Ricorso  per la Regione Calabria, in persona del presidente della
giunta  regionale  pro  tempore,  on. Agazio  Loiero,  autorizzato  a
proporre  il  presente  ricorso  con  delibera della giunta regionale
n. 293  del  2  maggio  2006 (doc. 1), integrata dalla delibera della
giunta  regionale n. 381 del 29 maggio 2006 (doc. 2), rappresentato e
difeso,  per  procura a margine del presente atto - ed in conformita'
al  decreto  dirigenziale  n. 999  del  4 maggio 2006, numero interno
(doc.  3)  -  dall'avv. Maria Grazia Bottari, con domicilio eletto in
Roma,   presso  lo  studio  dell'avv.  Achille  Buonafede,  alla  via
Zanardelli n. 20;

    Contro  il  Presidente  del  Consiglio  dei ministri pro tempore;
avverso e per la declaratoria di illegittimita' costituzionale:
        dell'intero   decreto  legislativo  3  aprile  2006,  n. 152,
recante  «Norme  in  materia  ambientale»,  pubblicato nella Gazzetta
Ufficiale  del  14  aprile  2006, n. 88, supplemento ordinario n. 96,
nonche' delle seguenti disposizioni del medesimo decreto legislativo:
artt. 3 (comma 2), 4 (comma 1), 5 (comma 1, lettere q) e r)), 6 commi
da 6 a 8) da 7 a 22, da 26 a 34, 39, da 43 a 47, 50, 51 (comma 1), 55
(comma  4),  57,  58, 59, 61, 63, 64, 65, 67 (commi da 2 a 6), 68, 69
(commi  2  e 3), 70, 72, 73, 75, 87, 91 (commi 2 e 6), 101 (comma 7),
113  (comma 1), 114, 116, 119, 120, 121 (comma 4), 122, 123, 132, 135
(comma  2), 136, da 144 a 146, da 147 a 158, 159, 160, 176 (comma 1),
181  (commi  3,  secondo  periodo,  e  da 5 a 12), 186, 189 (commi 1,
secondo  periodo,  e  3), 195 [comma 1, lettere f), g) e t), comma 2,
lettera  b) (in ordinamento disposto con l'art. 196, comma 1, lettera
m),  ed  in  combinato disposto con l'art. 195, comma 4)], 197 (comma
1), da 199 a 207, da 208 a 211, 212 (commi 2 e 3), 214 (commi 3 e 5),
215  (commi  3,  4,  5  e  6), 216 (commi da 3 a 7 e da 10 a 15), 221
(commi  da  4 a 9) 222, 223, 224, 233, 234, 235, 236, 238 (comma 6 e,
per la parte in cui rinviano al comma 6, commi 3, 5, 7 e 8), da 239 a
253,  265  (comma 3), 267 (comma 4, lettera a), 269, (commi 2, 3, 7 e
8), 281 (comma 10), 284, 287 e da 299 a 318; allegati I, II, e V alla
Parte  seconda,  4  alla Parte quarta, IX alla Parte quinta, da 1 a 5
alla Parte sesta;
        nonche' per la declaratoria di illegittimita' costituzionale,
previa sospensione: degli articoli 4, comma 1, 5, comma 1, lettere q)
e  r),  da 7 a 22, 28, 31, comma 4, 39, 63, 64, da 299 a 318; e degli
allegati  I  e  II alla Parte seconda e da 1 a 5 alla Parte sesta del
medesimo decreto legislativo 3 aprile 2006, n. 152.

                              F a t t o

    Con  decreto  legislativo 3 aprile 2006, n. 152, pubblicato sulla
Gazzetta  Ufficiale  del 14 aprile 2006, n. 88, supplemento ordinario
n. 96,  concernente  «Norme  in  materia  ambientale»,  il Governo ha
esercitato  la  delega  ad esso conferita con legge 15 dicembre 2004,
n. 308, pubblicata sulla Gazzetta Ufficiale 27 dicembre 2004, n. 302,
supplemento  ordinario  n. 187,  recante  «Delega  al  Governo per il
riordino,  il  coordinamento  e  l'integrazione della legislazione in
materia ambientale e misure di diretta applicazione».
    Invero,  la  legge delega aveva previsto, in considerazione della
disomogeneita'   della   materia   assoggettata   ad  intervento,  la
emanazione «entro diciotto mesi dalla data di entrata in vigore della
presente legge, senza nuovi o maggiori oneri per la finanza pubblica,
di  uno  o  piu'  decreti  legislativi  di  riordino, coordinamento e
integrazione  delle  disposizioni  legislative  nei  [...]  settori e
materie  [elencati]  anche  mediante  la  redazione  di  testi unici»
(art. 1, comma 1).
    Le medesime esigenze, connesse alla «trasversalita» della materia
«ambiente»  (che,  come  precisato  in numerosi interventi di codesta
ecc.ma Corte, non e' configurabile alla stregua di una vera e propria
«materia»  di  competenza legislativa esclusiva dello Stato), avevano
indotto  il  legislatore a prevedere che i decreti delegati avrebbero
dovuto individuare «gli ambiti nei quali la potesta' regolamentare e'
delegata  alle  regioni, ai sensi del sesto comma dell'art. 117 della
Costituzione»  (art. 1,  comma  2). Contestualmente, si era stabilito
che i decreti legislativi di cui al comma 1 sarebbero stati «adottati
su proposta del Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio,
di concerto con il Ministro per la funzione pubblica, con il Ministro
per  le  politiche  comunitarie e con gli altri Ministri interessati,
sentito  il  parere  della Conferenza unificata di cui all'art. 8 del
decreto legislativo 28 agosto 1997, n. 281» (art. 1, comma 3).
    Infine,  e  per  quanto  qui  interessa,  il comma 8 del medesimo
art. 1,  nel  definire  i  criteri  direttivi  cui i decreti delegati
avrebbero  dovuto  attenersi, ha espressamente previsto che i decreti
legislativi  di cui al comma 1 si sarebbero conformati, «nel rispetto
dei principi e delle norme comunitarie e delle competenze per materia
delle  amministrazioni  statali,  nonche'  delle  attribuzioni  delle
regioni  e  degli  enti  locali, come definite ai sensi dell'art. 117
della  Costituzione,  della legge 15 marzo 1997, n. 59, e del decreto
legislativo  31 marzo 1998, n. 112, e fatte salve le norme statutarie
e  le relative norme di attuazione delle regioni a statuto speciale e
delle  province  autonome  di Trento e di Bolzano, e del principio di
sussidiarieta',  ai  [...]  principi  e  criteri  direttivi generali»
specificamente elencati (art. 1, comma 8).
    In  data  3  aprile  2006,  il  decreto legislativo oggetto della
presente impugnazione e' stato emanato.
    La  decisione  di  disattendere i principi ispiratori della legge
delega, non solo (e non tanto) riducendo ad un unico corpus normativo
la  variegata  «materia  ambientale»,  pur  avendo la possibilita' di
adottare  distinti  decreti legislativi, ma soprattutto disattendendo
ogni  onere  connesso  al  necessario rispetto del principio di leale
cooperazione  tra Stato, regioni ed enti locali, cui si uniformava il
citato  comma  8  dell'art. 1  della  legge n. 308 del 2004, e' stata
perseguita  dal  Governo con intenzionalita' e pervicacia, cosi' come
risulta dalla semplice esposizione dei fatti che segue.
