LA CORTE DEI CONTI

    Visti  il regio decreto 13 agosto 1933, n. 1038, il decreto-legge
15 novembre  1993,  n. 453,  convertito  dalla legge 14 gennaio 1994,
n. 19 e la legge 14 gennaio 1994, n. 20;
    Visti gli atti ed i documenti di causa;
    Uditi  nella  pubblica  udienza  del  giorno  10 novembre 2005 il
relatore,  dott.  Massimiliano  Atelli,  l'avv.  Mario  Viviani ed il
pubblico  ministero  rappresentato  in  udienza  dal Vice Procuratore
generale dott. Gaetano Berretta;
    Ha  pronunciato  la  seguente  ordinanza nel giudizio iscritto al
n. 22911   del  registro  di  segreteria  su  istanza  della  Procura
regionale, contro Facchini Carlo, nato a Campione il 20 agosto 1941 e
residente  in  Cantello  (Varese),  via  Mazzini, n. 5, elettivamente
domiciliato  in  Milano, galleria San Babila n. 4/A, presso lo studio
dell'avv.  Mario  Viviani  che  lo  rappresenta  e difende con l'avv.
Angela Sarli, giusta delega.

                              F a t t o

    Con  atto  di  citazione  depositato  in  data 1° giugno 2005, la
Procura  attrice  conveniva  innanzi a questa sezione Facchini Carlo,
nato  a  Campione il 20 agosto 1941 e residente in Cantello (Varese),
via  Mazzini, n. 5, elettivamente domiciliato in Milano, galleria San
Babila  n. 4/A  presso  io  studio  delIavv.  Mario  Viviani  che  lo
rappresenta  e  difende  con  l'avv.  Angela  Sarli,  giusta  delega,
deducendo  quanto  segue: a) che, sulla scorta di indagini effettuate
dalla  Procura  della  Repubblica  di  Varese, e in particolare delle
dichiarazioni  (anche  dello  stesso Facchini) raccolte nel corso dei
conseguenti  interrogatori,  era emerso che il convenuto, in qualita'
di  Presidente  del  Consorzio  interprovinciale  per  la tutela e la
salvaguardia delle acque del lago di Varese, si era reso responsabile
del  reato  di corruzione propria continuata e aggravata in danno del
medesimo  Consorzio,  consumato in Varese dal 1982 al 1992 percependo
somme  non  dovute,  in qualita' di pubblico ufficiale nell'esercizio
delle  proprie  funzioni, al fine di compiere atti contrari ai doveri
d'ufficio;  b)  che  per  i fatti descritti, in sede penale, e' stata
emessa sentenza di condanna nei confronti del convenuto con decisione
del  Tribunale  di  Varese  14 maggio  2002, n. 388, avverso la quale
pende  attualmente l'appello dinanzi alla Corte di appello di Milano;
c)  che  la  condotta del convenuto avrebbe arrecato un ingente danno
erariale,  quantificabile  in complessivi euro 557.773,45 a titolo di
danno   all'immagine  ed  al  prestigio  del  Consorzio;  c)  che  le
giustificazioni  fornite  dal  convenuto  in  riscontro al notificato
invito a dedurre non avevano escluso l'ipotizzato danno erariale.
    In  particolare,  deduceva la Procura attrice che il convenuto si
sarebbe fatto fittiziamente assumere nel 1985 - grazie all'intervento
degli  esponenti  politici Rezzonico e Di Luccio - come dipendente da
Marchelli   Piero,   Pisante   Ottavio  e  Giuseppe  e  Zocchi  Aldo,
amministratori della Sogeiva S.p.A. e di societa' collegate al gruppo
Acqua,  ricevendone a titolo di retribuzione circa 60 milioni di lire
annui  e  ricevendo  dal  Marchelli, per il tramite del Di Luccio, un
contributo annuo di circa 150 milioni di lire, per due annualita', in
cambio  del  suo  intervento  volto  a  influire  sul conferimento di
incarichi   professionali,   di  appalti  di  lavori  pubblici  e  di
concessioni  della  gestione degli impianti a favore del gruppo Acqua
da parte dei Consorzi ecologici.
    Per conseguenza, l'attrice Procura regionale chiedeva la condanna
del  convenuto  al pagamento della somma di euro 557.773,45, a titolo
di      risarcimento     del     procurato     danno     all'immagine
dell'amministrazione,  oltre  rivalutazione, interessi legali e spese
di giudizio.
    In  data  19  ottobre  1995, il Consorzio interprovinciale per la
tutela e la salvaguardia delle acque del lago di Varese si costituiva
parte  civile  nel  processo  penale di primo grado conclusosi con la
sopra  indicata  sentenza di condanna emessa dal Tribunale di Varese,
la   quale   statuiva  anche  sulle  richieste  della  parte  civile,
accogliendole, con rinvio a separata sede per la liquidazione.
    Con  atto  depositato  in  data 17 ottobre 2005, si costituiva il
convenuto,  che  in  data  20 ottobre  2005  faceva pervenire memoria
difensiva. In particolare, la difesa del convenuto instava:
        per  la declaratoria di inammissibilita' dell'azione erariale
(o, in via subordinata, per la sospensione del presente giudizio sino
alla  definizione  dell'appello pendente in sede penale), giacche' in
sede  di  costituzione di parte civile il Consorzio specifico' che la
sua  iniziativa  era  indirizzata  ad ottenere la rifusione anche del
danno  derivante  dalla  grave  lesione  della  sua immagine, sicche'
ritenere  procedibile  l'azione  pubblica  di  responsabilita'  in un
simile caso significherebbe violare la regola del ne bis in idem;
        in via subordinata, per la nullita' assoluta della citazione,
che  sarebbe a suo dire assolutamente generica, non specificando essa
ne'  quali  incarichi  sarebbero specificamente in contestazione, ne'
quali  Consorzi  ecologici  li  avrebbero  affidati (tenuto conto del
fatto  che  il  convenuto  ha  ricoperto  cariche  nel solo Consorzio
interprovinciale per la tutela e la salvaguardia delle acque del lago
di   Varese)   ne'   motivando   in   ordine   alla   quantificazione
dell'addebito;
        in    via   subordinata,   per   l'intervenuta   prescrizione
dell'azione erariale, anche alla luce dell'indirizzo fatto proprio da
talune  sentenze  di  appello  di  questa Corte in punto di efficacia
interruttiva    e/o   sospensiva   della   decorrenza   del   termine
prescrizionale;
        in  via  subordinata,  per  l'assoluzione  del  convenuto, in
considerazione  dell'asserita insussistenza, e comunque del carattere
indimostrato,  tanto  del  danno all'immagine per cui e' causa quanto
della condotta illecita del convenuto che ne sarebbe stata la causa;
        in  via  ulteriormente  gradata,  per un ampio uso del potere
riduttivo intestato a questa Corte, all'udienza del 10 novembre 2005,
il  rappresentante  dell'accusa  insisteva  per  la  declaratoria  di
inammissibilita'  dell'azione  erariale  (o,  in  via subordinata, di
sospensione  del presente giudizio sino alla definizione dell'appello
pendente  in  sede  penale),  perche'  ritenere  procedibile l'azione
pubblica di responsabilita' nel presente caso significherebbe violare
la regola del ne bis in idem.
                            D i r i t t o
    1.  -  La  difesa  del  convenuto  ha  dedotto  in via principale
l'inammissibilita'  dell'atto di citazione (o, in via subordinata, la
sospensione  del presente giudizio sino alla definizione del giudizio
contemporaneamente  pendente  in  sede  penale,  per  quanto  consta,
dinanzi al giudice di secondo grado), per essere stato questo emanato
nonostante la gia' intervenuta condanna, emessa dal giudice penale di
primo  grado,  al risarcimento del danno in favore della parte civile
Consorzio  interprovinciale  per  la  tutela  e la salvaguardia delle
acque del lago di Varese.
    La  deduzione  difensiva  riveste,  ai fini della definizione del
presente giudizio, carattere pregiudiziale.
    In  proposito,  va  evidenziato  che,  per  un  verso, in sede di
costituzione  nel  processo  penale  in  qualita' di parte civile, il
sopraindicato  Consorzio  ha  effettivamente  chiesto il risarcimento
anche  del  danno  asseritamene  subito  per  la  grave lesione della
propria  immagine  cagionata dai fatti per cui e' causa, e, per altro
verso,  l'azione  pubblica erariale e' stata esercitata al solo fine,
secondo  quanto risulta dall'atto di citazione, della riparazione del
danno all'immagine ritenuto subito dall'amministrazione.
