza di rimessione prospettava, in particolare, un contrasto tra il menzionato art. 26 c.c.p. e l'art. 489, secondo comma, c.p.p., vecchio testo, a termini del quale, in caso di costituzione di parte civile, il giudice penale decideva sulla liquidazione dei danni «salvo che sia stabilita la competenza di un altro giudice». In questo contesto, nella sentenza n. 773 la Corte costituzionale ha ritenuto che simili norme facessero ricadere la materia nell'ambito della generale giurisdizione del giudice ordinario perche', «come ricorda l'Avvocatura dello Stato, la dottrina ritiene che l'inciso «salvo che sia stabilita la competenza di un altro giudice» si riferisca - come risulta del resto della formulazione letterale - a casi di attribuzione espressa ad un giudice diverso da quello penale dell'esclusiva potesta' di provvedere in ordine alla liquidazione dei danni (es., artt. 373 c.p.m.p., 1246 cid. nav.); cio' che non puo' certo dirsi per la generica previsione di cui all'art. 52 del T.U. n. 1214 del 1934 delle leggi sulla Corte dei conti, che non contiene alcuna espressa disposizione in materia di danno derivante da reato ne' alcuna esplicita deroga alla generale competenza spettante in materia al giudice penale in caso di costituzione di parte civile». In conclusione, ad avviso di questo giudice anche nel caso deciso con la sentenza n. 773 la Corte costituzionale ha fatto puntuale applicazione dell'indirizzo consolidatosi a partire della sentenza n. 110 del 1970, ritenendo che le norme sopraindicate valessero a fondare la giurisdizione del giudice ordinario e che, di contro, in difetto di interpositio legislatoris, non potesse valere ad escludere quella giurisdizione (rectius, a «toglierla» al giudice ordinario per attribuirla a quello contabile) «la generica previsione di cui all'art. 52 del T.U. n. 1214 del 1934 delle leggi sulla Corte dei conti, che non contiene alcuna espressa disposizione in materia di danno derivante da reato ne' alcuna esplicita deroga alla generale competenza spettante in materia al giudice penale in caso di costituzione di parte civile». 4. - Come si e' piu' volte accennato, e' altresi' noto che si e' nel tempo andato consolidando un indirizzo giurisprudenziale delle sezioni unite della Corte di cassazione, alla stregua del quale, con riguardo all'esplicazione della giurisdizione della Corte di conti in materia di responsabilita' contabile, il ricorso alle sezioni unite della suprema Corte, che sia rivolto a denunciare, come ragione preclusiva dell'affermazione di detta responsabilita', la circostanza che la pubblica amministrazione, costituendosi parte civile in sede penale, abbia chiesto ed ottenuto sentenza definitiva di condanna al risarcimento dei danni per il medesimo fatto, deve essere dichiarato inammissibile. Secondo tale indirizzo, siffatta questione non attiene infatti alla sussistenza della giurisdizione della Corte dei conti, ma alla proponibilita' dinanzi ad essa dell'azione di responsabilita', e, quindi, si traduce nella deduzione di un errore in iudicando, esorbitante dalle previsioni degli artt. 111 della Costituzione e 362 c.p.c. (Cass., sez. un., 23 novembre 1999, n. 822; Cass., sez. un., ord. 21 maggio 1991 n. 369), giacche' la giurisdizione penale e quella civile risarcitoria, da un lato, e la giurisdizione amministrativa-contabile, dall'altro, sono reciprocamente indipendenti nei profili istituzionali, anche quando investono un medesimo fatto materiale, dal momento che l'interferenza puo' avvenire tra i giudizi ma non fra le giurisdizioni (Cass. 3 febbraio 1989, n. 664). In altri termini, sempre secondo questo indirizzo, l'impossibilita' di proporre l'azione di responsabilita' esercitabile innanzi alla Corte dei conti per fatti dannosi in conseguenza dell'esercizio, in altra sede, di analoga azione esercitata dalla p.a., sulla quale si sia formato il giudicato, non rileva in termini di riparo di giurisdizione, ma di limiti alla proponibilita' della prima e, quindi concerne la eventuale violazione dei limiti interni della giurisdizione stessa. E in questo contesto, le sezioni unite (sent. n. 4957 del 2005) hanno aggiunto che la tesi secondo la quale la