IL TRIBUNALE

    Ha   emesso  la  seguente  ordinanza  di  rimessione  alla  Corte
costituzionale   di   questione  di  legittimita'  sollevata  in  via
incidentale.
    Con  decreto  in  data 9 giugno 1999 la Corte di appello di Roma,
all'esito  del  procedimento  in  camera  di  consiglio  sull'appello
proposto dal Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Roma
in  data 20 maggio 1998 verso la sentenza del Giudice per le indagini
preliminari  del  Tribunale di Roma in data 21 aprile 1998, disponeva
il  rinvio a giudizio davanti al Tribunale di Roma di Caruso Luciano,
Rossetti Piero, Cappelli Mario e Pacini Antonio, imputati, tutti, dei
reati  di  cui  agli  artt. 81, 110, 479, 110, 48 e 479 c.p. (in Roma
fino  al 13 febbraio 1995) e 81, 110, 640, comma 2 e 61 n. 7 c.p. (in
Roma fino al 13 febbraio 1995).
    L'apertura  del  dibattimento veniva dichiarata, una prima volta,
all'udienza del 7 luglio 2000 e quindi, a seguito di rinnovazione gli
atti  per  mutata  composizione del Collegio giudicante, il 16 giugno
2005.
    All'udienza  del 23 febbraio 2006 la difesa del Cappelli eccepiva
l'incostituzionalita'  dell'art. 10,  comma 3, legge 5 dicembre 2005,
n. 251  (c.d.  «ex Cirielli»), nella parte in cui rende inapplicabili
le piu' favorevoli norme in tema di termini di prescrizione dei reati
ai  processi  nei quali, alla data di entrata in vigore della stessa,
vi  era gia' stata la dichiarazione di apertura del dibattimento, per
contrasto  con  gli  artt. 3  e  27  della  Costituzione. Il pubblico
ministero  si  associava alla richiesta, mentre le difese degli altri
imputati   chiedevano   il   rigetto  della  sollevata  eccezione  di
legittimita'.
    Il  tribunale  si  riservava  di  decidere  rinviando all'odierna
udienza.

                       Considerato in diritto

    Il tribunale ritiene di dover rimettere alla Corte costituzionale
il  giudizio sulla legittimita' costituzionale dell'art. 10, comma 3,
legge  n. 251  del  2005  per violazione degli artt. 3, 10 e 11 della
Costituzione.
    Va  innanzitutto  precisato  che  la  questione  e' rilevante nel
presente processo.
    Ed  invero,  sulla  base  della previgente disciplina relativa ai
termini  prescrizionali,  il  tempo necessario a prescrivere delitti,
per  i quali la legge prevede un pena edittale massima compresa tra i
cinque  e  i  dieci  anni  di  reclusione,  e'  pari  a  dieci  anni,
suscettibile  di  aumento  sino  ad  un  massimo  complessivo di anni
quindici  nel  caso  che  siano  intervenuti atti interruttivi (tra i
quali il decreto che dispone il giudizio).
    Per determinare tale tempo si doveva, infatti, aver riguardo - ai
sensi  del  secondo  comma dell'art. 157 c.p. - al massimo della pena
stabilita  per  il  reato  «tenuto conto dell'aumento massimo di pena
stabilita  per  le  circostanze  aggravanti». In caso di concorso tra
circostanze aggravanti e attenuanti, applicato il giudizio di valenza
di   cui   all'art. 69  c.p.,  la  pena  massima  applicabile  veniva
determinata all'esito di detto giudizio (art. 157, comma 3, c.p.).
    Ne consegue che, alla stregua della normativa previgente, nessuno
dei  reati ascritti agli imputati e' prescritto (per entrambi i reati
il termine di prescrizione maturerebbe al 13 febbraio 2010).
    La nuova disciplina contenuta nella legge n. 251 del 2005 (art. 6
che  modifica  gli  artt.  da  157  a 161 del codice penale) prevede,
invece,  che  «La  prescrizione  estingue  il  reato decorso il tempo
corrispondente al massimo della pena edittale stabilita dalla legge e
comunque  un  tempo  non  inferiore  a  sei  anni  se  si  tratta  di
delitto...». Per determinare il tempo necessario a prescrivere «si ha
riguardo  alla  pena  stabilita  dalla legge per il reato consumato o
tentato,  senza  tenere  conto  della  diminuzione per le circostanze
attenuanti e dell'aumento per le circostanze aggravanti, per le quali
la legge stabilisce una pena di specie diversa da quella ordinaria, e
per  quelle  ad  effetto  speciale,  nel  qual  caso  si  tiene conto
dell'aumento massimo di pena previsto per l'aggravante».