    Il   giudice  penale  ha  condannato  in  quella  sede  l'odierno
convenuto  al  pagamento  di  un risarcimento - in favore del ridetto
Consorzio - la cui liquidazione ha pero' rinviato a separata sede. Il
rinvio  alla  separata sede per la liquidazione e' stato disposto dal
giudice   penale  indistintamente,  e  quindi,  deve  ritenersi,  non
soltanto  con  riferimento  alla  quota  del  risarcimento  del danno
riferibile  alla  lamentata  -  dal  Consorzio  anzidetto  -  lesione
dell'immagine   dell'amministrazione,  ma  anche  con  riguardo  alla
residua  quota, inerente al danno patrimoniale asseritamente arrecato
dall'odierno convenuto.
    Reputa  questo  giudice  che nello specifico caso sopra indicato,
alla  luce  dell'indirizzo  consolidatosi  nella giurisprudenza delle
sezioni  unite  della  Corte  di cassazione in ordine ai rapporti fra
giudizi  di  competenza  del  giudice  ordinario e quelli devoluti al
giudice  contabile,  si  applichi  l'art. 75,  comma 3, c.p.p., testo
vigente, in base al quale «se l'azione e' proposta in sede civile nei
confronti  dell'imputato  dopo  la  costituzione  di parte civile nel
processo penale o dopo la sentenza penale di primo grado, il processo
civile  e' sospeso fino alla pronuncia della sentenza penale non piu'
soggetta a impugnazione, salve le eccezioni previste dalla legge», di
tal  che  il  presente  giudizio,  promosso in sede contabile dopo la
sentenza penale di primo grado, dovrebbe essere sospeso.
    Ritiene  questo  giudice  che  l'art. 75,  comma 3, c.p.p. assuma
rilevanza nel caso di specie, perche' obbliga a sospendere il diverso
giudizio (instaurato per secondo) nel quale si faccia valere l'azione
risarcitoria  su  cui  si  sia  gia' pronunciato il giudice penale di
primo  grado dinanzi al quale sia stata proposta azione civile contro
gli autori dei medesimi fatti, fonte di danno, costituenti reato.
    L'art.  75,  comma 3, c.p.p., testo vigente, vincola infatti alla
sospensione del giudizio civile instaurato dopo la sentenza penale di
primo  grado che abbia pronunciato anche sulla domanda civile in esso
proposta,  giacche'  -  evidentemente - l'azione esperibile nelle due
sedi e' la medesima e si intende in tal modo evitare una duplicazione
di  giudizi (quello civile, per un verso, e quello penale nella parte
relativa  alla  domanda civile, per altro verso). Sennonche', poiche'
le    Sezioni    Unite    reputano    che    l'esercizio   da   parte
dell'amministrazione  danneggiata  dell'azione  civile in sede penale
escluda  la  proponibilita',  una  volta formatosi il giudicato sulla
prima, dell'azione di responsabilita' esercitabile innanzi alla Corte
dei conti per danno erariale, ne deriva che - in casi come quello per
cui  e'  causa  -  ammettere la procedibilita' di quest'ultima azione
(dopo  che nel definire il processo penale di primo grado il relativo
giudice   abbia  pronunciato  anche  sulla  domanda  civile  in  esso
proposta)  comporterebbe  parimenti un problema di duplicazione della
prima  azione.  Cosi'  stando  le  cose,  ritiene  questo  giudice di
trovarsi  nell'impossibilita'  di  sottrarsi  -  nel caso di specie -
all'applicazione dell'art. 75, comma 3, c.p.p., testo vigente.
    Secondo  questa  sezione,  cioe',  se - come ritengono le sezioni
unite   -   l'esercizio  da  parte  dell'amministrazione  danneggiata
dell'azione  civile  in  sede  penale  rende improponibile, una volta
formatosi  il  giudicato  sulla  prima,  l'azione  di responsabilita'
esercitabile  innanzi alla Corte dei conti per danno erariale, allora
l'esercizio  dell'azione  civile  in  sede penale di cui all'art. 75,
comma 3,  c.p.p.  vincola  inevitabilmente,  una volta intervenuta la
sentenza  penale  di  primo  grado  che abbia pronunciato anche sulla
domanda  civile,  alla  sospensione  non soltanto del giudizio civile
instaurato   dopo  la  sentenza  penale  di  primo  grado  che  abbia
pronunciato  sulla  domanda  civile  in  esso  proposta, ma anche del
giudizio  di  responsabilita'  instaurato (parimenti dopo la sentenza
penale  di  primo  grado  che  abbia  pronunciato  su quella domanda)
innanzi alla Corte dei conti per danno erariale.
    Va in proposito notato che, come meglio si vedra' nel seguito, le
Sezioni   unite   della   Corte  di  cassazione  ricollegano  la  non
proponibilita'   dell'azione   erariale   solamente   alla   sentenza
definitiva  di  condanna  al  risarcimento  dei danni per il medesimo
fatto   che   venga  emessa  dal  giudice  penale  davanti  al  quale
l'amministrazione danneggiata si sia costituita parte civile. Da cio'
deriva che, sino al momento del passaggio in giudicato della sentenza
del  giudice  penale,  per  il giudice regolatore della giurisdizione
l'azione intestata al p.m. contabile resta proponibile. Tuttavia, una
volta che quest'ultima sia stata proposta (dopo la sentenza penale di
primo  grado),  ritiene  questo giudice che il processo contabile, in
applicazione  dell'art. 75,  comma 3,  c.p.p.,  testo  vigente,  vada
sospeso  (divenendo  l'azione erariale, in base a quest'ultima norma,
improcedibile).
    Detto  altrimenti,  se, come affermano le sezioni unite, l'azione
erariale  non  e' (neppure) proponibile (solo) una volta formatosi il
giudicato  sulla  sentenza  penale  che abbia pronunciato anche sulla
domanda  civile  proposta  in  quella sede, medio tempore la prima va
considerata evidentemente proponibile e procedibile. Sennonche' - una
volta  intervenuta la decisione penale di primo grado che, in via non
definitiva, abbia pronunciato sulla domanda civile proposta in quella
sede  -  il  processo  contabile cosi' instaurato va sospeso ai sensi
dell'art. 75,  comma 3, c.p.p., perche' Il rischio di duplicazione e'
lo  stesso  che  si  da'  fra l'azione civile esercitata nel processo
penale   e   quella   invece  esercitata  nel  processo  civile  dopo
l'emanazione   della   sentenza  penale  di  primo  grado  che  abbia
pronunciato sulla domanda civile proposta in quella sede.
    Nei  due casi, ove non esistesse (o si ritenesse non applicabile)
l'art. 75,  comma  3,  c.p.p.,  il  principio di economia processuale
risulterebbe  infatti egualmente vulnerato, poiche' il convenuto (con
la  domanda  civile  nel  processo  penale e, contemporaneamente, con
l'atto  di  citazione  nel  processo  contabile)  sarebbe  esposto al
rischio  di  doversi  difendere  in  due sedi distinte, dinanzi a due
giudici  diversi,  per  i  medesimi fatti. Rischio, questo, aggravato
dalla  circostanza che l'esercizio del diritto di difesa in una delle
due  sedi  potrebbe  persino  rivelarsi  inutile,  qualora  - secondo
l'orientamento  delle  sezioni  unite  -  l'azione  erariale  venisse
proposta,   ad  esempio,  prima  del  passaggio  in  giudicato  della
decisione penale di secondo grado che abbia pronunciato sulla domanda
civile  proposta, dall'amministrazione danneggiata in quella sede. Se
infatti  -  in  questo contesto - l'azione erariale fosse considerata
realmente  procedibile,  a dispetto dell'art. 75, comma 3, c.p.p., lo
svolgimento  del  processo,  contabile  (rectius  di  una  parte  del
processo contabile) fra il momento in cui detta azione viene proposta
e  quello  (successivo) in cui diviene definitiva la decisione penale
di   secondo   grado  che  pronunci  sulla  domanda  civile  proposta
dall'amministrazione  danneggiata  in quella sede (con la conseguente
improcedibilita'  dell'azione erariale) determinerebbe il paradossale
effetto di un'inutile attivazione dell'organizzazione giudiziaria con
accollo alla parte privata di oneri difensivi duplicati.
    Questa  conclusione  e'  il  precipitato  naturale dell'indirizzo
fatto  proprio  dal giudice regolatore della giurisdizione secondo il
quale  la  formazione  dei giudicato sulla decisione penale che abbia
pronunciato   sulla   domanda  civile  proposta  dall'amministrazione
danneggiata   in   quella   sede   impedisce   perfino   la   (stessa
proponibilita'  dell'azione erariale: ove siffatto giudicato si formi
dopo la - anziche' prima della - proposizione dell'azione erariale da
parte  del  p.m.  contabile,  quella «non proponibilita» deve infatti
evidentemente  declinarsi  come  «non  procedibilita» di quest'ultima
azione.