    Per   l'esame   del   corposo   schema   di   decreto,   ai  fini
dell'acquisizione   del  parere  della  Conferenza  Stato-regioni  ed
autonomie locali, il Governo ha «concesso» agli enti interessati solo
sedici  giorni  (tanti  ne  sono trascorsi dal 29 novembre 2005, data
della  trasmissione dell'articolato alle regioni, fino al 15 dicembre
2005,  data  di  discussione  dell'argomento  in  sede  di Conferenza
unificata):  e  cio' a fronte di un testo legislativo composto da ben
318  articoli, oltre a molti allegati. Questi ultimi, pur costituendo
elementi  necessari  di  valutazione  in  relazione all'impatto della
normativa  sulle  sfere  di  competenza  normativa e/o amministrativa
degli  enti  regionali  e  locali, sono peraltro stati trasmessi agli
enti  interessati  solo in data 7 dicembre 2005, a pochi giorni dalla
data  fissata  per  la discussione del testo in Conferenza (docc. 4 e
5).
    In  data  13  dicembre 2005, il Presidente della Conferenza delle
regioni,  on. Vasco  Errani, in sede di riunione tecnico-preparatoria
della  seduta  della  Conferenza  unificata  del  15  dicembre  2005,
richiedeva  ai  rappresentanti del Governo di rinviare la data per la
discussione   dello  schema  di  decreto  legislativo  in  Conferenza
unificata  (doc.  6).  Con  successiva  nota fax a firma del Ministro
dell'ambiente  e della tutela del territorio, on. Altero Matteoli, il
Governo  rifiutava  di  accordare il rinvio, confermando l'ordine del
giorno della seduta del 15 dicembre 2005 (doc. 7).
    Il  rifiuto  della  richiesta  di  rinvio - pur approfonditamente
motivata,  sulla  base di specifiche esigenze connesse alla esiguita'
del  tempo  disponibile  per l'esame, alla rilevanza della materia da
trattare  ed  all'enorme  mole dell'articolato (cfr. il verbale della
riunione  tecnica  del  13  dicembre  2005,  sub  doc.  8)  -  veniva
giustificato  alla  luce  della  (pretestuosa) motivazione di seguito
riportata:  «il  Governo  non  intende  concedere  deroghe al termine
fissato   dalla  legge  per  l'esame  delle  commissioni  competenti,
considerata  la  durata  dei  termini previsti dalla legge n. 308 del
2004  e  valutato  altresi'  il  periodo  di  durata  residua»  della
legislatura  parlamentare.  Con il che, si rendeva palese che il fine
ultimo  perseguito dal Governo, con il ritardo nella trasmissione del
testo  e  con  il  successivo  rifiuto di qualunque ipotesi di rinvio
della discussione in Conferenza unificata, era solo quello di evitare
ogni   interferenza  delle  regioni  e  delle  autonomie  locali  sul
risultato  finale.  E'  chiaro infatti che il riferimento al «termine
fissato  dalla  legge  per  l'esame delle commissioni competenti» non
poteva  che  costituire un pretesto, peraltro del tutto inconferente,
per  respingere  una richiesta seria ed ampiamente giustificata dalla
necessita'    dell'effetivo   rispetto   del   principio   di   leale
cooperazione.
    Ad  aggravare  lo iato tra le pretese governative ed una corretta
dinamica procedimentale, in occasione della riunione della Conferenza
unificata  del  15  dicembre  2006,  il  Viceministro  alle attivita'
produttive,  on. Francesco  Nucara,  giustificava  il  rifiuto di una
nuova  richiesta  di  rinvio - ribadita in quella sede dal Presidente
della  Conferenza  delle  regioni  -  sulla  base della ulteriore (ma
anch'essa   pretestuosa)  motivazione  secondo  cui  il  termine  per
l'esercizio  della  delega  sarebbe  scaduto  il  giorno stesso (cfr.
verbale  della  seduta,  sub  doc. 9), trascurando di considerare che
l'infondatezza   di   una   motivazione   siffatta   (a   prescindere
dall'impossibilita'  del  rispetto  del  termine in ogni caso, ove la
scadenza fosse stata quella indicata dal Ministro) era evincibile dal
chiaro  tenore  letterale dell'art. 1 della legge delega, che fissava
in  diciotto  mesi  dalla  data  di  entrata in vigore della legge (e
dunque  dall'11  gennaio  2005)  la data ultima per l'esercizio della
delega da parte del Governo.
    In  un  clima siffatto, nessun parere veniva espresso (ne' poteva
esserlo)  da parte dei rappresentanti delle regioni e delle autonomie
locali.
    Nonostante la mancata acquisizione del parere, in data 19 gennaio
2006,  il  Consiglio  dei  ministri  approvava «in via definitiva» il
decreto legislativo (doc. 10), salvo poi doverlo riapprovare - ancora
«in  via  definitiva»  il 10 febbraio 2006 (doc. 11), successivamente
all'emanazione  del  parere  (negativo)  da  parte  della  Conferenza
unificata, avvenuta in data 26 gennaio 2006 (doc. 12).
    Occorre  a  tal proposito aggiungere - ancora in punto di fatto -
che,  in  occasione  della  seduta della Conferenza del 26 gennaio, i
rappresentanti  del  Governo  si erano limitati a «prendere atto» del
parere  negativo  espresso  dalle  istanze  regionali e locali, senza
alcun ulteriore approfondimento circa il merito del parere. Cio' vale
a  sottolineare  che,  a  fronte  di  serie obiezioni, di metodo e di
merito,  allegate  dai  rappresentanti  delle  regioni  ed  autonomie
locali,  nessuna  motivazione  veniva espressa dai rappresentanti del
Governo   in  ordine  alla  mancata  considerazione  del  parere  del
negativo.
    In  ogni caso, ed indipendentemente dal vulnus che e' derivato al
principio  di  leale  cooperazione  dalla  semplice  presa d'atto del
parere negativo da parte del Governo, occorre aggiungere che il testo
approvato  in  via  definitiva dal Consiglio dei ministri non sarebbe
comunque  stato quello sul quale il parere della Conferenza unificata
era stato richiesto ed espresso in data 26 gennaio 2006.
    In  data  15  marzo 2006, infatti, il Presidente della Repubblica
chiedeva  al Governo alcuni chiarimenti sia in ordine al procedimento
di  formazione  che  in  ordine  al merito di alcune disposizioni del
decreto legislativo, nel testo approvato in Consiglio dei ministri in
data 19 gennaio 2006.
    In  data  29  marzo  2006,  il  Consiglio  dei ministri approvava
quindi,  per  la  terza volta «in via definitiva», quello che sarebbe
divenuto il decreto legislativo n. 152 del 2006, con alcune modifiche
rispetto al testo in precedenza approvato.
    Da  tutto  quanto  sin  qui esposto risulta palese che il decreto
legislativo impugnato e' stato emanato in violazione del principio di
leale cooperazione tra Stato, regioni ed autonomie locali.
    Alla  causa di illegittimita' costituzionale dell'intero atto per
vizi  procedimentali si aggiungono, peraltro, numerose fattispecie di
illegittimita', relative sia ai rapporti tra il decreto legislativo e
la  legge  di  delega,  sia  alla  lesione  delle sfere di competenza
legislativa,  regolamentare  ed  amministrativa delle regioni e degli
enti locali.
    Il  decreto  legislativo  impugnato deve dunque essere dichiarato
costituzionalmente  illegittimo,  previa  sospensione  degli  effetti
delle  norme  meglio  indicate  in  epigrafe,  nella sua interezza o,
quantomeno,  per  i  profili  che  qui di seguito si indicheranno, in
relazione  alle  norme  individualmente  indicate  in epigrafe, per i
seguenti motivi di

                            D i r i t t o

A) Illegittimita'  costituzionale  del  decreto legislativo 14 aprile
2006,   n. 152,  nel  suo  complesso,  in  conseguenza  di  vizi  del
procedimento di formazione.