violazione del principio del ne bis in idem potrebbe essere evitata solo ammettendo l'esistenza di una giurisdizione alternativa, non puo' essere seguita, in quanto finisce con il trasformare una questione di merito di conoscibilita' della domanda in una questione di giurisdizione. Sennonche', va evidenziato che questo indirizzo interpretativo delle sezioni unite della Corte di cassazione si fonda, dichiaratamente (v. da ultimo SS.UU., sent. n. 20476 del 2005) ed essenzialmente, su una lettura della sentenza n. 773 del 1988 che finisce con il distorcere l'essenza del principio dell'interpositio legislatoris affermato dalla Corte costituzionale a partire dal 1970 (sent. n. 110). Cio' perche', va ribadito, se si ritiene che la funzione dell'interpositio legislatoris sia quella di attribuire al giudice contabile una materia sino a quel momento devoluta ad un giudice diverso, appare a questo giudice implausibile che, una volta operata l'interpositio, possa continuare a sopravvivere una giurisdizione di tipo concorrente del giudice diverso sino a quel momento competente. Simmetricamente, nelle ipotesi di «carenza di regolamentazione specifica da parte del legislatore», e' implausibile che l'operare della espansione tendenziale della giurisdizione del giudice contabile, a parita' di materia e di interesse tutelato, possa convivere con una giurisdizione di tipo concorrente esplicabile da un giudice diverso. In altri termini, e' proprio la riconosciuta necessita' dell'interpositio legislatoris al fine di attribuire al giudice contabile una materia sino a quel momento devoluta ad un giudice diverso che fa fede (una volta operata l'interpositio) dell'esclusivita' della rispettiva, giurisdizione e dell'impossibilita', a parere di questa sezione, di risolvere la questione sotto il profilo della mera proponibilita' o improponibilita' della domanda da parte del p.m. contabile una volta che la «Pubblica amministrazione, costituendosi parte civile in sede penale, abbia chiesto ed ottenuto sentenza definitiva di condanna al risarcimento dei danni per il medesimo fatto». E' infatti evidente che ritenere, secondo l'orientamento delle sezioni unite, che l'eventuale formazione del giudicato sulla domanda civile proposta in sede penale renda improponibile l'azione erariale da parte del p.m. contabile, significa - come si e' accennato in principio - ammetterne viceversa la proponibilita' prima di quel momento, e, quindi, la concorrenza rispetto all'azione civile esercitabile dinanzi al giudice ordinario dall'amministrazione pubblica danneggiata 5. - Ritiene inoltre questo giudice di dover aggiungere che la decisione n. 773 del 1998 e' stata adottata con riferimento ad un quadro normativo profondamente differente da quello attuale, in particolare con riferimento alla disciplina del processo penale, la cui disciplina e' come noto mutata nel 1989. Allo stato delle cose, vale a dire con riferimento al vigente c.p.p., del «vecchio» art. 26 c.p.p., che - in quanto preclusivo dell'azione di responsabilita' amministrativa nei confronti del pubblico dipendente, in presenza del giudicato penale che avesse provveduto alla liquidazione del danno in favore della pubblica amministrazione costituitasi parte civile - aveva data occasione al giudizio definito dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 377 del 1988, non vi e' piu' traccia. Sopravvive, ma non piu' in combinazione con la prima norma, il «vecchio» art. 489, secondo comma (ora 538, comma 2), a termini del quale, in caso di costituzione di parte civile, il giudice penale decideva sulla liquidazione dei danni «salvo che sia stabilita la competenza di un altro giudice». Sicche', seguendo l'indirizzo ribadito anche con tale ultima decisione dalla Corte costituzionale, secondo il quale, per un verso, l'interpositio legislatoris e' necessaria per attribuire al giudice contabile una materia sino a quel momento devoluta ad un giudice diverso, e, per altro verso, laddove manchi l'attribuzione da parte del legislatore della giurisdizione ad un giudice diverso questa spetta, nell'ambito nel quale vi e' quella tendenziale espansivita' di cui si e' detto, alla Corte dei