    Nell'ipotesi  che siano intervenuti atti interruttivi, il termine
prescrizionale  inizia  nuovamente  a  decorrere,  ma  in nessun caso
l'interruzione  della prescrizione puo' - per procedimenti diversi da
quelli  indicati nell'art. 51, commi 3-bis e 3-quater c.p.p., e salva
l'ipotesi  di  recidiva  aggravata  (nessuno  degli  imputati risulta
gravato  da precedenti condanne, ad eccezione del Pacini a carico del
quale,  peraltro, figura un precedente modesto e risalente nel tempo)
-  comportare  un aumento di piu' di un quarto del tempo necessario a
prescrivere.
    E'  stata  inoltre eliminata la disposizione che fissava, in caso
di  continuazione  tra i reati, l'inizio della decorrenza del termine
prescrizionale  solo  nel  giorno  di cessazione della continuazione,
cosi'   come  quella  che  prevedeva,  nell'ipotesi  di  procedimento
unitario  per  reati tra loro connessi, che le cause di sospensione o
di interruzione della prescrizione relative ad uno dei reati connessi
avesse effetto anche per gli altri. Il termine di decorrenza iniziale
della prescrizione, quindi, coincide, anche in caso di continuazione,
con  la  data  di  consumazione  di  ciascun  reato  e  le  cause  di
sospensione  e  interruzione  della prescrizione relative ad un reato
non  esplicano effetto riguardo agli altri reati connessi per i quali
si proceda congiuntamente.
    Pertanto,  sulla  base  della  nuova disciplina, i reati ascritti
agli  imputati  sarebbero  gia'  estinti per prescrizione (il termine
prescrizionale sarebbe gia' maturato alla data del 13 agosto 2002).
    La  pronuncia,  peraltro, di una sentenza di improcedibilita', ai
sensi  degli artt. 157, 160 c.p. e 531 c.p.p., e' allo stato impedita
proprio  dalla  disciplina  transitoria  contenuta nell'art. 10 della
legge  n. 251,  in  quanto  -  poiche' alla data di entrata in vigore
della  legge  era stata dichiarata l'apertura del dibattimento - deve
trovare  applicazione la previgente normativa che, nel caso in esame,
determina un raddoppiamento dei termini di prescrizione rispetto alla
nuova.
    Quanto alla non manifesta infodatezza della questione (potendo il
tribunale  evitare  di  rimettere  l'eccepita  questione  alla  Corte
costituzionale  solo  ove la ritenga «manifestamente infondata») deve
rilevarsi quanto segue.
    Per quanto consta, e' la prima volta che il legislatore ordinario
predispone una disciplina transitoria di natura sostanziale (giacche'
non  sembrano  esservi  dubbi  che  la  prescrizione  non e' istituto
processuale,  ma  attiene  alle  cause  di  estinzione dei reati e ha
dunque  evidente  natura  penale  sostanziale),  che  impone  di  non
applicare  retroattivamente nei giudizi in corso la disciplina penale
sopravvenuta piu' favorevole per l'imputato.
    E'   anche  da  precisare  che  -  nonostante  taluni  autorevoli
orientamenti dottrinari - codesta Corte ha sempre in passato ritenuto
avere  rilievo costituzionale solo il divieto di retroattivita' della
norma  penale incriminatrice (art. 25, comma 2, Cost.) e non anche il
principio  della retroattivita' della norma penale piu' favorevole di
cui all'art. 2, comma 3, c.p.
    Va ancora osservato che la Corte di cassazione ha gia' affrontato
la questione in oggetto, ritenendola manifestamente infondata.
    In  particolare, nella pronuncia piu' articolata emessa sul punto
(VI  sezione penale, sent. n. 460 del 2005, udienza 12 dicembre 2005,
deposito 10 gennaio 2006), la S.C. ha affermato:
        che  il  principio  di  applicazione  retroattiva della norma
penale piu' favorevole non ha rilievo costituzionale;
        che  il  legislatore ordinario e' dunque libero di modulare e
graduare  le  modalita' di applicazione della legge penale successiva
piu'  mite,  introducendo condizioni, limiti ed eccezioni che ritenga
opportuni;
        che  tale disciplina non incorre nella violazione dell'art. 3
della  Costituzione  ove  le  soluzioni  legislative  adottate  siano
sorrette da valutazioni e giustificazioni non irragionevoli;
        che comunque - come evidenziato dalla Corte costituzionale in
alcune   sue   pronunce  e  confermato  dagli  sviluppi  del  diritto
internazionale  e  comunitario - il principio di retroattivita' della
norma  penale  piu'  favorevole  entra in discussione solo ove vi sia
stato  un mutamento, favorevole al reo, nella valutazione sociale del
fatto tipico;
        che,  nel  caso  di specie, la soluzione legislativa adottata
con   l'art. 10   legge   n. 251/2005   non  viola  il  principio  di
uguaglianza,  essendo  del  tutto  normale  che  la  disciplina della
prescrizione possa dar luogo a diversita' di trattamento tra imputati
di  fatti  identici  o analoghi, anche commessi nello stesso momento,
per  effetto  di  una  serie  di  variabili  che  incidono  sui tempi
dell'accertamento penale;
        che, inoltre, in alcun modo il nucleo centrale della garanzia
dell'istituto  della  prescrizione  viene  intaccato dalla disciplina
transitoria  contenuta nella legge n. 251, atteso che, da un lato, la
stessa rende inapplicabili retroattivamente le nuove norme in tema di
prescrizione,  se  meno  favorevoli  delle  precedenti,  e dall'altro
prevedendo  che  continuino  ad  applicarsi  nei  procedimenti penali
relativi  a  fatti  pregressi  le  vecchie  norme, fa si' che trovino
applicazione  le  disposizioni normative vigenti al momento in cui il
fatto reato e' stato commesso.