    L'esposizione  che precede, nella quale si da' conto del contesto
nel  quale il decreto legislativo n. 152 del 2006 e' stato approvato,
evidenzia  che  il  procedimento seguito si e' caratterizzato per una
costante  svalutazione  del  principio di leale cooperazione, tale da
addivenire  ad  un vero e proprio rifiuto di ascoltare punti di vista
diversi   rispetto   a   quello   governativo  (e  della  maggioranza
parlamentare), con inevitabile pregiudizio dei canoni cooperativi che
la  giurisprudenza  di codesta ecc.ma Corte ha riconosciuto, ormai da
tempi risalenti, essere cardini dei regionalismo italiano.
    La  illegittimita'  costituzionale del decreto legislativo n. 152
del  2006  nel  suo complesso discende proprio da questa indifferenza
nei  confronti  del  principio  sopra  citato, indifferenza che si e'
tradotta  una  chiara lesione delle attribuzioni costituzionali delle
regioni (oltre che degli enti locali).
    In  particolare,  la  illegittimita'  costituzionale  in discorso
trova  la  propria  manifestazione, non tanto nel mancato rispetto di
questa  o di quella disposizione regolante il procedimento da seguire
(donde  la  non  piena pertinenza dell'invocazione dell'art. 76 della
Costituzione  alla  stregua  di  un  parametro  di costituzionalita),
quanto  nel  contrasto  con  un  principio (quello, appunto, di leale
cooperazione),  la cui portata trascende le enunciazioni linguistiche
contenute  nella  legge  15 dicembre 2004, n. 308, e che si ricollega
direttamente alle esigenze di sistema mirabilmente sintetizzate nella
sentenza  n. 422  del  2002  (resa,  tra  l'altro, avendo riguardo ai
parametri  costituzionali  precedenti alla riforma costituzionale del
2001):  «quando  si abbia a che fare con competenze necessariamente e
inestricabilmente  connesse, il principio di "leale collaborazione" -
che  proprio in materia di protezione di beni ambientali e di assetto
del  territorio  trova  un  suo  campo privilegiato di applicazione -
richiede la messa in opera di procedimenti nei quali tutte le istanze
costituzionalmente rilevanti possano trovare rappresentazione».
    L'espressione  qui posta in corsivo risulta centrale per chiarire
i  termini  della  illegittimita'  costituzionale dell'intero decreto
legislativo  impugnato:  codesta  ecc.ma  Corte,  infatti,  ha  assai
opportunamente  parlato  di  «messa  in  opera»,  e non di (semplice)
«previsione»,    sottolineando   con   cio'   l'insufficienza   della
predisposizione di garanzie puramente formali di partecipazione, e la
indefettibilita'  di  una  serie  di comportamenti che, nel corso del
procedimento,  offrano  alle  istanze costituzionalmente rilevanti la
effettiva possibilita' di essere rappresentate.
    Ora,  appare  quanto  meno  problematico coniugare l'impostazione
fatta propria dalla giurisprudenza costituzionale con l'atteggiamento
tenuto  nella  fattispecie qui analizzata dal Governo. Un Governo che
ha   agito   con   l'intento   (neppure  troppo  velato)  di  rendere
sostanzialmente  impossibile  la emanazione del parere da parte della
Conferenza  unificata:  approvato  in  Consiglio  dei  ministri il 18
novembre  2005, si e' atteso sino al 29 per trasmettere il testo alle
regioni  (gli  allegati al testo sono stati resi disponibili soltanto
il 7 dicembre); adempiuto l'onere della comunicazione, si e' ritenuto
di  dover  iscrivere  il  parere  sullo schema di decreto legislativo
all'ordine  del  giorno  della seduta del 15 dicembre, costringendo i
rappresentanti   degli  enti  infrastatuali  a  chiedere  un  rinvio;
l'opposizione del Governo ad una eventualita' siffatta ha condotto al
blocco  dell'attivita'  in  sede  di  Conferenza,  testimoniato dalla
mancata espressione del parere nella seduta predetta.
    Lo  stesso  Governo,  una  volta  raggiunto lo scopo di approvare
inaudita altera parte il testo del decreto, ha reso l'intervento - di
segno  negativo - della Conferenza unificata tendenzialmente inutile,
come  dimostra il mero ossequio formale della «presa d'atto» da parte
del  Governo nel corso della seduta della Conferenza unificata del 26
gennaio  2006  e  la  iterazione  della  approvazione «definitiva» in
Consiglio  dei  ministri  del  testo  del decreto il 10 febbraio 2006
(seconda  approvazione che, come era purtroppo prevedibile, non si e'
in  alcun modo configurata come una presa in considerazione del punto
di vista espresso dai rappresentanti dei livelli infra-statuali).
    Non sfugge che comportamenti scarsamente rispettosi dell'esigenza
di  assicurare  una effettiva dialettica nell'ambito del procedimento
non  sempre  sono stati ritenuti sufficienti ad integrare gli estremi
della   sussistenza   di   un   vizio   formale   di   illegittimita'
costituzionale.  Cio'  detto,  a prescindere dalla inusitata gravita'
dei  comportamenti  registrati  con  riferimento  alla formazione del
decreto  legislativo  n. 152  del  2006 (gravita' che va ben oltre lo
«scarso   rispetto»,   integrando   piu'   propriamente   l'«assoluto
disinteresse» per la dialettica in seno al procedimento), non mancano
importanti   prese   di   posizione  da  parte  della  giurisprudenza
costituzionale, tutte finalizzate a proteggere i soggetti chiamati ad
emanare  pareri  nell'ambito  di  procedimenti  concludentisi  con la
decisione di soggetti diversi.
    La  necessita' di richiedere il parere regionale qualora esso sia
configurato  come  obbligatorio  e' stata sottolineata nella sentenza
n. 70  del  1987, con cui e' stato annullato il d.l. n. 677 del 1981,
in  quanto  contrastante con l'allora quarto comma dell'art. 54 dello
Statuto  della regione Sardegna, ai termini del quale le disposizioni
in   materia  finanziaria  dello  statuto  medesimo  possono  «essere
modificate con leggi della Repubblica su proposta del Governo o della
regione, in ogni caso sentita la regione».
    Con la sentenza n. 354 del 1994, e' stata affrontata la questione
di legittimita' costituzionale originata dalla mancata corrispondenza
dell'atto  finale  allo  schema di decreto inviato per il parere alle
commissioni  parlamentari  ed alla Conferenza Stato-regioni; nel caso
di  specie,  le  disposizioni  impugnate  sono  state  effettivamente
caducate,  anche  se  non  tanto  censurando il vizio procedimentale,
bensi'  per  la illegittima qualificazione come «norme di riforma» ad
esse attribuita.
    Piu'  di  recente,  la  sentenza  n. 110  dei  2001 ha dichiarato
l'illegittimita'  costituzionale  del  decreto  legislativo n. 96 del
1999,  in  quanto emanato in violazione del procedimento previsto per
la  sua  approvazione  dalla  legge  di delega: in particolare, si e'
stabilito  che  il  decreto  non  poteva  trovare applicazione per la
regione  Veneto,  in  quanto  il  potere  sostitutivo  del  Governo -
previsto  per  il caso di mancata approvazione da parte delle regioni
di  una  legge  volta  ad  individuare le funzioni da trasferire o da
delegare   agli  enti  locali  -  era  stato  esercitato  senza  aver
previamente  richiesto  l'emissione  dei  prescritto  parere da parte
della regione.