    Cio' premesso, ove si ritenesse inapplicabile l'art. 75, comma 3,
c.p.p.  a casi come quello per cui qui e' causa, dalle considerazioni
che  precedono deriverebbe una situazione paradossale di questo tipo:
mentre  il  giudizio  contabile  (instaurato  per  secondo)  potrebbe
svolgersi  anche  inutilmente sino al momento in cui sopravvenisse il
giudicato  sulla  decisione  del  giudice  penale  dinanzi  al  quale
l'amministrazione  danneggiata  abbia  proposto  la  relativa  azione
civile  (giacche'  sola  a  partire da quei momento l'azione erariale
dovrebbe  ritenersi  improcedibile,  seguendo  il  ragionamento delle
sezioni   unite),  l'identico  rischio  di  inutile  svolgimento  del
processo civile in cui venisse proposta la stessa azione risarcitoria
sulla quale il giudice penale si fosse gia' pronunciato con decisione
di  primo  grado  sarebbe  ab imis scongiurato dall'art. 75, comma 3,
c.p.p.
    Dal  punto  di  vista  del  giudizio  contabile  (instaurato  per
secondo);   il   suo   inutile  svolgimento  avverrebbe,  si  ripete,
evidentemente a danno della parte privata convenuta nei due giudizi e
della stessa amministrazione della giustizia.
    Cio'  premesso,  presupponendo  un  rapporto  di  concorrenza fra
azioni  risarcitarie  omogenee  proposte in sedi distinte, l'art. 75,
comma  3,  c.p.p.,  da  intendersi - onde uniformarsi (secondo quanto
meglio  si  specifichera) al summenzionato orientamento delle Sezioni
unite  della Corte di Cassazione in ordine ai rapporti fra giudizi di
competenza  del  giudice  ordinario,  e  quelli  devoluti  ai giudice
contabile  - come riferito anche ai giudizi di responsabilita' che si
svolgono dinanzi alla Corte dei conti, si pone secondo questo giudice
in     contrasto    con    l'art. 103    comma,    secondo,    Cost.,
nell'interpretazione che, parimenti in ordine ai rapporti fra giudizi
di  competenza dell'uno e dell'altro giudice, ne ha sino ad oggi dato
la  Corte  costituzionale, che ha viceversa esclusa l'esistenza di un
rapporto di concorrenza tra le due giurisdizioni.
    Dubita  cioe',  questo giudice, della legittimita' costituzionale
dell'art. 75,  comma  3,  c.p.p.,  testo  vigente, nella parte in cui
obbliga  alla  sospensione del processo civile - ma anche, per quanto
qui  interessa,  dei  processi  nei quali puo', secondo il richiamato
orientamento   delle   Sezioni   unite,   proporsi   analoga  domanda
risarcitoria  -  se  questi  vengono iniziati dopo l'emanazione della
sentenza penale di prima grado.
    Detto altrimenti, dubita questo giudice - nello specifico caso di
risarcimento  dei  danni,  anche  non  patrimoniali, cagionati ad una
amministrazione  pubblica  da  amministratori  e  dipendenti mediante
comportamenti   costituenti   reato   -  della  legittimazione,  che,
l'art. 75,  comma  3,  c.p.p.,  testo vigente, presuppone, (se inteso
coerentemente  al predetto orientamento delle sezioni unite, e quindi
del  giudice  regolatore  della  giurisdizione),  dell'ente  pubblico
danneggiato a costituirsi parte civile nel processo penale instaurata
nei  confronti  degli  autori  del  reato medesimo, per far valere in
quella  sede  il diritto di credito di cui assuma di essere titolare,
derivandone,   in  caso  di  definitivo  accoglimento  della  domanda
proposta  con  l'azione  civile, l'improponibilita' della domanda che
venisse  esercitata  successivamente  dal p.m. contabile dinanzi alla
competente  sezione  giurisdizionale  regionale della Corte dei conti
(e,   medio   tempore,   l'improcedibilita'  del  giudizio  contabile
instaurato dopo l'emanazione della sentenza penale di primo grado che
abbia  pronunciato anche sulla domanda civile proposta in quella sede
dall'amministrazione danneggiata).
    In  ragione  di quanto precede, il Collegio ritiene, pertanto, di
dover sollevare d'ufficio la questione di legittimita' costituzionale
dell'art. 75,  comma  3,  c.p.p., essendo la stessa rilevante al fini
della  definizione  della  specifica  controversia  sottoposta al suo
esame,  nella  parte  in  cui  prevede  la necessaria sospensione del
giudizio  contabile  nel quale venga esercitata l'azione risarcitoria
gia' esperita vittoriosamente nel giudizio penale di primo grado.
    2.  -  Come  si  e' gia' accennato, questo giudice ritiene che la
norma  costituzionale  violata  vada  nella  specie  identificata con
l'art. 103, comma 2, Cost., sicche', per quanto qui interessa, appare
necessario  rifarsi  alla,  portata e al significato che ad essa sono
stati riconosciuti.
    Al  riguardo,  e' noto che, secondo la consolidata giurisprudenza
della  Corte,  costituzionale  «la  giurisdizione  "nelle  materie di
contabilita'  pubblica",  come  prevista  dalla  Costituzione  e alla
stregua della sua conformazione storica, e' dotata infatti non di una
"assoluta",  ma  solo di una tendenziale generalita' (sentenza n. 102
del  1977,  nonche'  sentenza  n. 33  del  1968),  in  quanto essa e'
suscettibile di espansione in via interpretativa, quando sussistano i
presupposti  soggettivi  e  oggettivi della responsabilita' per danno
erariale,  ma  cio' solo "in carenza di regolamentazione specifica da
parte  del  legislatore che potrebbe anche prevedere la giurisdizione
ed attribuirla ad un giudice diverso" (sentenza n. 641 del 1987).
    Appartiene  infatti  alla  discrezionalita'  del legislatore, che
deve  essere circoscritta all'apprezzamento ragionevole dei motivi di
carattere  ordinamentale  e, particolarmente, di quelli riconducibili
agli  equilibri costituzionali, la definizione concreta della materia
di  contabilita'  pubblica,  da  attribuire  alla giurisdizione della
Corte  dei  conti, cosi' come appartiene al legislatore, nel rispetto
delle   norme  costituzionali,  la  determinazione  dell'ampiezza  di
ciascuna   giurisdizione   (ordinaria,   amministrativa,   contabile,
militare,  ecc.) (sentenza n. 641 del 1987)» (cosi', sent. n. 385 del
1996).
    Risulta allora essenziale comprendere con quali modalita' la c.d.
interpositio legislatoris debba attuarsi, in questo contesto.
    Alla  scopo, occorre rifarsi nuovamente alla giurisprudenza della
Corte  costituzionale.  In  particolare,  questa - con la gia' citata
sentenza  n. 641  del  1987  -  ha anzitutto ribadito che «il secondo
comma  dell'art. 103 Cost. e' stato piu' volte interpretato da questa
Corte  (sentt.  nn. 17/1985; 189/1984; 241/1984; 102/1977), nel senso
che  alla Corte dei conti e' riservata la giurisdizione sulle materie
di   contabilita'   pubblica,   la   quale   va   intesa   nel  senso
tradizionalmente  accolto  dalla giurisprudenza e dalla legislazione,
cioe'   come   comprensiva   sia   dei   giudizi   di  conto  che  di
responsabilita'  a  carico  degli  impiegati e degli agenti contabili
dello Stato e degli enti pubblici non economici che hanno il maneggio
del  pubblico  denaro; che la materia di contabilita' pubblica non e'
definibile   oggettivamente   ma  occorrono  apposite  qualificazioni
legislative  e  puntuali specificazioni non solo rispetto all'oggetto
ma   anche   rispetto   ai   soggetti;  che,  comunque,  essa  appare
sufficientemente  individuata  nell'elemento  soggettivo  che attiene
alla  natura  pubblica dell'ente (Stato, Regioni, altri enti locali e
amministrazione  pubblica  in  genere)  e nell'elemento oggettivo che
riguarda  la  qualificazione  pubblica del denaro, e del bene oggetto
della gestione.