    Ritiene  il  Collegio  che  la sopra indicata disciplina presenti
profili  di  assai  dubbia  razionalita',  tali  da  determinare  una
possibile  lesione  del  principio di uguaglianza e ragionevolezza di
cui all'art. 3 Cost. In effetti, per quel che concerne i processi per
i  quali  sia intervenuta una sentenza in primo grado puo' certamente
sostenersi   che  l'applicazione  della  pregressa  disciplina  sulla
prescrizione,  anche  se  meno  favorevole, trova una giustificazione
nella    necessita'    di   non   «neutralizzare»   un   accertamento
giurisdizionale  gia'  effettuato  sotto  il  vigore della precedente
disciplina  (d'altronde  la  sopravvenuta  estinzione  del  reato non
impedisce al giudice dell'impugnazione di pronunciarsi su determinati
capi  della  sentenza;  art. 578 c.p.p., relativo alle pronunce sugli
effetti  civili  della  sentenza  in caso di estinzione del reato per
amnistia o prescrizione).
    Al contrario, avere individuato, per i giudizi ancora pendenti in
primo  grado,  la  dichiarazione  di  apertura del dibattimento quale
spartiacque  tra la nuova e la vecchia disciplina della prescrizione,
costituisce  una  scelta  tra  due  normative  collegata a profili di
aleatorieta', non dipendenti da un atto di impulso processuale avente
obiettiva  rilevanza  (quale,  ad  esempio,  l'esercizio  dell'azione
penale, momento nel quale il giudice viene investito della cognizione
del  processo),  ma  ad  un  evento  in  parte  casuale  e  in parte,
addirittura,  dipendente  dalle  parti  (si  pensi  ad  un difetto di
notifica  che  ne  imponga  la rinnovazione, ovvero ad un impedimento
dell'imputato  o  del  difensore  cui  consegna  il  rinvio  ad altra
udienza).
    A cio' si aggiunga che nelle ipotesi di concorso di persone nello
stesso  reato  e'  possibile  che  nel  medesimo  processo,  trattato
congiuntamente,  sia  stata  disposta,  prima  dell'entrata in vigore
della  legge  n. 251  una  separazione  di  posizioni, con rinvio per
alcuni  imputati  e  dichiarazione  di  apertura del dibattimento per
altri. Cio' determinerebbe la conseguenza - del tutto irragionevole -
che, per coloro nei cui confronti e' stato aperto il dibattimento, il
reato  si  potrebbe  prescrivere  in  un  tempo  doppio  rispetto  ai
computati che hanno «beneficiato» del rinvio.
    Una  tale conclusione appare in palese contrasto con il principio
in   base   al   quale   situazioni  identiche  devono  avere  uguale
trattamento.  La  predisposizione, pertanto, da parte del legislatore
di  una disciplina che comporta conseguenze di questo tipo non sembra
conforme all'art. 3 Cost.
    Ne'  tale  possibile  lesione del citato principio costituzionale
potrebbe   essere  esclusa  dalla  considerazione  che  solo  con  la
predisposizione  di  una  siffatta  disciplina  transitoria  (che  ha
l'effetto  di  ridurre al minimo i casi di immediata applicazione dei
nuovi  e  piu'  favorevoli  termini  di prescrizione dei reati) si e'
evitato che, sotto le mentite spoglie di una riforma del regime della
prescrizione,  il  legislatore adottasse una «amnistia impropria», in
violazione  della  peculiare  regola  della  maggioranza  qualificata
richiesta  per  l'adozione  di una legge di amnistia (art. 79 Cost. a
seguito  della  modifica  operata con la legge cost. n. 1 del 6 marzo
1992),   con   la   conseguenza   che   l'eventuale  declaratoria  di
illegittimita'  della  norma  transitoria farebbe assumere alla legge
n. 251 valenza di amnistia adottata in violazione dell'art. 79 Cost.