    Particolarmente   significative   sono   anche   le  affermazioni
contenute  nella  sentenza  n. 37  del  1989,  la quale, in relazione
all'esercizio    della    funzione   obbligatoria   nell'ambito   del
procedimento  di  formazione  dei decreti di attuazione degli statuti
speciali,  ha dichiarato incostituzionali due disposizioni del d.P.R.
n. 527  del  1987 che erano state inserite in sede di approvazione da
parte  del  Governo  senza  essere  state  sottoposte al parere della
Commissione  paritetica  prevista  dall'art. 107  dello  statuto  del
Trentino-Alto  Adige. Analogamente, nella sentenza n. 94 del 1995, si
e' riconosciuta l'illegittimita' costituzionale della modifica di una
disposizione  avvenuta  successivamente  all'emissione  del parere da
parte della medesima Commissione paritetica.
    Infine,  non  puo' non sottolinearsi come dalla giurisprudenza di
codesta  ecc.ma  Corte  emerga  altresi' la necessita' di far luogo a
pareri, anche indipendentemente dalla loro esplicita previsione nella
disciplina   di   formazione  dell'atto  normativo  primario:  a  tal
proposito,  deve  segnalarsi  la  sentenza  n. 398 del 1998, che reca
dispositivi di incostituzionalita' derivanti dalla circostanza che la
normativa  incidesse  sulle  competenze  delle  regioni  senza che le
stesse  fossero  state poste in grado di pronunciarsi, nella forma di
un parere, sulla sua adozione.
    E' alla luce dei precedenti qui passati sommariamente in rassegna
che  si  ritiene  di  dover  concludere  nel  senso  che  il  decreto
legislativo  n. 152  del  2006,  per  il  suo  essere stato emanato a
seguito  di  un  procedimento  caratterizzato  dalla  violazione  del
principio   di   leale  cooperazione,  e',  nella  sua  integralita',
costituzionalmente illegittimo per vizio formale.
B)  Illegittimita' costituzionale di parti e disposizioni del decreto
legislativo 14 aprile 2006, n. 152.
    Oltre  all'invalidita'  del  decreto  legislativo n. 152 del 2006
derivante da vizi procedimentali, debbono farsi valere, in subordine,
ulteriori   gravi   ragioni  di  illegittimita'  costituzionale,  che
riguardano  singole  disposizioni  o  addirittura  parti  dei decreto
medesimo.
B.1) Parte prima (Disposizioni comuni).
    Illegittimita' costituzionale dell'art. 3, comma 2.
    In   questa  parte,  e  segnatamente  all'art. 2,  enunciando  le
finalita' che il decreto legislativo impugnato persegue, si evidenzia
come  non  esista un unico titolo competenziale cui fare riferimento,
bensi'  una  pluralita'  di  competenze  tra  loro  compenetrate.  In
quest'ottica,  e' significativo che l'art. 2, comma 1, individui come
«obiettivo  primario»  la  «promozione  dei livelli di qualita' della
vita   umana»,  da  realizzare  attraverso  «la  salvaguardia  ed  il
miglioramento   delle   condizioni  dell'ambiente  e  l'utilizzazione
accorta  e  razionale  delle  risorse naturali»: l'obiettivo primario
pare  dunque  riconducibile,  per  l'essenziale, alla materia «tutela
della salute» (art. 117, terzo comma, della Costituzione), mentre gli
strumenti  attraverso cui perseguirlo richiamano le due materie della
«tutela  dell'ambiente»  (art. 117,  secondo  comma, lettera s) e dei
«governo del territorio» (art. 117, terzo comma).
    Come  si vede, lo stesso legislatore delegato ha riconosciuto, in
linea  di  principio, la sussistenza di una pluralita' di competenze,
di  natura  diversa, cio' che impone di operare una valutazione circa
la  validita' delle singole discipline approntate che sia strutturata
sulla  base della «concorrenza di competenze», sull'assunto che, come
evidenziato da codesta ecc.ma Corte, «per la composizione di siffatte
interferenze la Costituzione non prevede espressamente un criterio ed
e'  quindi necessaria l'adozione di principi diversi: quello di leale
collaborazione,  che per la sua elasticita' consente di aver riguardo
alle  peculiarita'  delle  singole  situazioni, ma anche quello della
prevalenza,  [...]  qualora appaia evidente l'appartenenza dei nucleo
essenziale  di un complesso normativo ad una materia piuttosto che ad
altre»  (sentenza  n. 50  del  2005,  poi,  sul  punto, ripetutamente
ripresa).
    Sulla  scorta  di  questi  rilievi, e' chiaramente censurabile la
disposizione  di  cui  all'art. 3,  comma  2, del decreto legislativo
impugnato,   per   violazione   dell'art. 117,   sesto  comma,  della
Costituzione.  La  lesione delle competenze legislative della regione
appare   evidente,   in   quanto,   ai   termini  della  disposizione
costituzionale   appena   citata   (oltre   che   per  giurisprudenza
consolidata),  lo  Stato  puo'  adottare atti di natura regolamentare
soltanto  nelle materie di sua competenza esclusiva. Nella specie, la
disposizione  impugnata  non  lascia  adito  a  dubbi di sorta, nella
misura   in   cui   prevede  che,  «entro  due  anni  dalla  data  di
pubblicazione  del  presente  decreto  legislativo,  con  uno  o piu'
regolamenti  da  emanarsi ai sensi dell'art. 17, comma 2, della legge
23  agosto  1988,  n. 400,  il  Governo,  su  proposta  del  Ministro
dell'ambiente  e  della  tutela  del  territorio,  adotta i necessari
provvedimenti  per  la  modifica  e l'integrazione dei regolamenti di
attuazione  ed  esecuzione  in materia ambientale, nel rispetto delle
finalita',  dei  principi  e  delle  disposizioni  di cui al presente
decreto».
    In  via  dei tutto subordinata, qualora la disposizione impugnata
dovesse  essere  interpretata  come  riferita unicamente alla materia
«tutela dell'ambiente», ascrivibile alla competenza esclusiva statale
nei  termini  configurati  dalla  giurisprudenza  costituzionale,  vi
sarebbe  una  palese  violazione del principio di leale cooperazione,
poiche'  la indeterminatezza del contenuto degli emanandi regolamenti
e  comunque la contiguita' della competenza statale con le competenze
regionali  esigono  che  su questi si pronunci, in sede di parere, la
Conferenza unificata.
B.2) Parte   seconda   (Procedure   per   la  valutazione  ambientale
strategica (VAS), per la valutazione d'impatto ambientale (VIA) e per
l'autorizzazione ambientale integrata (IPPC).
    Illegittimita' costituzionale degli artt. 4, comma 1, 5, comma 1,
lettere  q) e r), 6, commi da 6 a 8, da 7 a 22, da 26 a 34, 39, da 43
a  47,  50  e  51,  comma  1,  e  degli allegati I. II e V alla Parte
seconda.
    a) La  disciplina  delle  valutazioni  ambientali  e'  un  chiaro
esempio  di  come  la  «tutela  dell'ambiente», materia «trasversale»
(secondo  l'insegnamento  di codesta ecc.ma Corte, a far tempo almeno
dalla sentenza n. 407 del 2002), si compenetra con altre materie.
    Per quanto attiene alla VAS, la tutela dell'ambiente si inserisce
nel  procedimento  di approvazione di piani e programmi di intervento
sul  territorio:  e'  allora inequivocabile la compresenza, al fianco
della  materia  «tutela  dell'ambiente»,  della  materia «governo del
territorio»,   di  competenza  concorrente,  senza  poter  trascurare
l'obiettivo  di  fondo  per  la  quale  la  valutazione ambientale e'
configurata, vale a dire quello di garantire agli abitanti il diritto
all'ambiente  salubre,  uno  degli  ambiti  fondamentali nei quali si
estrinseca  il diritto alla salute che l'art. 117 della Costituzione,
al  terzo comma, declina come «tutela della salute», affidandolo alla
cura concorrente di Stato e regioni.