    Si e' anche affermato che la giurisdizione della Corte del conti;
nelle  dette,  materie,  e'  solo tendenzialmente generale (tanto che
nell'ordinamento  precostituzionale  la  si qualificava giurisdizione
speciale)  e  che  sono,  possibili deroghe con apposite disposizioni
legislative,    specie    nella,    materia   della   responsabilita'
amministrativa  non  di  gestione  e  che  la  cognizione delle cause
attinenti  alla responsabilita' patrimoniale per danni cagionati agli
enti  pubblici  da  pubblici  funzionari,  nell'esercizio  delle loro
funzioni,  siccome  involge  questioni relative a diritti soggettivi,
sarebbe  spettata  al  giudice  ordinario  se  non  vi fosse stata la
previsione  legislativa  derogatoria  la  quale  sancisce una diversa
ripartizione giurisdizionale».
    La  medesima decisione (n. 641) ha specificato che «la richiamata
giurisprudenza non e' in contrasta con l'altra di questa stessa Corte
(sentt. nn. 110/1970; 68/1971; 211/1972; 102/1977; 241/1984; 53/1985)
che  ha affermato la espansione tendenziale della giurisdizione della
Corte  dei  conti,  ove  sussista identita' di materia e di interesse
tutelato,  In  carenza  di  regolamentazione  specifica  da parte del
legislatore   che   potrebbe  anche  prevedere  la  giurisdizione  ed
attribuirla ad un giudice diverso (per es. in tema di responsabilita'
amministrativa  dei  funzionari, regionali in fattispecie di gestione
di interessi patrimoniali pubblici)».
    Ne  discende, evidentemente, un modello costituzionale di riparto
di  giurisdizione nell'ambito del quale e' riconosciuto carattere non
cogente    ed    assoluto,    ma   solo   tendenzialmente   generale,
all'attribuzione  alla Corte dei conti, ad opera dell'art. 103 Cost.,
della  giurisdizione  in  materia  di  contabilita'  pubblica,  fermo
restando  che  se  «la  concreta attribuzione della giurisdizione, in
relazione  alle diverse fattispecie di responsabilita' amministrativa
e ...  rimessa  alla discrezionalita' del legislatore ordinario e non
opera   automaticamente   in  base  all'art. 103  Cost.,  richiedendo
l'interpositio  legislatoris,  al  quale sono rimesse valutazioni che
non  toccano  solo gli aspetti procedimentali del giudizio investendo
la  stessa, disciplina sostanziale della responsabilita» (sent. n. 24
del  1993),  cio',  non  va  pero'  ritenuto  in  contrasto  con  «la
espansione tendenziale della giurisdizione della Corte del conti, ove
sussista  identita' di materia e di interesse tutelato, in carenza di
regolamentazione  specifica  da  parte  del  legislatore che potrebbe
anche  prevedere  la  giurisdizione  ed  attribuirla  ad  un  giudice
diverso» (sent. n. 641 del 1987).
    Ancor  piu' in dettaglio, premessa che «la cognizione delle cause
attinenti  alla responsabilita' patrimoniale per danni cagionati agli
enti  pubblici  da  pubblici  funzionari,  nell'esercizio  delle loro
funzioni,  siccome  involge  questioni relative a diritti soggettivi,
sarebbe  spettata  al  giudice  ordinario  se  non  vi fosse stata la
previsione  legislativa  derogatoria  la  quale  sancisce una diversa
ripartizione  giurisdizionale»  (sent.  n. 641 del 1987), resta fermo
che  la  necessita'  dell'interpositio  legisiatoris  e' per la Corte
costituzionale  compatibile  con  «la  espansione  tendenziale  della
giurisdizione  della  Corte  dei  conti,  ove  sussista  identita' di
materia  e  di,  interesse  tutelato,  in carenza di regolamentazione
specifica  da  parte  del legislatore che potrebbe anche prevedere la
giurisdizione  ed  attribuirla,  ad un giudice diverso» (sent. n. 641
del 1987).
    L'assetto disegnato dal Costituente fa dunque della giurisdizione
della,  Corte  dei  conti  un  limite  alla giurisdizione del giudice
ordinario,  riconoscendo  alla  prima,  nel proprio ambito, carattere
tendenzialmente  generale,  ovvero  la  capacita' di espandersi, «ove
sussista  identita' di materia e di interesse tutelato, in carenza di
regolamentazione  specifica  da  parte  del  legislatore che potrebbe
anche  prevedere  la  giurisdizione  ed  attribuirla  ad  un  giudice
diverso».  In  altri termini, purche' sussista identita' di materia e
di interesse tutelato (cioe', come specificato dalla sent. n. 385 del
1996,  «quando  sussistano i presupposti soggettivi e oggettivi della
responsabilita'  per  danno erariale»), in mancanza dell'attribuzione
da  parte  del  legislatore della giurisdizione ad un giudice diverso
questa  spetta  -  nell'ambito  nel  quale  opera  quella tendenziale
espansivita' di cui si e' detto - alla Corte dei conti.
    Appare  del  resto  questo  il  senso dell'ulteriore affermazione
della  Corte  costituzionale  secondo  la  quale «a parte la rilevata
necessita'  della  carenza  di  una diversa disciplina legislativa si
rimane  sempre  nei  campo  della giurisdizione contabile, come sopra
specificata.
    Trattasi  sempre  di  un limite funzionale alla giurisdizione del
giudice  ordinario  che  nell'ordinamento  e'  il giudice dei diritti
soggettivi,   tranne   le   eccezioni   legislativamente   stabilite»
(nuovamente, sent. n. 641 del 1987).
    Questa  conclusione e' stata raggiunta dalla Corte costituzionale
all'esito  di  un  processo  interpretativo  che muove dalla sentenza
n. 110  del  1970  nella  quale  la  Corte  ha  parlato di «principio
tendenzialmente   generale  del  secondo  comma  dell'art. 103  della
Costituzione, che non contiene - per questa parte - alcuna riserva di
legge  e  adopera  una locuzione ("materie di contabilita' pubblica")
anche  letteralmente  piu' ampia di quella dell'art. 44, primo comma,
del T.U. del 1934. Ora, pur senza escludere che l'attuazione concreta
del   detto  principio  possa  richiedere,  in  particolari  settori,
originariamente  sottratti alla giurisdizione della Corte dei conti e
che  presentino  aspetti  peculiari  e differenziati, l'intervento di
apposite  disposizioni  legislative,  e'  da  ritenere  che,  laddove
ricorra  identita'  oggettiva  di materia, e beninteso entro i limiti
segnati  da  altre  norme  e  principi  costituzionali,  il principio
dell'art. 103  conferisca capacita' espansiva alla disciplina dettata
dal T.U. del 1934 per gli agenti contabili dello Stato, consentendone
l'estensione   a   situazioni  non  espressamente  regolate  in  modo
specifico».
    Ne  discende,  allora,  che  l'interpositio  legislatoris  appare
declinarsi,  nella  giurisprudenza  della  Corte costituzionale, piu'
esattamente  come  possibilita'  per  il  legislatore  di enucleare -
nell'ambito  in  cui  opera,  con carattere tendenzialmente generale,
quella  giurisdizione  della  Corte  dei  conti  che  funge da limite
funzionale  alla giurisdizione del giudice ordinario - materie in cui
si  giustifichi,  nei  limiti  del parametro costituzionale della non
manifesta  irragionevolezza  della scelta legislativa, l'attribuzione
della  giurisdizione ad un giudice diverso da quello contabile. Se di
questa  possibilita'  il legislatore non fa uso, operera' appunto «la
espansione tendenziale della giurisdizione della Corte dei conti, ove
sussista  identita'  di  materia  e di interesse tutelato ...» (sent.
n. 641  del  1987),  nei  termini  specificati  dalla citata sentenza
n. 385 del 1996.
    Per  quanto qui interessa, in base a tali premesse ritiene questo
giudice  che  la  lettura dell'art. 103, comma 2, Cost. affermatasi e
consolidatasi nella giurisprudenza della Corte costituzionale escluda
la  possibilita'  di  configurare i rapporti fra la giurisdizione del
giudice  ordinario  e  quella  del  giudice  contabile  in termini di
concorrenza.  In  altri  termini,  muovendo  dalla  premessa  che - a
parita'  di  materia  e  di interesse tutelato (nel senso specificato
dalla   gia'   citata   sent.  n. 385  del  1996)  -  laddove  manchi
l'attribuzione  da  parte  del  legislatore della giurisdizione ad un
giudice  diverso  questa  spetta,  nell'ambito  in  cui  opera quella
tendenziale  espansivita'  della  quale  si  e' detto, alla Corte dei
conti, ne discende invariabilmente che nei corrispondenti casi non e'
rivenibile  uno  spazio  di  azione  -  di  tipo concorrente - per un
giudice diverso da quello contabile.