conti, sembra a questo giudice che gia' nella mancata riproduzione del «vecchio» art. 26 nel vigente c.p.p., possa ravvisarsi un preciso indizio dell'avvento, con l'entrata in vigore del «nuovo» c.p.p., dei presupposti richiesti dal giudice delle leggi per affermare la giurisdizione del giudice contabile. Indizio, quello appena indicato, che ad avviso di questa sezione trova piena conferma, nella sistematica del «nuovo» c.p.p., nella circostanza rappresentata dall'introduzione ex novo di una disposizione, l'art. 129 disp. att., il cui terzo comma dispone che «quando esercita l'azione penale per un reato che ha cagionato un danno per l'erario, il pubblico ministero informa il procuratore generale presso la Corte dei conti, dando notizie della imputazione». Ritiene infatti questo giudice che siffatta disposizione deponga chiaramente nel senso di quella non concorrenza fra giurisdizione del giudice contabile e giurisdizione del giudice ordinario (ai fini dell'esercizio dell'azione civile nel processo penale da parte dell'amministrazione danneggiata per effetto di comportamenti costituenti reato) che il principio dell'interpositio legislatoris invariabilmente presuppone. Ancora, l'art. 7 della legge n. 97 del 2001 stabilisce che «la sentenza irrevocabile di condanna pronunciata nei confronti dei dipendenti indicati nell'art. 3 per i delitti contro la pubblica amministrazione previsti nel capo I del titolo II del libro secondo del codice penale e' comunicata al competente procuratore regionale della Corte dei conti affinche' promuova entro trenta giorni l'eventuale procedimento di responsabilita' per danno erariale dei confronti del condannato. Resta salve quanto disposto dall'art. 129 delle norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale, approvate con decreto legislativo 28 luglio 1989, n. 271». Ritiene questo Giudice che, anche ove nella mancata riproduzione del «vecchio» art. 26. c.p.p., unitamente all'introduzione nel nuovo c.p.p. del citato art. 129 disp. att., non venisse ravvisata l'interpositio legislatoris necessaria a produrre quell'«effetto invalidante di norme che... facciano ricadere la materia nell'ambito della generale giurisdizione del giudice ordinario» di cui alla sentenza n. 773 dei 1988, certamente l'interpositio andrebbe ravvisata nell'art. 7 della legge del 2001. Considerato, infatti, che detta norma si cura di coordinarsi anche al gia' citato art. 129 disp. att. c.p.p., appare evidente che un sistema nel quale i p.m. penale e' tenuto a informare il p.m. contabile all'atto dell'esercizio dell'azione penale, e in cui - per tutti i delitti contro la pubblica amministrazione previsti nel capo I del titolo Il del libro secondo del codice penale - la sentenza irrevocabile di condanna pronunciata in sede penale nei confronti di dipendenti pubblici va comunicata al competente procuratore regionale della Corte dei conti affinche' promuova entro trenta giorni l'eventuale procedimento di responsabilita' per danno erariale (indistintamente inteso) nei confronti del condannato, risulta del tutto incompatibile con la possibilita', per l'amministrazione danneggiata, -di costituirsi parte civile nel processo penale, e, quindi, con l'esistenza, ai riguardo, di una giurisdizione concorrente del giudice ordinario. Infatti, se davvero esistesse una giurisdizione concorrente del giudice -ordinario tale da consentire la delibazione in sede penale dell'azione civile che fosse stata ivi proposta, l'art. 7 della legge del 2001 finirebbe per risultare in concreto applicabile non gia', come sembrerebbe ragionevole ritenere giusta il suo chiaro tenore, alla generalita' dei casi, bensi' a quelli soli nei quali l'azione civile non fosse stata esercitata o su di essa, pur proposta, il giudice penale non si fosse potuto pronunciare (v. sent. n. 443 del 1990 della Corte costituzionale, laddove si e' altresi' puntualizzato che «come piu' volte sottolineato nei confronti del codice di procedura penale dei 1930. e come deve dirsi a maggior ragione nei confronti dei nuovo codice, "l'azione di restituzione o risarcitoria ha carattere accessorio e subordinato rispetto all'azione penale, sicche' essa