    La  concorrenza  delle competenze «tutela della salute», «governo
del  territorio»  e  «tutela  dell'ambiente»  e'  rintracciabile,  in
termini sostanzialmente congruenti, per la VIA, nella quale la tutela
dell'ambiente   si  inquadra  nel  procedimento  di  approvazione  di
progetti di opere ed interventi.
    Nel   caso   specifico,   deve  peraltro  sottolinearsi  come  il
legislatore  delegante abbia posto un ulteriore limite al Governo, in
sede   di   emanazione   del  decreto  legislativo,  derivante  dalla
necessita'  di  tener conto dello stato della legislazione inveratasi
nel  corso  degli  anni.  Viene in rilievo, in particolare, l'art. 1,
comma 8, della legge, sulla base del quale il Governo deve legiferare
«nel  rispetto  dei  principi  e  delle  norme  comunitarie  e  delle
competenze  per  materia delle amministrazioni statali, nonche' delle
attribuzioni  delle  regioni  e  degli  enti locali, come definite ai
sensi  dell'art. 117  della  Costituzione, della legge 15 marzo 1997,
n. 59,  e  del decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112, [...] e del
principio di sussidiarieta».
    Dal   brano   appena   citato  si  ricava  chiaramente  un  ruolo
fondamentale,  ai  fini  dell'individuazione di un punto fermo per le
competenze  regionali,  e' da ascrivere al decreto legislativo n. 112
del 1998, il cui mancato rispetto, sub specie di «arretramento» delle
ragioni  dell'autonomia,  si  traduce  in una violazione dell'art. 76
della  Costituzione,  violazione  all'evidenza  ex se incidente sulle
attribuzioni regionali.
    Ora, stante la portata assunta dal decreto legislativo n. 112 del
1998,  non  puo'  non  evidenziarsi  il suo art. 71, il quale, per un
verso,  indica  espressamente  (e tassativamente) le opere soggette a
VIA  di  competenza  statale  (comma 1) e, per l'altro, presuppone la
vigenza  di  leggi regionali in materia di VIA, a dimostrazione della
sussistenza  -  gia'  anteriormente  alla  riforma dei Titolo V della
Parte  seconda  della  Costituzione  -  di  titoli  legittimanti  una
disciplina autenticamente regionale.
    Tenendo  conto di quanto si e' venuti dicendo, alla situazione di
«concorrenza di competenze» indicata non puo' che applicarsi cio' che
codesta  ecc.ma  Corte  ha,  in analoga fattispecie (sebbene in altro
contesto  normativo),  rilevato  con la sentenza n. 219 del 2005, la'
dove  ha  escluso  che potesse «ravvisarsi la sicura prevalenza di un
complesso  normativo  rispetto  ad altri, che rend[esse] dominante la
relativa   competenza   legislativa»,   deducendo  la  necessita'  di
«ricorrere  al  canone  della  "leale collaborazione" che impone alla
legge  statale  di  predisporre  adeguati strumenti di coinvolgimento
delle regioni, a salvaguardia delle loro competenze».
    Seguendo  l'insegnamento  della giurisprudenza costituzionale, le
disposizioni  della  Parte  seconda del decreto legislativo impugnato
sono  soggette  ad  un  giudizio in merito alla prevalenza dell'uno o
dell'altro  titolo  competenziale. Si avra' modo di rilevare - infra,
sub  (c) e (d) - che tale prevalenza, tanto nel caso della VAS quanto
nel caso della VIA, spetta a materie di competenza concorrente.
    Ponendosi, tuttavia, per il momento nell'ottica della sussistenza
di  una  «concorrenza  di  competenze»  su  base paritaria, di fronte
all'insistere di una materia «trasversale» («tutela dell'ambiente») e
due  materie  concorrenti  («governo  del territorio» e «salute»), il
canone  cui  informare  l'intera  produzione legislativa non puo' che
essere  quello della leale cooperazione, che impone di garantire alle
regioni   una   partecipazione   effettiva   ed  efficace,  declinata
essenzialmente nella forma dell'intesa, sia al procedimento formativo
dell'atto   di   disciplina   della   materia   sia  ai  procedimenti
amministrativi che ne susseguano.
    In  un  contesto  siffatto, una formazione «unilaterale» da parte
dello  Stato,  quale  e'  indiscutibilmente quella recata dal decreto
legislativo n. 152 del 2006, non puo' trovare cittadinanza se non per
quanto  specificamente  (e rigorosamente) riguarda la enucleazione di
principi   affatto   fondamentali,  sulla  cui  base  articolare  una
normativa  che,  per  le  parti  che  non siano di puro dettaglio (in
ordine  alle  quali  esigenze  di  funzionalita',  ancor prima che di
sistema,  impongono  che  la  competenza  normativa  spetti  all'ente
competente   sul   piano   amministrativa),   si  connotino  per  una
tendenziale codecisione degli atti.
    A  conferma  della  impossibilita'  per  lo Stato di agire in via
esclusiva,  giungendo  a  specificazioni  che  superano la dimensione
della  normativa  di  principio puo' addursi la stessa configurazione
dell'unica  materia  rilevante  nel  caso  di specie che sia compresa
nell'elenco  del  secondo  comma dell'art. 117 della Costituzione. La
predisposizione  di  standards  di  tutela  uniformi,  infatti, e' il
limite entro il quale e' definibile - sulla scia della giurisprudenza
costituzionale  -  la  materia «tutela dell'ambiente» come materia di
competenza  di  spettanza dello Stato (e' in tal senso inequivocabile
il tenore testuale del brano seguente della sentenza n. 407 del 2002,
poi  costantemente  ribadito:  «i  lavori  preparatori  relativi alla
lettera  s)  del  nuovo  art. 117 della Costituzione inducono [...] a
considerare  che  l'intento  del  legislatore  sia  stato  quello  di
riservare  comunque  allo  Stato  il  potere  di fissare standards di
tutela  uniformi  sull'intero  territorio  nazionale,  senza peraltro
escludere  in  questo  settore  la  competenza regionale alla cura di
interessi    funzionalmente   collegati   con   quelli   propriamente
ambientali.  In definitiva, si puo' quindi ritenere che riguardo alla
protezione  dell'ambiente non si sia sostanzialmente inteso eliminare
la preesistente pluralita' di titoli di legittimazione per interventi
regionali  diretti  a  soddisfare  contestualmente, nell'ambito delle
proprie competenze, ulteriori esigenze rispetto a quelle di carattere
unitario definite dallo Stato»).
    Da quanto precede, la conclusione cui deve giungersi e' che tutte
le  disposizioni  di  dettaglio  contenute  nella  Parte  seconda del
decreto legislativo impugnato - disposizioni che verranno individuate
infra,  sub  (c) e (d) - sono inficiate dalla loro contrarieta' con i
commi  secondo, lettera s), e terzo dell'art. 117 della Costituzione,
oltre  che  con  l'art. 118  della Costituzione e con il principio di
leale  cooperazione.  Cio'  per un duplice ordine di motivi, tra loro
alternativi:   le  disposizioni  recanti  una  disciplina  di  minuto
dettaglio  evidenziano  sic  et  simpliciter una esorbitanza posta in
essere  dal  legislatore statale rispetto alle proprie competenze; le
disposizioni di carattere piu' generale, che non possono pero' essere
definite  alla  stregua  di  principi fondamentali (potendo, al piu',
indicarsi   come   espressione  di  standards  di  tutela  uniformi),
presentano il vizio discendente dall'essere state approvate senza dar
corso alla dovuta procedura di codecisione.