    Il  che  conduce  a  riformulare  in  via  ultimativa  lo  schema
concettuale  sopra  esposto,  quale  affermatasi nella giurisprudenza
della Corte costituzionale, nel senso che - a parita' di materia e di
interesse   tutelato   (nei   termini  anzidetti)  -  laddove  manchi
l'attribuzione  da  parte  del  legislatore della giurisdizione ad un
giudice diverso da quello contabile questa spetta, nell'ambito in cui
opera  quella  tendenziale  espansivita' della quale si e' detto, non
gia', semplicemente, alla Corte dei conti, bensi' esclusivamente alla
Corte dei conti.
    3. - Cio' detto, appare opportuno evidenziare che, per quanto qui
interessa,  la  giurisprudenza della Corte costituzionale ha dapprima
(sent.   n. 211   del  1972)  escluso  che  l'amministrazione  avesse
autonomia  di decisione nella proposizione delle azioni nei confronti
dei  propri  dipendenti  autori  di  comportamenti  fonte  di  danno,
ribadendo il potere del Procuratore generale della Corte dei conti di
agire  d'ufficio, «essendo ovvio che l'art. 103, comma secondo, della
Costituzione, allorche' ha riconfermata, e, secondo quanto si ritiene
da  molti,  anche ampliata, la giurisdizione della Corte dei conti in
materia  di  contabilita'  pubblica,  ha  richiamato tutto l'istituto
cosi'  come  esso  era  ed  e'  regolato dalle, norme relative, e nel
quadro  delle  quali l'iniziativa del Procuratore generale si colloca
come  ovviamente  necessaria  per  evitare  lassismi  e  contrasti di
posizioni  e  di  interessi».  Indi, con sentenza n. 102 del 1977, la
Corte -- di fronte al sospetto di incostituzionalita' della normativa
siciliana   nell'occasione   contestata  anche  nella  parte  in  cui
attribuiva   il  promuovimento  della  relativa  azione  agli  organi
dell'ente  danneggiato  o  all'autorita'  di  vigilanza -(anziche' al
Procuratore  generale  della  Corte  dei  conti)  - ha dichiarato non
fondata   la  questione  prospettata  dalla  magistratura  contabile,
escludendo   cosi'   la   assoluta  (piuttosto  che  la  tendenziale)
generalita'   della   relativa  giurisdizione,  e  la  sua  immediata
operativita'  in  tutti  i  casi,  -perche'  la Corte dei conti aveva
nell'ordinanza  di  rimessione ritenuto «implicitamente (in contrasto
con quanto affermato da questa Corte con la sentenza n. 110 del 1970)
che  alla  sua  concreta  attuazione  anche  per particolari settori,
originariamente  sottratti  alla giurisdizione della Corte dei conti,
non sia mal necessaria una interpositio legislatoris».
    Dunque,  tanto  nella  decisione  n. 110  del  1970, quanto nella
n. 102 del 1977, la necessita' dell'interpositio legislatoris ai fini
del  radicamento  della  giurisdizione  del  giudice  contabile viene
chiaramente   affermata  -dalla  Corte  costituzionale  non  gia'  in
assoluto,  bensi'  con  specifico  riferimento  a particolari ipotesi
(rectius,  a particolari settori/materie) -«originariamente sottratti
alla  giurisdizione  della  Corte  dei  conti».  Il che perfettamente
coerente  con l'affermazione secondo la quale la giurisprudenza della
Corte  costituzionale  che  postula  la  necessita' dell'interpositio
legislatoris  ai fini sopra indicati «non e' in contrasto con l'altra
di  questa  stessa  Corte  (sentt.  nn. 110/1970;  68/1971; 211/1972;
102/1977;   241/1984;   53/1985   che   ha  affermato  la  espansione
tendenziale  della  giurisdizione della Corte del conti, ove sussista
identita'   di  materia  e  di  interesse  tutelato.  In  carenza  di
regolamentazione  specifica  da  parte  del  legislatore che potrebbe
anche  prevedere  la  giurisdizione  ed  attribuirla  ad  un  giudice
diverso» (sent. n. 641 del 1987).
    Conforme  a  questa  linea  di  tendenza appare peraltro anche la
successiva  decisione  n. 773  del  1988  della Corte costituzionale,
secondo  la  quale  «la "tendenziale generalita'" della giurisdizione
della  Corte dei conti, al di la' dei casi gia' in essa espressamente
o  istituzionalmente  ricompresi,  necessita  normalmente di apposite
previsioni legislative e non puo' sortire un effettivo invalidante di
norme  che  -  come  nella  specie  -  facciano  ricadere  la materia
nell'ambito della generale giurisdizione del giudice ordinario».
    Anche  in  tal caso appare infatti confermato l'ordinamento della
Corte  costituzionale  incline  a  ritenere  necessaria l'interposito
legislatoris  solamente  per  attribuire al giudice contabile materie
prima  attribuite  espressamente dalla legge ad un giudice diverso, e
non  anche  per  radicare la giurisdizione del primo nelle ipotesi di
«carenza  di  regolamentazione  specifica  da parte del legislatore»,
perche'  in  questa  seconda  ipotesi  e'  destinata  ad  operare  la
espansione tendenziale della giurisdizione della Corte dei conti, ove
sussista  identita'  di  materia e di interesse tutelato, nei termini
piu' volte richiamati.
    Va  in  proposito  evidenziato che, nella vicenda definita con la
sentenza  n. 773,  la  Corte  dei conti aveva rimesso la questione di
legittimita' costituzionale dell'art, 26 c.p.p., che precludeva - nel
vigore   del   «vecchio»   c.p.p.   -   l'azione  di  responsabilita'
amministrativa nei confronti del pubblico dipendente, in presenza del
giudicato penale che avesse provveduto alla liquidazione del danno in
favore  della  pubblica  amministrazione  costituitasi  parte civile.
L'ordinanza  di  rimessione prospettava, in particolare, un contrasto
tra il menzionato art. 26 c.c.p. e l'art. 489, secondo comma, c.p.p.,
vecchio  testo, a termini del quale, in caso di costituzione di parte
civile,  il  giudice  penale  decideva  sulla  liquidazione dei danni
«salvo che sia stabilita la competenza di un altro giudice».
    In questo contesto, nella sentenza n. 773 la Corte costituzionale
ha   ritenuto   che   simili  norme  facessero  ricadere  la  materia
nell'ambito   della  generale  giurisdizione  del  giudice  ordinario
perche',  «come ricorda l'Avvocatura dello Stato, la dottrina ritiene
che  l'inciso  «salvo  che  sia  stabilita  la competenza di un altro
giudice»  si  riferisca  -  come risulta del resto della formulazione
letterale  - a casi di attribuzione espressa ad un giudice diverso da
quello  penale  dell'esclusiva  potesta' di provvedere in ordine alla
liquidazione  dei  danni  (es.,  artt. 373 c.p.m.p., 1246 cid. nav.);
cio'  che  non  puo'  certo  dirsi  per la generica previsione di cui
all'art. 52  del  T.U.  n. 1214  del 1934 delle leggi sulla Corte dei
conti,  che  non  contiene alcuna espressa disposizione in materia di
danno  derivante  da  reato ne' alcuna esplicita deroga alla generale
competenza  spettante  in  materia  al  giudice  penale  in  caso  di
costituzione di parte civile».
    In conclusione, ad avviso di questo giudice anche nel caso deciso
con  la  sentenza  n. 773  la  Corte costituzionale ha fatto puntuale
applicazione  dell'indirizzo  consolidatosi  a partire della sentenza
n. 110  del  1970,  ritenendo  che le norme sopraindicate valessero a
fondare  la  giurisdizione del giudice ordinario e che, di contro, in
difetto di interpositio legislatoris, non potesse valere ad escludere
quella giurisdizione (rectius, a «toglierla» al giudice ordinario per
attribuirla  a  quello  contabile)  «la  generica  previsione  di cui
all'art. 52  del  T.U.  n. 1214  del 1934 delle leggi sulla Corte dei
conti,  che  non  contiene alcuna espressa disposizione in materia di
danno  derivante  da  reato ne' alcuna esplicita deroga alla generale
competenza  spettante  in  materia  al  giudice  penale  in  caso  di
costituzione di parte civile».
    4.  - Come si e' piu' volte accennato, e' altresi' noto che si e'
nel  tempo  andato  consolidando un indirizzo giurisprudenziale delle
sezioni  unite della Corte di cassazione, alla stregua del quale, con
riguardo all'esplicazione della giurisdizione della Corte di conti in
materia  di  responsabilita' contabile, il ricorso alle sezioni unite
della  suprema  Corte,  che  sia  rivolto  a denunciare, come ragione
preclusiva dell'affermazione di detta responsabilita', la circostanza
che  la  pubblica amministrazione, costituendosi parte civile in sede
penale,  abbia chiesto ed ottenuto sentenza definitiva di condanna al
risarcimento  dei danni per il medesimo fatto, deve essere dichiarato
inammissibile.