    Ma,  quand'anche la pronuncia di incostituzionalita' determinasse
un tale effetto, non puo' negarsi che, in un giudizio di comparazione
tra  norme  costituzionali,  il  principio  di cui all'art. 3 Cost. -
cosi'  come  quelli  ricavabili  dagli  artt. 10  e  11  Cost. (tutti
principi   fondamentali  del  nostro  ordinamento  costituzionale)  -
debbano  prevalere  sulla disposizione di una disciplina procedurale,
quale quella contemplata nel citato art. 79 Cost.
    Del  resto,  la  disciplina  transitoria in parola sembra violare
altri parametri costituzionali.
    Ritiene, infatti, questo Collegio, che il principio di necessaria
applicazione della norma penale piu' favorevole (anche se non incluso
nell'art. 25  Cost.)  trovi comunque fondamento costituzionale, quale
portato  della  civilta'  giuridica  internazionale  ed espressamente
previsto   in   convenzioni   e  trattati  internazionali  (vedi,  in
particolare,  l'art. 15 del Patto internazionale sui diritti civili e
politici,  adottato  a  New York il 16 dicembre 1966 e reso esecutivo
con  la  legge  di  ratifica  25 ottobre  1977,  n. 881,  che prevede
espressamente  che  «se  posteriormente alla commissione del reato la
legge  prevede  l'applicazione  di  una pena piu' lieve, il colpevole
deve  beneficiarne».  Nella citata legge n. 881 l'Italia ha precisato
che   tale   previsione   «deve  essere  interpretata  come  riferita
esclusivamente   alle   procedure   ancora   in  corso»,  escludendo,
conseguentemente,   che   possa   beneficiarne  chi  sia  stato  gia'
condannato con sentenza passata in giudicato).
    La  Corte  di  Giustizia  della Comunita' europea, in una recente
decisione (Grande sezione, sentenza 3 maggio 2005, Procc. C-387/2002,
C-391/2002 e C-403/2002) ha precisato che «secondo una giurisprudenza
costante,  i diritti  fondamentali costituiscono parte integrante dei
principi generali del diritto cui la Corte garantisce l'osservanza. A
tal fine, quest'ultima si ispira alle tradizioni costituzionali degli
Stati  membri  e alle indicazioni fornite dai trattati internazionali
in materia di tutela dei diritti dell'uomo cui gli Stati membri hanno
cooperato   o  aderito.  ...Orbene,  il  principio  dell'applicazione
retroattiva   della   pena   piu'  mite  fa  parte  delle  tradizioni
costituzionali  degli  Stati  membri.  Ne deriva che questo principio
deve  essere  considerato  parte integrante dei principi generali del
diritto  comunitario  che  il giudice nazionale deve osservare quando
applica  il  diritto  nazionale  adottato  per  attuare l'ordinamento
comunitario...».
    Il  principio  di necessaria applicazione retroattiva della norma
penale  piu'  favorevole e', dunque, «norma di diritto internazionale
generalmente    riconosciuta»    cui   l'ordinamento   interno   deve
conformarsi,  ai sensi dell'art. 10 Cost., nonche' principio generale
del  diritto  comunitario  (rilevante, percio', ai sensi dell'art. 11
Cost.). Ne' potrebbe correttamente operarsi una distinzione tra norme
penali  che  prevedono  una  pena  piu'  mite  e  norme  penali  che,
modificando  la disciplina di istituti di diritto penale sostanziale,
come  la  prescrizione,  incidono  direttamente  sull'estinzione  dei
reati;  queste ultime, a maggior ragione, devono, se piu' favorevoli,
essere  applicate  retroattivamente,  avendo esse l'effetto, come nel
caso  di  specie,  di determinare il proscioglimento dell'imputato e,
dunque, la «non applicazione della pena».
    Non  potrebbe, peraltro, il Collegio disapplicare direttamente la
norma  interna  per  contrasto  con  i  principi generali del diritto
comunitario,  non  sembrando  possibile  - per quanto affermato dalla
giurisprudenza  costituzionale  -  la  disapplicazione  di discipline
legislative  interne contrastanti con principi di carattere generale,
non  consacrati  cioe'  in  strumenti legislativi dell'Unione europea
dotati di efficacia diretta e immediata.
    Non  essendo,  pero',  possibile  che  restino prive di sindacato
norme di legge interne confliggenti con principi generali del diritto
internazionale  e  dell'Unione  europea,  ritiene  il Collegio che il
contrasto  possa rilevare quale violazione degli artt. 10 e 11 Cost.,
da sottoporsi percio' al Giudice delle leggi.
    Per  tali  ragioni, apparendo la questione rilevante nel presente
giudizio  e,  nei limiti suindicati, non manifestamente infondata, si
impone la rimessione della stessa a codesta Corte.