subisce tutte le conseguenze derivanti dalla funzione e struttura del processo penale", con una subordinazione che si realizza, fra l'altro, "con la prevalenza data del legislatore, nell'interesse pubblico e dell'imputato, all'esigenza di una rapida conclusione del processo penale"»). In questo quadro, va evidenziato anche che l'art. 129 disp. att. c.p.p. vigente non ha stabilito genericamente che il p.m. penale e' tenuto a informare quello contabile, bensi' che deve farlo all'atto stesso dell'esercizio dell'azione penale, e' cioe' in un momento dopo il quale soltanto, nei casi in cui risulta ammissibile, e' tecnicamente possibile la costituzione di parte civile. In tale prospettiva, la coeva comunicazione che il p.m. penale, ai sensi del primo comma del citato art. 129, e' tenuto a fare all'amministrazione di appartenenza si spiega, come conferma chiaramente la comunicazione - aggiuntiva - dovuta al comitato parlamentare per i servizi di informazione e sicurezza e per il segreto di Stato nel caso di reati commessi da personale dipendente dai servizi per le informazioni e la sicurezza militare o democratica, all'evidente scopo di consentire l'esercizio delle attribuzioni (segnatamente, di ordine disciplinare, come vale a chiarire la stessa intitolazione della legge n. 97 del 2001) previste dai rispettivi ordinamenti. Altro sarebbe, invece, ritenere che - in dispregio alle piu' elementari ragioni di economia processuale - la comunicazione al p.m. contabile, da un lato, e all'amministrazione di appartenenza, dall'altro lato, e all'amministrazione di appartenenza, dall'altro lato, tenendo proprio a consentire (nel secondo caso, attraverso la costituzione di parte civile) la possibile pendenza di due distinti giudizi, l'uno in sede penale e l'altro in sede contabile, contro le stesse persone, per i medesimi fatti. Cio' anche perche', una volta ammessa la possibilita' di una loro contemporanea pendenza, ne deriva come gia' si e' osservato che uno dei due - e in particolare, quello che termina per secondo - e' destinato invariabilmente a rivelarsi inutilmente svolto, giusta la sua improcedibilita' una volta che si sia formato il giudicato nell'altro. Anzi, poiche' - nella logica della concorrenza delle giurisdizioni - non si puo' neppure escludere che, nel lasso di tempo che separa l'emanazione della sentenza definitoria del giudizio che si conclude per primo dal suo passaggio in giudicato, vada in decisione l'altro giudizio, si potrebbe avere, con riferimento a quest'ultimo, persino una sentenza destinata a rimanere inseguita perche' ineseguibile (in questa ipotesi, infatti, le categorie processuali della improponibilita' e della improcedibilita' non sarebbero confacenti). Del resto, va altresi' ricordato che se l'azione civile esperibile nel processo penale e' la stessa che si sarebbe potuta esercitare in sede civile, tanto da rendere appunto necessaria la sospensione di cui all'art. 75, comma 3, c.p.p., testo vigente, le sezioni unite della Corte di cassazione (fra le piu' recenti, sent. nn. 933 del 1999 e 15288 del 2001) hanno in piu' occasioni escluso che l'amministrazione pubblica danneggiata possa esercitare l'azione civile in sede civile contro i proprio dipendenti autori del danno, in base all'argomento che la Corte dei conti ha, in materia, «giurisdizione esclusiva». In particolare, secondo la sentenza n. 933 del 1999, «se si tiene conto che costituisce principio pacifico che la giurisdizione della Corte dei conti e' esclusiva, nel senso che e' l'unico organo giudiziario che puo' decidere nelle materia devolute alla sua cognizione, ne consegue che va esclusa una concorrente giurisdizione del giudice ordinario, adito secondo le regole normali applicabili in tema di responsabilita' e di rivalsa». Trattandosi allora della medesima azione civile, se essa non viene considerata esperibile in sede civile in ragione dell'esclusivita' della giurisdizione del giudice contabile, questo giudice ritiene implausibile una diversa conclusione sol che la stessa azione venga invece esercitata, come nella specie, in sede penale. 