    Secondo  tale  indirizzo,  siffatta questione non attiene infatti
alla  sussistenza  della giurisdizione della Corte dei conti, ma alla
proponibilita'  dinanzi  ad  essa  dell'azione di responsabilita', e,
quindi,  si  traduce  nella  deduzione  di  un  errore  in iudicando,
esorbitante dalle previsioni degli artt. 111 della Costituzione e 362
c.p.c.  (Cass.,  sez. un., 23 novembre 1999, n. 822; Cass., sez. un.,
ord.  21 maggio  1991  n. 369),  giacche'  la  giurisdizione penale e
quella   civile   risarcitoria,   da  un  lato,  e  la  giurisdizione
amministrativa-contabile,     dall'altro,     sono     reciprocamente
indipendenti  nei  profili  istituzionali,  anche quando investono un
medesimo   fatto  materiale,  dal  momento  che  l'interferenza  puo'
avvenire  tra i giudizi ma non fra le giurisdizioni (Cass. 3 febbraio
1989, n. 664).
    In    altri    termini,    sempre   secondo   questo   indirizzo,
l'impossibilita' di proporre l'azione di responsabilita' esercitabile
innanzi  alla  Corte  dei  conti  per  fatti  dannosi  in conseguenza
dell'esercizio,  in  altra  sede,  di analoga azione esercitata dalla
p.a.,  sulla quale si sia formato il giudicato, non rileva in termini
di  riparo  di  giurisdizione, ma di limiti alla proponibilita' della
prima  e,  quindi concerne la eventuale violazione dei limiti interni
della  giurisdizione  stessa.  E in questo contesto, le sezioni unite
(sent.  n. 4957 del 2005) hanno aggiunto che la tesi secondo la quale
la  violazione  del  principio  del  ne  bis  in idem potrebbe essere
evitata solo ammettendo l'esistenza di una giurisdizione alternativa,
non  puo'  essere  seguita,  in quanto finisce con il trasformare una
questione  di merito di conoscibilita' della domanda in una questione
di giurisdizione.
    Sennonche',  va  evidenziato  che questo indirizzo interpretativo
delle   sezioni   unite   della   Corte   di   cassazione  si  fonda,
dichiaratamente  (v.  da  ultimo  SS.UU., sent. n. 20476 del 2005) ed
essenzialmente,  su  una  lettura  della sentenza n. 773 del 1988 che
finisce  con  il distorcere l'essenza del principio dell'interpositio
legislatoris  affermato dalla Corte costituzionale a partire dal 1970
(sent. n. 110).
    Cio'  perche',  va  ribadito,  se  si  ritiene  che  la  funzione
dell'interpositio  legislatoris  sia  quella di attribuire al giudice
contabile  una  materia  sino  a  quel momento devoluta ad un giudice
diverso,  appare a questo giudice implausibile che, una volta operata
l'interpositio,  possa continuare a sopravvivere una giurisdizione di
tipo  concorrente del giudice diverso sino a quel momento competente.
Simmetricamente,   nelle  ipotesi  di  «carenza  di  regolamentazione
specifica  da  parte  del legislatore», e' implausibile che l'operare
della   espansione   tendenziale   della  giurisdizione  del  giudice
contabile,  a  parita'  di  materia  e  di  interesse tutelato, possa
convivere con una giurisdizione di tipo concorrente esplicabile da un
giudice diverso.
    In   altri   termini,   e'  proprio  la  riconosciuta  necessita'
dell'interpositio  legislatoris  al  fine  di  attribuire  al giudice
contabile  una  materia  sino  a  quel momento devoluta ad un giudice
diverso    che   fa   fede   (una   volta   operata   l'interpositio)
dell'esclusivita'      della      rispettiva,     giurisdizione     e
dell'impossibilita',  a  parere  di  questa  sezione, di risolvere la
questione    sotto   il   profilo   della   mera   proponibilita'   o
improponibilita'  della domanda da parte del p.m. contabile una volta
che  la «Pubblica amministrazione, costituendosi parte civile in sede
penale,  abbia chiesto ed ottenuto sentenza definitiva di condanna al
risarcimento  dei  danni  per il medesimo fatto». E' infatti evidente
che   ritenere,  secondo  l'orientamento  delle  sezioni  unite,  che
l'eventuale formazione del giudicato sulla domanda civile proposta in
sede  penale  renda improponibile l'azione erariale da parte del p.m.
contabile, significa - come si e' accennato in principio - ammetterne
viceversa  la  proponibilita'  prima  di  quel momento, e, quindi, la
concorrenza   rispetto  all'azione  civile  esercitabile  dinanzi  al
giudice ordinario dall'amministrazione pubblica danneggiata
    5.  -  Ritiene  inoltre questo giudice di dover aggiungere che la
decisione  n. 773  del  1998  e' stata adottata con riferimento ad un
quadro  normativo  profondamente  differente  da  quello  attuale, in
particolare  con  riferimento alla disciplina del processo penale, la
cui disciplina e' come noto mutata nel 1989.
    Allo  stato  delle  cose,  vale a dire con riferimento al vigente
c.p.p.,  del  «vecchio»  art. 26  c.p.p.,  che - in quanto preclusivo
dell'azione  di  responsabilita'  amministrativa  nei  confronti  del
pubblico  dipendente,  in  presenza  del  giudicato penale che avesse
provveduto  alla  liquidazione  del  danno  in  favore della pubblica
amministrazione  costituitasi  parte civile - aveva data occasione al
giudizio  definito  dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 377
del  1988,  non  vi  e'  piu'  traccia.  Sopravvive,  ma  non piu' in
combinazione con la prima norma, il «vecchio» art. 489, secondo comma
(ora  538,  comma 2), a termini del quale, in caso di costituzione di
parte civile, il giudice penale decideva sulla liquidazione dei danni
«salvo che sia stabilita la competenza di un altro giudice».
    Sicche',  seguendo  l'indirizzo  ribadito  anche  con tale ultima
decisione dalla Corte costituzionale, secondo il quale, per un verso,
l'interpositio  legislatoris  e' necessaria per attribuire al giudice
contabile  una  materia  sino  a  quel momento devoluta ad un giudice
diverso,  e,  per altro verso, laddove manchi l'attribuzione da parte
del  legislatore  della  giurisdizione  ad  un giudice diverso questa
spetta,  nell'ambito  nel quale vi e' quella tendenziale espansivita'
di cui si e' detto, alla Corte dei conti, sembra a questo giudice che
gia'  nella  mancata  riproduzione  del «vecchio» art. 26 nel vigente
c.p.p.,   possa  ravvisarsi  un  preciso  indizio  dell'avvento,  con
l'entrata in vigore del «nuovo» c.p.p., dei presupposti richiesti dal
giudice  delle  leggi  per  affermare  la  giurisdizione  del giudice
contabile.
    Indizio,  quello appena indicato, che ad avviso di questa sezione
trova  piena  conferma,  nella  sistematica del «nuovo» c.p.p., nella
circostanza   rappresentata   dall'introduzione   ex   novo   di  una
disposizione,  l'art. 129  disp. att., il cui terzo comma dispone che
«quando  esercita  l'azione  penale  per un reato che ha cagionato un
danno  per  l'erario,  il  pubblico  ministero informa il procuratore
generale presso la Corte dei conti, dando notizie della imputazione».
    Ritiene  infatti questo giudice che siffatta disposizione deponga
chiaramente nel senso di quella non concorrenza fra giurisdizione del
giudice  contabile  e  giurisdizione  del  giudice ordinario (ai fini
dell'esercizio  dell'azione  civile  nel  processo  penale  da  parte
dell'amministrazione   danneggiata   per   effetto  di  comportamenti
costituenti  reato)  che  il principio dell'interpositio legislatoris
invariabilmente presuppone.
    Ancora,  l'art. 7  della  legge n. 97 del 2001 stabilisce che «la
sentenza  irrevocabile  di  condanna  pronunciata  nei  confronti dei
dipendenti  indicati  nell'art. 3  per  i  delitti contro la pubblica
amministrazione  previsti  nel capo I del titolo II del libro secondo
del  codice  penale e' comunicata al competente procuratore regionale
della   Corte  dei  conti  affinche'  promuova  entro  trenta  giorni
l'eventuale  procedimento  di  responsabilita' per danno erariale dei
confronti  del  condannato. Resta salve quanto disposto dall'art. 129
delle  norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice
di  procedura  penale,  approvate  con  decreto legislativo 28 luglio
1989, n. 271».