    Cosi' ricostruito il quadro competenziale relativo alle procedure
di  valutazione  ambientale,  le  disposizioni censurande contrastano
altresi'  con  il  quinto comma del medesimo articolo, nella parte in
cui   stabilisce  che  «le  regioni  [...],  nelle  materie  di  loro
competenza,  [...]  provvedono all'attuazione ed all'esecuzione [...]
degli atti dell'Unione europea [...]».
    Cio'  in quanto - come espressamente sancito all'art. 4, comma 1,
del  decreto  legislativo  impugnato  - la disciplina posta in essere
costituisce  attuazione  «della  direttiva  2001/42/CE del Parlamento
europeo   e  del  Consiglio,  del  27  giugno  2001,  concernente  la
valutazione   degli   effetti   di   determinati  piani  e  programmi
sull'ambiente»   (lettera  a),  e  «della  direttiva  85/337/CEE  del
Consiglio  del  27 giugno 1985, concernente la valutazione di impatto
ambientale   di   determinati   progetti  pubblici  e  privati,  come
modificata ed integrata con la direttiva 97/11/CE del Consiglio del 3
marzo  1997  e  con  la  direttiva  2003/35/CE  del  Parlamento e dei
Consiglio,  del  26  maggio  2003  e  della direttiva 96/61/CE del 24
settembre  1996 recepita con il decreto legislativo 18 febbraio 2005,
n. 59,    in   materia   di   prevenzione   e   riduzione   integrate
dell'inquinamento» (lettera b). Per quanto si e' visto, e' chiaro che
l'attuazione  integrale  delle  direttive  fuoriesce dalle competenze
dello Stato, cui spetta soltanto l'attuazione pro parte.
    La  centralita'  del  principio  cooperativo  nella ricostruzione
delle  attribuzioni  costituzionali  rispettive di Stato e regioni si
esprime  attraverso  procedimenti, ma non puo' non esprimersi anche -
anzi,  in  primo  luogo - sul piano organico. E' sulla base di questa
constatazione  che  deve  censurarsi, per violazione del principio in
parola, l'art. 6, limitatamente ai commi da 6 a 8.
    La   doglianza  si  incentra  sulla  mancata  previsione  di  una
effettiva   partecipazione   dei   rappresentanti   delle   autonomie
territoriali  alla  Commissione tecnico-consultiva per le valutazioni
ambientali.  Al  riguardo, e' sufficiente constatare la rilevanza che
assumono   le   funzioni   di   carattere  generale  attribuite  alla
Commissione  dall'art. 6,  comma 2 («supporto tecnico-scientifico per
l'attuazione  delle  norme  di  cui  alla  parte seconda del presente
decreto»),  e  dal  comma  4,  lettera  c)  («prevenzione e riduzione
integrate  dell'inquinamento»),  per  censurare  la  mancanza  di una
rappresentanza  permanente  delle  autonomie  in  un  organo  la  cui
attivita'  incide  su  settori  («tutela  della salute», «governo del
territorio»,  «tutela  dell'ambiente»)  tali da rendere indefettibile
una presenza istituzionale di regioni ed enti locali. Tanto premesso,
appare  chiara  la  incostituzionalita' dei commi 6, 7 e 8, alla luce
dei  quali  ciascuna  regione deve assumersi l'onere di dimostrare di
volta   in   volta   lo   specifico   interesse  regionale  coinvolto
dall'esercizio di una attivita' soggetta alle norme di cui alla Parte
seconda  del  decreto impugnato per poter partecipare ai lavori della
Commissione.  All'evidenza,  l'interesse  della  regione e' immanente
alla  stessa  logica  del titolo del decreto sull'impatto ambientale,
per  cui  la semplice eventualita' della loro partecipazione viola il
principio  di  leale e paritetica cooperazione tra Stato ed autonomie
territoriali.
    c) Con  precipuo  riguardo  alla  disciplina  della  VAS, debbono
individuarsi  tre  diversi  profili di illegittimita' costituzionale,
riferiti   ora   all'integralita'   della  normativa  ora  ad  alcune
disposizioni.
    (\alpha  )  La  prima  ragione  di illegittimita' costituzionale,
assolutamente pregiudiziale e' quella derivante dall'avvenuta patente
violazione  degli  artt. 76  e  77,  primo comma, della Costituzione,
sotto  il  profilo  del  mancato  rispetto del presupposto del potere
legislativo governativo dato dal «tempo limitato».
    Il  decreto  legislativo  impugnato,  adottato  sulla  base della
delegazione  contenuta  nella  legge n. 308 del 2004, per la parte in
cui costituisce recepimento della direttiva 2001/42/CE del Parlamento
europeo  e  del  Consiglio,  del  27 giugno 2001, non puo' che essere
ritenuto  radicalmente  illegittimo. La previsione della legge n. 308
del  2004,  secondo cui il Governo era delegato a «garantire il pieno
recepimento  della direttiva 2001/42/CE» (art. 1, comma 9, lettera f)
e'  stata  infatti  abrogata  per incompatibilita' dall'art. 19 della
legge  18  aprile  2005,  n. 62,  ai termini del quale «il Governo e'
[stato] delegato ad adottare, entro sei mesi dalla data di entrata in
vigore  della  presente  legge, un decreto legislativo di recepimento
della direttiva 2001/42/CE [...]».
    La  legge  n. 62  del 2005, in buona sostanza, e' intervenuta per
limitare  lo spatium decidendi del legislatore delegato, vincolandolo
a  provvedere  entro  il  giorno  10  novembre  2005  (sei  mesi dopo
l'entrata  in vigore della legge, avvenuta in data 11 maggio 2005), e
sulla  base  di  principi e criteri direttivi - indicati anch'essi al
comma  1  dell'art. 19  - parzialmente difformi da quelli individuati
dalla legge n. 308 del 2004.
    Sulla  scorta di un orientamento ormai consolidato, nessun dubbio
sussiste  sulla efficacia immediata delle disposizioni deleganti - da
tener  distinte, ovviamente, da quelle che pongono principi e criteri
direttivi,  la cui efficacia e' subordinata all'entrata in vigore del
decreto  legislativo (cfr., ad es., V. Crisafulli, Lezioni di diritto
costituzionale,  II.  1.  Le  fonti normative. VI ed., Padova, CEDAM,
1993,  p.  96) -, donde l'impossibilita' di propugnare, in assenza di
clausole  a  cio'  rivolte  nella  legge n. 62 del 2005, una sorta di
«reviviscenza»  della  delega  di cui alla legge n. 308 del 2004, una
volta  spirato  infruttuosamente  il termine di cui alla legge n. 62.
D'altra  parte,  l'assenza,  nel  preambolo  del  decreto legislativo
impugnato,  di  ogni  riferimento  all'art. 19  della legge n. 62 del
2005,  lungi  dal  poter avallare una inammissibile lettura in questo
senso,  altro non e' che il frutto di una «dimenticanza voluta» della
vera  fonte del potere delegato che e' stato tardivamente esercitato:
la'  dove la legge n. 62 del 2005 non poneva problemi di legittimita'
costituzionale dell'atto posto in essere, essa non e' stata, infatti,
dimenticata,  come dimostra l'avvenuta abrogazione del suo art. 30 da
parte  dell'art. 48,  comma  1,  lettera  n), del decreto legislativo
n. 152 del 2006.
    Il  vizio  ora  denunciato  ha  evidenti  ricadute sulla sfera di
competenza delle regioni: le ragioni della lesivita' - esposte supra,
sub  (a), ed infra, sub (\beta ) e (\gamma ) - consentono il richiamo
a  quella  giurisprudenza  costituzionale (ampiamente consolidata sia
prima  che  dopo  la  riforma  del Titolo V della Parte seconda della
Costituzione)  secondo cui, «nel giudizio promosso in via principale,
il  vizio  di  eccesso  di  delega puo' essere addotto solo quando la
violazione  denunciata  sia  potenzialmente  idonea a determinare una
vulnerazione   delle  attribuzioni  costituzionali  delle  regioni  o
province autonome ricorrenti» (sentenza n. 303 del 2003).