6. - Ancora, nel senso dell'esclusivita' della giurisdizione contabile appare per vero militare, indirettamente, anche la recente disposizione contenuta nell'art. 1, comma 174, della legge n. 266 del 2005, in base alla quale «al fine di realizzare una piu' efficace tutela dei crediti erariali, l'art. 26 del regolamento di procedura di cui al regio decreto 13 agosto 1933, n. 1038, si interpreta nel senso che il procuratore regionale della Corte dei conti dispone di tutte le azioni a tutela delle regioni del creditore previste dalla procedura civile, ivi compresi i mezzi di conservazione della garanzia patrimoniale di cui al libro VI, titolo III, capo V, del codice civile». La norma conferma il potere del p.m. contabile (gia' ricavabile in rinvio dinamico di cui all'art. 26 del r.d. n. 1038) di esercitare le azioni surrogatoria e revocatoria, oltre che il sequestro conservativo, il quale rappresenta come noto l'ulteriore mezzo «di conservazione della garanzia patrimoniale di cui al libro IV, titolo III, capo V, del codice civile». Gia' con l'art. 5, comma 2, della legge n. 19 del 1994 il legislatore aveva richiamato in modo espresso la possibilita' per il p.m. contabile di agire per ottenere il sequestro conservativo, anche ante causam, dei beni del presunto responsabile di un danno erariale, e poiche' detto sequestro viene come noto disposto con decreto della competente sezione giurisdizionale della Corte dei conti, e' successivamente convalidato in sede monocratica dal giudice contabile e si converte in pignoramento in caso di decisione di condanna da parte della suddetta sezione, ne discende che - anche prima dell'avvento dell'art. 1, comma 174, della legge n. 266 - vi era gia' un caso nel quale il procuratore regionale della Corte dei conti disponeva (anche espressamente), fra le azioni a tutela delle ragioni del creditore previste dalla procedura civile, dei mezzi di conservazione della garanzia patrimoniale di cui al libro VI, titolo III, capo V, del codice civile. Da questo punto di vista, la circostanza della devoluzione (gia' disposta dal legislatore, e quindi ora solamente confermata dalle nuove disposizioni, in parte qua) al giudice contabile della cognizione della domanda di sequestro conservativo avanzata dal p.m. contabile ex art. 5, comma 2, legge n. 19 del 1994 renderebbe singolare e incoerente un esito diverso con riferimento alla cognizione delle domande proposte dal p.m. contabile in qualita' di titolare dell'azione surrogatoria e di quella revocatoria, oltre che di quella erariale. Anch'esse, dunque, vanno proposte dinanzi alla sezione giurisdizionale della Corte dei conti volta per volta competente. Cosi' stando le cose, l'art. 1, comma 174, della legge n. 266 del 2005 sembra a questo giudice confermare che il potere di adire l'autorita' giudiziaria per chiedere l'accertamento della responsabilita' per danno erariale, la conseguente condanna dei soggetti riconosciuti responsabili e, a garanzia dell'effettivita' della condanna, anche la conservazione della garanzia patrimoniale, non competa all'amministrazione danneggiata bensi' ad un organo pubblico appositamente costituito, la Procura presso la Corte dei conti. Del resto, anche di recente la Corte costituzionale ha ribadito la rilevanza delle facolta' processuali esperibili dal giudice contabile, osservando che «nella disciplina generale della responsabilita' amministrativa i profili sostanziali sono strettamente intrecciati con i poteri che la legge attribuisce al giudice chiamato ad accertarla...» (sent. n. 345 del 2004). L'art. 1, comma 174, della legge n. 266 del 2005 tende cioe', ad avviso di questo Giudice, a confermare in via ulteriore quel fenomeno di scissione in base al quale, una volta verificatosi un danno erariale, se l'amministrazione e' titolare del diritto sostanziale di credito (indisponibile, in ragione della necessaria integrita' della finanza pubblica), non lo e' invece delle relative facolta' processuali (essenzialmente, il diritto di azione, esperibile anche ai fini della conservazione della garanzia patrimoniale), il cui esercizio e' rimesso dalla legge ad un organo pubblico appositamente costituito, la Procura presso la Corte dei conti. 