    Ritiene  questo Giudice che, anche ove nella mancata riproduzione
del  «vecchio» art. 26. c.p.p., unitamente all'introduzione nel nuovo
c.p.p.   del  citato  art. 129  disp.  att.,  non  venisse  ravvisata
l'interpositio  legislatoris  necessaria  a  produrre  quell'«effetto
invalidante  di norme che... facciano ricadere la materia nell'ambito
della  generale  giurisdizione  del  giudice  ordinario»  di cui alla
sentenza   n. 773   dei   1988,  certamente  l'interpositio  andrebbe
ravvisata nell'art. 7 della legge del 2001.
    Considerato,  infatti,  che  detta  norma  si cura di coordinarsi
anche  al gia' citato art. 129 disp. att. c.p.p., appare evidente che
un  sistema  nel  quale  i  p.m. penale e' tenuto a informare il p.m.
contabile  all'atto dell'esercizio dell'azione penale, e in cui - per
tutti  i delitti contro la pubblica amministrazione previsti nel capo
I  del  titolo  Il  del libro secondo del codice penale - la sentenza
irrevocabile  di condanna pronunciata in sede penale nei confronti di
dipendenti pubblici va comunicata al competente procuratore regionale
della   Corte  dei  conti  affinche'  promuova  entro  trenta  giorni
l'eventuale   procedimento  di  responsabilita'  per  danno  erariale
(indistintamente  inteso)  nei  confronti del condannato, risulta del
tutto   incompatibile  con  la  possibilita',  per  l'amministrazione
danneggiata,  -di  costituirsi  parte  civile nel processo penale, e,
quindi,   con   l'esistenza,   ai   riguardo,  di  una  giurisdizione
concorrente del giudice ordinario.
    Infatti,  se  davvero esistesse una giurisdizione concorrente del
giudice  -ordinario  tale da consentire la delibazione in sede penale
dell'azione civile che fosse stata ivi proposta, l'art. 7 della legge
del  2001  finirebbe  per risultare in concreto applicabile non gia',
come  sembrerebbe  ragionevole  ritenere giusta il suo chiaro tenore,
alla  generalita'  dei  casi, bensi' a quelli soli nei quali l'azione
civile  non  fosse  stata  esercitata  o su di essa, pur proposta, il
giudice  penale  non si fosse potuto pronunciare (v. sent. n. 443 del
1990 della Corte costituzionale, laddove si e' altresi' puntualizzato
che  «come  piu'  volte  sottolineato  nei  confronti  del  codice di
procedura  penale  dei  1930. e come deve dirsi a maggior ragione nei
confronti  dei nuovo codice, "l'azione di restituzione o risarcitoria
ha  carattere  accessorio  e  subordinato rispetto all'azione penale,
sicche'  essa subisce tutte le conseguenze derivanti dalla funzione e
struttura  del  processo  penale",  con  una  subordinazione  che  si
realizza,  fra  l'altro,  "con  la  prevalenza  data del legislatore,
nell'interesse  pubblico  e dell'imputato, all'esigenza di una rapida
conclusione del processo penale"»).
    In  questo quadro, va evidenziato anche che l'art. 129 disp. att.
c.p.p.  vigente  non ha stabilito genericamente che il p.m. penale e'
tenuto  a  informare quello contabile, bensi' che deve farlo all'atto
stesso dell'esercizio dell'azione penale, e' cioe' in un momento dopo
il   quale   soltanto,  nei  casi  in  cui  risulta  ammissibile,  e'
tecnicamente  possibile  la  costituzione  di  parte  civile. In tale
prospettiva,  la coeva comunicazione che il p.m. penale, ai sensi del
primo comma del citato art. 129, e' tenuto a fare all'amministrazione
di appartenenza si spiega, come conferma chiaramente la comunicazione
-  aggiuntiva  -  dovuta  al  comitato  parlamentare per i servizi di
informazione  e sicurezza e per il segreto di Stato nel caso di reati
commessi da personale dipendente dai servizi per le informazioni e la
sicurezza  militare  o  democratica, all'evidente scopo di consentire
l'esercizio delle attribuzioni (segnatamente, di ordine disciplinare,
come  vale  a  chiarire la stessa intitolazione della legge n. 97 del
2001)  previste  dai  rispettivi  ordinamenti. Altro sarebbe, invece,
ritenere  che - in dispregio alle piu' elementari ragioni di economia
processuale  -  la  comunicazione  al  p.m.  contabile, da un lato, e
all'amministrazione    di    appartenenza,    dall'altro    lato,   e
all'amministrazione di appartenenza, dall'altro lato, tenendo proprio
a  consentire  (nel secondo caso, attraverso la costituzione di parte
civile)  la possibile pendenza di due distinti giudizi, l'uno in sede
penale  e  l'altro in sede contabile, contro le stesse persone, per i
medesimi fatti.
    Cio' anche perche', una volta ammessa la possibilita' di una loro
contemporanea  pendenza,  ne deriva come gia' si e' osservato che uno
dei  due  -  e  in  particolare,  quello che termina per secondo - e'
destinato  invariabilmente  a rivelarsi inutilmente svolto, giusta la
sua  improcedibilita'  una  volta  che  si  sia  formato il giudicato
nell'altro.  Anzi,  poiche'  -  nella  logica della concorrenza delle
giurisdizioni - non si puo' neppure escludere che, nel lasso di tempo
che  separa  l'emanazione della sentenza definitoria del giudizio che
si  conclude  per  primo  dal  suo  passaggio  in  giudicato, vada in
decisione  l'altro  giudizio,  si  potrebbe  avere, con riferimento a
quest'ultimo,  persino  una  sentenza  destinata a rimanere inseguita
perche'  ineseguibile  (in  questa  ipotesi,  infatti,  le  categorie
processuali  della  improponibilita'  e  della  improcedibilita'  non
sarebbero confacenti).
    Del   resto,   va  altresi'  ricordato  che  se  l'azione  civile
esperibile  nel  processo  penale  e' la stessa che si sarebbe potuta
esercitare  in  sede  civile,  tanto da rendere appunto necessaria la
sospensione  di  cui  all'art. 75, comma 3, c.p.p., testo vigente, le
sezioni  unite  della Corte di cassazione (fra le piu' recenti, sent.
nn.  933  del  1999 e 15288 del 2001) hanno in piu' occasioni escluso
che  l'amministrazione pubblica danneggiata possa esercitare l'azione
civile  in  sede civile contro i proprio dipendenti autori del danno,
in  base  all'argomento  che  la  Corte  dei  conti  ha,  in materia,
«giurisdizione esclusiva». In particolare, secondo la sentenza n. 933
del  1999,  «se si tiene conto che costituisce principio pacifico che
la giurisdizione della Corte dei conti e' esclusiva, nel senso che e'
l'unico  organo  giudiziario che puo' decidere nelle materia devolute
alla  sua  cognizione,  ne  consegue  che  va esclusa una concorrente
giurisdizione  del giudice ordinario, adito secondo le regole normali
applicabili in tema di responsabilita' e di rivalsa».
    Trattandosi  allora  della  medesima  azione  civile, se essa non
viene    considerata   esperibile   in   sede   civile   in   ragione
dell'esclusivita'  della  giurisdizione del giudice contabile, questo
giudice  ritiene  implausibile  una  diversa  conclusione  sol che la
stessa  azione  venga  invece  esercitata, come nella specie, in sede
penale.
    6.  -  Ancora,  nel  senso  dell'esclusivita' della giurisdizione
contabile  appare per vero militare, indirettamente, anche la recente
disposizione contenuta nell'art. 1, comma 174, della legge n. 266 del
2005,  in  base  alla  quale «al fine di realizzare una piu' efficace
tutela  dei  crediti erariali, l'art. 26 del regolamento di procedura
di  cui  al  regio decreto 13 agosto 1933, n. 1038, si interpreta nel
senso  che  il procuratore regionale della Corte dei conti dispone di
tutte  le  azioni a tutela delle regioni del creditore previste dalla
procedura  civile,  ivi  compresi  i  mezzi  di  conservazione  della
garanzia  patrimoniale  di  cui  al libro VI, titolo III, capo V, del
codice civile».
    La  norma  conferma il potere del p.m. contabile (gia' ricavabile
in rinvio dinamico di cui all'art. 26 del r.d. n. 1038) di esercitare
le   azioni  surrogatoria  e  revocatoria,  oltre  che  il  sequestro
conservativo,  il  quale  rappresenta come noto l'ulteriore mezzo «di
conservazione  della garanzia patrimoniale di cui al libro IV, titolo
III, capo V, del codice civile».