    Alle  ragioni  di lesivita' enunciate deve aggiungersi il rilievo
che  il  mancato  esercizio della delega legislativa, associato ad un
suo  tardivo  ed  illegittimo  esercizio, ha creato una situazione di
confusione   nella   quale  l'attivita'  amministrativa  (oltre  che,
ovviamente,  quella  normativa) delle regioni ha dovuto ovviare ad un
inadempimento  di  obblighi  comunitari  (il termine per l'attuazione
della  direttiva  e'  stato  fissato, dall'art. 13 della medesima, al
21 luglio  2004)  ed e' destinata - in assenza di una declaratoria di
illegittimita'  costituzionale  da parte di codesta ecc.ma Corte - ad
adeguarsi ad una disciplina inevitabilmente instabile, soggetta cioe'
a  piu' che probabili future questioni di legittimita' costituzionale
in via incidentale. E' del resto pacifico, anche nella giurisprudenza
costituzionale,  che  la  certezza del diritto, valore di «importanza
fondamentale  per il funzionamento dello Stato democratico» (sentenza
n. 422  del  1995), giustifica, di per se', un intervento caducatorio
che  miri  a  preservare  questo  «cardine  della  civile convivenza»
(sentenza  n. 155 del 1990). A tal proposito codesta ecc.ma Corte non
ha  mancato  di  sottolinearlo,  proprio  in  sede di giudizio in via
principale,  e  proprio  con  precipuo  riferimento  ai  rapporti tra
ordinamento  interno ed ordinamento comunitario: «poiche' nei giudizi
di costituzionalita' in via principale l'oggetto dei giudizio stesso,
non  e'  una  norma  in  quanto  applicabile, ma una norma di per se'
lesiva  delle  competenze  costituzionalmente  garantite alle regioni
(nel  caso di impugnazione di leggi statali da parte delle regioni) o
ex se violatrice di norme costituzionali (nel caso di impugnazione di
leggi  regionali  da  parte  dello Stato) - tanto che in tali giudizi
possono  essere  contestate  anche  disposizioni  di legge non ancora
efficaci  o  ad  efficacia  differita  [...]  - non si rinviene, come
invece  nei giudizi in via incidentale, alcun ostacolo processuale in
grado  di  precludere  alla  Corte la piena salvaguardia, con proprie
decisioni, dei valore costituzionale della certezza e della chiarezza
normativa  di  fronte a ipotesi di contrasto di una norma interna con
una comunitaria. Ne' e' senza significato la considerazione che, dati
i  ricordati  caratteri  dei  giudizio  in  via  principale,  la "non
applicabilita'"   della   norma   interna   confliggente  con  quella
comunitaria  rappresenterebbe, nei casi in cui il contrasto normativo
si  palesasse  nell'ambito  di quel giudizio, una garanzia inadeguata
rispetto  al  soddisfacimento  del  dovere,  fondato  sull'art. 5 del
Trattato  di  Roma e sull'art. 11 della Costituzione, di dare pieno e
corretto  adempimento  agli  obblighi comunitari» (sentenza n. 94 del
1995, ma, nel medesimo senso, anche la sentenza n. 384 del 1994).
    Anche  in ragione di quanto da ultimo dedotto, la conclusione cui
deve  addivenirsi  e' quella della illegittimita' costituzionale, per
violazione dell'art. 76 della Costituzione, degli artt. da 7 a 22 del
decreto  legislativo impugnato, dell'art. 4, comma 1, lettera a), del
decreto medesimo, nonche' degli allegati I e II alla Parte seconda.
    Ad  infirmare una siffatta conclusione non giova neppure invocare
il  disposto  dell'art. 1  della  legge n. 62 del 2005, che delega il
Governo «ad adottare, entro il termine di diciotto mesi dalla data di
entrata in vigore della presente legge, i decreti legislativi recanti
le norme occorrenti per dare attuazione alle direttive comprese negli
elenchi  di  cui  agli  allegati  A  e  B»:  se e' vero, infatti, che
nell'elenco   di  cui  all'allegato  B  compare  anche  la  direttiva
2001/42/CE, e' altrettanto vero che la norma di cui all'art. 19 e' da
ritenersi  prevalente  rispetto a quella di cui all'art. 1, in quanto
norma speciale.
    Il  criterio  di  risoluzione  delle  antinomie  secondo  cui lex
specialis  derogat  generali  e'  di per se' sufficiente a confermare
l'illegittimita'   costituzionale   delle  disposizioni  del  decreto
legislativo  n. 152  del  2006  che  costituiscono  attuazione  della
direttiva   2001/42/CE.   Quand'anche,   tuttavia,   si  ritenesse  -
inammissibilmente  -  insussistente  il rapporto di specialita', e si
giungesse,  dunque, all'applicazione dell'art. 1 (e non dell'art. 19)
della  legge  n. 62  del  2005, la conclusione necessitata resterebbe
quella   della  illegittimita'  costituzionale.  Cio'  in  quanto  il
procedimento   di   formazione   del  decreto  legislativo  disegnato
dall'art. 1  della  legge  n. 62  differisce  profondamente da quello
seguito  nella  specie  (in  -  peraltro  non piena, come si e' visto
supra,  sub  [A]  - consonanza con la delega di cui alla legge n. 308
del  2004):  a tacere di altre differenze, basti citare i commi 2 e 6
dell'art. 1  della  legge n. 62, recanti prescrizioni palesemente non
rispettate  in  sede di emanazione dei decreto legislativo n. 152 del
2006.
    Dal  comma  2  emerge,  infatti,  una  discrasia significativa in
merito  ai soggetti proponenti: «i decreti legislativi sono adottati,
nel  rispetto  dell'art.  14  della  legge 23 agosto 1988, n. 400, su
proposta del Presidente dei Consiglio dei ministri o del Ministro per
le  politiche comunitarie e del Ministro con competenza istituzionale
prevalente  per  la  materia, di concerto con i Ministri degli affari
esteri,  della  giustizia,  dell'economia  e  delle finanze e con gli
altri Ministri interessati in relazione all'oggetto della direttiva».
    Dal  mancato  rispetto  dei comma 6 si deduce, invece, una palese
compressione  delle prerogative regionali, giacche', ai termini della
disposizione   in   discorso,   «in   relazione   a  quanto  disposto
dall'articolo  117,  quinto  comma,  della  Costituzione,  i  decreti
legislativi   eventualmente  adottati  nelle  materie  di  competenza
legislativa  delle  regioni  e delle province autonome di Trento e di
Bolzano  entrano  in  vigore,  per  le regioni e le province autonome
nelle  quali  non  sia  ancora  in  vigore  la  propria  normativa di
attuazione,   alla   data  di  scadenza  del  termine  stabilito  per
l'attuazione della normativa comunitaria e perdono comunque efficacia
a  decorrere  dalla  data  di  entrata  in  vigore della normativa di
attuazione  adottata  da  ciascuna  regione  e provincia autonoma nel
rispetto  dei vincoli derivanti dall'ordinamento comunitario e, nelle
materie   di   competenza   concorrente,  dei  principi  fondamentali
stabiliti dalla legislazione dello Stato». A suggello dell'attenzione
verso le ragioni delle autonomie territoriali, si aggiunge, ancora al
comma  6,  che  «i decreti legislativi recano l'esplicita indicazione
della  natura  sostitutiva  e  cedevole  delle  disposizioni  in essi
contenute».   Nulla  di  tutto  questo  e'  contemplato  nel  decreto
legislativo   n. 152   del   2006,   a  testimonianza  ulteriore  del
disinteresse  mostrato  dallo Stato nei confronti degli altri livelli
di  governo  (ma,  verrebbe  da  dire,  anche nei confronti della sua
stessa  opera,  vista la totale elusione di ogni prescrizione dettata
soltanto  un  anno  prima  dell'emanazione  dei  decreto  legislativo
impugnato).