7. - Questa Sezione non ignora che la Corte costituzionale ha avuto ripetutamente occasione di affermare il giudice e' abilitato a sollevare la questione di legittimita' costituzionale solo dopo avere accertato che e' impossibile eseguire una interpretazione costituzionale corretta con riferimento ad una determinata norma. Parimenti, questo giudice non ignora che secondo la Corte costituzionale rimane «incompiuto quel doveroso tentativo di ricercare un'interpretazione adeguatrice del testo di legge denunciato, al quale ciascun giudice e', comunque, tenuto prima di proporre l'incidente di costituzionalita» quando il giudice rimettente omette qualsiasi motivazione circa l'impossibilita' di seguire una interpretazione idonea ad attribuire alla norma censurata il significato che egli ritiene conforme a Costituzione (ord. n. 208 del 2003), oppure quando risulti indimostrata la giurisprudenza contraria all'interpretazione ritenuta conforme a Costituzione dal giudice a quo (ord. n. 107 del 2003) oppure, ancora, quanto, nella doverosa esplorazione della possibilita' di pervenire, in via interpretativa, alla soluzione che egli ritiene conforme a Costituzione, il giudice rimettente non prenda in considerazione altri orientamenti della giurisprudenza di legittimita' che gli avrebbero consentito di interpretare la disciplina censurata in modo, appunto, conforme a Costituzione (ord. n. 19 del 2003). Sennonche', nessuna di queste ipotesi appare ricorrente nel caso di specie, giacche' il «diritto vivente» che osta all'interpretazione dell'art. 75, comma 3, c.p.p. ritenuta da questo giudice conforme a Costituzione, e in particolare conforme alla lettura che dell'art. 103, comma 2, da' la Corte costituzionale, e' il consolidato indirizzo delle stesse sezioni unite della Corte di cassazione, cioe' dell'organo giudiziario regolatore della giurisdizione all'interno del nostro sistema. Da tale punto di vista, ritiene questo giudice di aver assolto il proprio obbligo di motivazione sulla esistenza e definizione del «diritto vivente» contrario all'interpretazione del primo ritenuta conforme a Costituzione, mancando nella specie in radice la possibilita' di rifarsi ad un diverso orientamento giurisprudenziale, ancorche' minoritario, con riferimento, specificamente, al carattere concorrente - rispetto all'azione erariale intestata al p.m. contabile - dell'azione civile esercitata nel processo penale. 8. - Per le ragioni sin qui esposte, questa sezione - ritenuto di dover applicare al caso di specie l'art. 75, comma 3, c.p.p., testo vigente, onde uniformarsi al principio di concorrenza, e, quindi, di sostanziale fungibilita' delle giurisdizioni ordinaria e contabile (affermato dal giudice regolatore della giurisdizione in caso di danno erariale derivante da reati attribuibili a pubblici dipendenti), quale ineluttabilmente presupposto dal criterio della proponibilita' dell'azione erariale in presenza del giudicato penale anche sulla domanda civile - e dubitando tuttavia della legittimita' costituzionale di questa norma, cosi' intesa, alla luce dell'art. 103 Cost. secondo comma, rimette d'ufficio alla Corte costituzionale la conseguente valutazione. Piu' specificamente, questo giudice rimette d'ufficio la questione, nei termini sopra prospettati, affinche' la Corte costituzionale, tenuto conto di quanto disposto dall'art. 103, secondo comma, Cost., si pronunci sulla illegittimita' costituzionale dell'art. 75, comma 3, c.p.p. nella parte in cui - applicato in conformita' al piu' volte richiamato indirizzo interpretativo fatto proprio dalle sezioni unite della Corte di cassazione - comporta la sospensione del processo contabile insaturato, nei confronti delle medesime persone, per i medesimi fatti, dopo l'emanazione della sentenza penale di primo grado che abbia pronunciato sulla domanda civile proposta in quella sede. Tanto premesso, va disposta la sospensione del presente giudizio e la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale, ritenendosi rilevante e non manifestamente infondata la suesposta questione di costituzionalita'. Manda alla segreteria per gli adempimenti di competenza ai casi dell'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87.