    Gia'  con  l'art. 5,  comma 2,  della  legge  n. 19  del  1994 il
legislatore  aveva richiamato in modo espresso la possibilita' per il
p.m. contabile di agire per ottenere il sequestro conservativo, anche
ante causam, dei beni del presunto responsabile di un danno erariale,
e  poiche' detto sequestro viene come noto disposto con decreto della
competente   sezione   giurisdizionale  della  Corte  dei  conti,  e'
successivamente convalidato in sede monocratica dal giudice contabile
e  si  converte  in  pignoramento in caso di decisione di condanna da
parte   della  suddetta  sezione,  ne  discende  che  -  anche  prima
dell'avvento dell'art. 1, comma 174, della legge n. 266 - vi era gia'
un  caso  nel  quale  il  procuratore regionale della Corte dei conti
disponeva (anche espressamente), fra le azioni a tutela delle ragioni
del   creditore   previste  dalla  procedura  civile,  dei  mezzi  di
conservazione  della garanzia patrimoniale di cui al libro VI, titolo
III,  capo  V,  del  codice  civile.  Da  questo  punto  di vista, la
circostanza  della  devoluzione  (gia'  disposta  dal  legislatore, e
quindi  ora  solamente  confermata dalle nuove disposizioni, in parte
qua) al giudice contabile della cognizione della domanda di sequestro
conservativo  avanzata  dal  p.m. contabile ex art. 5, comma 2, legge
n. 19 del 1994 renderebbe singolare e incoerente un esito diverso con
riferimento alla cognizione delle domande proposte dal p.m. contabile
in   qualita'  di  titolare  dell'azione  surrogatoria  e  di  quella
revocatoria,  oltre  che di quella erariale. Anch'esse, dunque, vanno
proposte  dinanzi  alla sezione giurisdizionale della Corte dei conti
volta per volta competente.
    Cosi' stando le cose, l'art. 1, comma 174, della legge n. 266 del
2005  sembra  a  questo  giudice  confermare  che  il potere di adire
l'autorita'    giudiziaria    per   chiedere   l'accertamento   della
responsabilita'  per  danno  erariale,  la  conseguente  condanna dei
soggetti  riconosciuti  responsabili  e, a garanzia dell'effettivita'
della  condanna,  anche la conservazione della garanzia patrimoniale,
non  competa  all'amministrazione  danneggiata  bensi'  ad  un organo
pubblico  appositamente  costituito,  la  Procura presso la Corte dei
conti.
    Del  resto,  anche di recente la Corte costituzionale ha ribadito
la  rilevanza  delle  facolta'  processuali  esperibili  dal  giudice
contabile,   osservando   che   «nella   disciplina   generale  della
responsabilita'    amministrativa    i   profili   sostanziali   sono
strettamente  intrecciati  con  i  poteri che la legge attribuisce al
giudice chiamato ad accertarla...» (sent. n. 345 del 2004).
    L'art. 1,  comma 174, della legge n. 266 del 2005 tende cioe', ad
avviso di questo Giudice, a confermare in via ulteriore quel fenomeno
di  scissione  in  base  al  quale,  una  volta verificatosi un danno
erariale, se l'amministrazione e' titolare del diritto sostanziale di
credito  (indisponibile, in ragione della necessaria integrita' della
finanza   pubblica),   non  lo  e'  invece  delle  relative  facolta'
processuali  (essenzialmente,  il diritto di azione, esperibile anche
ai  fini  della  conservazione  della  garanzia patrimoniale), il cui
esercizio  e' rimesso dalla legge ad un organo pubblico appositamente
costituito, la Procura presso la Corte dei conti.
    7.  -  Questa  Sezione  non ignora che la Corte costituzionale ha
avuto  ripetutamente occasione di affermare il giudice e' abilitato a
sollevare la questione di legittimita' costituzionale solo dopo avere
accertato   che   e'   impossibile   eseguire   una   interpretazione
costituzionale corretta con riferimento ad una determinata norma.
    Parimenti,  questo  giudice  non  ignora  che  secondo  la  Corte
costituzionale   rimane   «incompiuto   quel  doveroso  tentativo  di
ricercare   un'interpretazione   adeguatrice   del   testo  di  legge
denunciato,  al  quale  ciascun giudice e', comunque, tenuto prima di
proporre   l'incidente   di   costituzionalita»   quando  il  giudice
rimettente  omette  qualsiasi  motivazione  circa l'impossibilita' di
seguire una interpretazione idonea ad attribuire alla norma censurata
il  significato che egli ritiene conforme a Costituzione (ord. n. 208
del  2003),  oppure  quando  risulti  indimostrata  la giurisprudenza
contraria  all'interpretazione  ritenuta  conforme a Costituzione dal
giudice  a  quo  (ord. n. 107 del 2003) oppure, ancora, quanto, nella
doverosa   esplorazione  della  possibilita'  di  pervenire,  in  via
interpretativa,   alla   soluzione   che   egli  ritiene  conforme  a
Costituzione,  il  giudice  rimettente  non  prenda in considerazione
altri  orientamenti  della  giurisprudenza  di  legittimita'  che gli
avrebbero consentito di interpretare la disciplina censurata in modo,
appunto, conforme a Costituzione (ord. n. 19 del 2003).
    Sennonche',  nessuna di queste ipotesi appare ricorrente nel caso
di specie, giacche' il «diritto vivente» che osta all'interpretazione
dell'art. 75,  comma 3,  c.p.p. ritenuta da questo giudice conforme a
Costituzione,   e   in   particolare   conforme   alla   lettura  che
dell'art. 103,   comma 2,   da'   la   Corte  costituzionale,  e'  il
consolidato  indirizzo  delle  stesse  sezioni  unite  della Corte di
cassazione,    cioe'   dell'organo   giudiziario   regolatore   della
giurisdizione all'interno del nostro sistema.
    Da tale punto di vista, ritiene questo giudice di aver assolto il
proprio  obbligo  di  motivazione  sulla  esistenza e definizione del
«diritto  vivente»  contrario  all'interpretazione del primo ritenuta
conforme   a   Costituzione,  mancando  nella  specie  in  radice  la
possibilita' di rifarsi ad un diverso orientamento giurisprudenziale,
ancorche'  minoritario, con riferimento, specificamente, al carattere
concorrente   -   rispetto  all'azione  erariale  intestata  al  p.m.
contabile - dell'azione civile esercitata nel processo penale.
    8. - Per le ragioni sin qui esposte, questa sezione - ritenuto di
dover  applicare  al caso di specie l'art. 75, comma 3, c.p.p., testo
vigente,  onde uniformarsi al principio di concorrenza, e, quindi, di
sostanziale  fungibilita'  delle  giurisdizioni ordinaria e contabile
(affermato  dal  giudice  regolatore  della  giurisdizione in caso di
danno   erariale   derivante   da   reati   attribuibili  a  pubblici
dipendenti),  quale  ineluttabilmente  presupposto dal criterio della
proponibilita'  dell'azione erariale in presenza del giudicato penale
anche  sulla domanda civile - e dubitando tuttavia della legittimita'
costituzionale di questa norma, cosi' intesa, alla luce dell'art. 103
Cost.  secondo  comma, rimette d'ufficio alla Corte costituzionale la
conseguente valutazione.
    Piu'   specificamente,   questo   giudice  rimette  d'ufficio  la
questione,   nei   termini  sopra  prospettati,  affinche'  la  Corte
costituzionale,   tenuto  conto  di  quanto  disposto  dall'art. 103,
secondo comma, Cost., si pronunci sulla illegittimita' costituzionale
dell'art. 75,  comma 3,  c.p.p.  nella  parte  in  cui - applicato in
conformita'  al  piu' volte richiamato indirizzo interpretativo fatto
proprio  dalle  sezioni unite della Corte di cassazione - comporta la
sospensione  del  processo  contabile insaturato, nei confronti delle
medesime  persone,  per  i  medesimi  fatti,  dopo l'emanazione della
sentenza  penale  di  primo grado che abbia pronunciato sulla domanda
civile proposta in quella sede.
    Tanto  premesso, va disposta la sospensione del presente giudizio
e  la  trasmissione degli atti alla Corte costituzionale, ritenendosi
rilevante  e  non  manifestamente infondata la suesposta questione di
costituzionalita'.
    Manda  alla  segreteria per gli adempimenti di competenza ai casi
dell'art. 23 della legge 11 marzo 1953, n. 87.