    (\beta   )   Con  riferimento  al  merito  della  normazione,  le
considerazioni  svolte  sub  (a)  debbono  qui  essere specificate ed
integrate, sottolineando preliminarmente che il Titolo III, Capo III,
dei  decreto  legislativo n. 112 del 1998, concernente la «Protezione
della natura e dell'ambiente, tutela dell'ambiente dagli inquinamenti
e  gestione  dei  rifiuti»,  non contempla, tra i «Compiti di rilievo
nazionale»  (art. 69),  gli  ambiti di materia da sottoporre alla VAS
descritti  dall'art. 7, commi 1, 2 (fatta eccezione per la lettera b)
e  3,  del  decreto legislativo n. 152 del 2006; da cio' consegue che
tutte  le  fasi  procedimentali  contenute negli artt. da 8 a 14, che
recano  disposizioni  procedimentali  comuni  in  materia  di VAS, si
risolvono  in attivita' di gestione del territorio riconducibile, nei
suo  complesso, ad aspetti di dettaglio di una disciplina sotto molti
profili  collegata alla competenza concorrente in materia di «governo
del  territorio»,  per  la quale un ordinato riparto delle competenze
legislative  ed amministrative rende necessitata una disciplina posta
in  essere  dallo Stato, per i procedimenti amministrativi di propria
spettanza,  e  direttamente  (ed  interamente) dalle regioni, per gli
altri procedimenti amministrativi.
    La  illegittimita'  costituzionale degli artt. da 8 a 14 ingenera
altresi'  la invalidita' dell'art. 22, nella parte in cui prevede che
siffatti  articoli  si  irripongano  al  legislatore  regionale nella
disciplina della VAS in sede regionale. Ad evitare la declaratoria di
illegittimita'  costituzionale  di  tutti  gli  articoli  menzionati,
l'effetto    pregiudizievole   nei   confronti   delle   attribuzioni
costituzionali  delle  regioni  non  puo'  essere  rimosso attraverso
l'incostituzionalita'  del  solo  art. 22,  sull'assunto  che, in tal
modo,  le  disposizioni  di  cui  agli  artt. da 8 a 14 verrebbero ad
imporsi,  allora,  soltanto  alla  VAS  in  sede statale: a cio' osta
finanche   la   titolazione   del   Capo  I,  che,  nel  riferirsi  a
«disposizioni  comuni  in  materia  di  VAS», ha, per sua natura, una
portata generale, insuscettibile di limitazioni in via ermeneutica.
    Qualora   l'impostazione  qui  espressa  non  fosse  accolta,  le
argomentazioni   svolte   sub   (a),   relativamente  alla  eventuale
sussistenza di una «concorrenza di competenze», imporrebbero comunque
la  dichiarazione  di  illegittimita'  costituzionale  delle seguenti
disposizioni:
        l'art. 9, che, nei commi 2, secondo periodo, 4 e 6, specifica
in  modo estremamente dettagliato i contenuti dei rapporto ambientale
(nel quale, ai termini del primo periodo dei comma 2, «debbono essere
individuati,  descritti  e  valutati  gli  effetti  significativi che
l'attuazione  del  piano  o  del  programma  proposto  potrebbe avere
sull'ambiente  e  sul  patrimonio  culturale,  nonche' le ragionevoli
alternative che possono adottarsi in considerazione degli obiettivi e
dell'ambito territoriale dei piano o del programma stesso»);
        l'allegato  I  alla  Parte  seconda  del  decreto legislativo
impugnato,  oggetto  di  rinvio da parte dell'art. 9, comma 2, che si
sofferma  sul  minuto  dettaglio  delle  informazioni da inserire nel
rapporto ambientale;
        l'art. 10,  commi  2, secondo periodo, e 3, che specifica nel
dettaglio  le  forme di pubblicita' di un documento, quale la sintesi
non  tecnica,  che dovrebbe consentire (almeno secondo il legislatore
statale)  ai  soggetti interessati una adeguata informazione circa il
piano o il programma proposto;
        l'art. 12,  commi  2,  3  e  4,  che  si  sofferma in maniera
analitica  (ed  ultronea rispetto all'obiettivo di dare una normativa
quadro)  sulle  modalita'  mediante  le  quali operare il giudizio di
compatibilita'     ambientale    e,    conseguentemente,    procedere
all'approvazione del piano o del programma proposto;
        l'art. 14,   comma   3,   che  rinvia  all'art. 10,  comma  3
(anch'esso   censurato),   per   la  specificazione  delle  forme  di
pubblicita'  da  adottare  in  caso  di adozione di misure correttive
sollecitate a seguito di controlli sugli effetti ambientali derivanti
dall'attuazione dei piani e dei programmi approvati.
    Le   norme   censurate   possono  essere  tutte  ricondotte  alla
regolamentazione  di  aspetti  di  dettaglio, con l'eccezione, forse,
dell'art. 12,  commi  2,  3 e 4, i cui contenuti non possono comunque
assurgere  al rango di principi fondamentali: la loro determinazione,
dunque,  avrebbe dovuto essere «concordata» con le istanze regionali,
al  fine di rendere effettivo il dovere di cooperare lealmente cui si
e' fatto riferimento supra, sub (a).
    (\gamma  )  Alcune disposizioni concernenti la VAS sono inficiate
dal  mancato rispetto del principio di leale cooperazione. Tali sono,
in  particolare,  gli  artt. 16  e 17, che nel disciplinare la VAS in
sede statale omettono qualunque possibilita' di intervento di istanze
regionali  nel  procedimento che conduce all'approvazione del piano o
dei  programma  proposto.  Come e' ovvio, un piano o un programma che
abbia   potenzialmente   effetti  sull'ambiente,  se  anche  richiede
l'autorizzazione  da  parte  di  organi statali, non puo' certo dirsi
indifferente  per  quei livelli di governo sul cui territorio incida:
viene  qui pienamente in evidenza la «concorrenza di competenze», che
si  concretizza  proprio negli effetti di una valutazione che, avendo
come  canone  di riferimento l'«ambiente», non puo' prescindere dalla
considerazione  per  altri  interessi parimenti meritevoli di tutela,
quali la salute collettiva ed un corretto governo del territorio.
    d) La  disciplina della VIA presenta anch'essa diversi profili di
illegittimita'  costituzionale,  ora  inquadrabili  nei  rapporti tra
decreto  legislativo e legge di delega ora direttamente nel contrasto
con il riparto di competenze esaminato sub (a).
    (\alpha  )  Discorso in buona parte analogo a quello condotto con
riferimento  alla  direttiva  2001/42/CE  puo'  essere  svolto avendo
riguardo  alla  direttiva  2003/35/CE  del  Parlamento  europeo e del
Consiglio, del 26 maggio 2003, in tema di partecipazione dei pubblico
nell'elaborazione di taluni piani e programmi in materia ambientale.
    Un  primo aspetto da sottolineare e' che la legge n. 308 del 2004
non  ha  incluso questa direttiva tra quelle la cui attuazione veniva
delegata  al  Governo  (cfr.  l'art. 1, comma 9, lettera f), donde la
violazione degli artt. 76 e 77, primo comma, della Costituzione.
    Se anche si volesse ritenere - peraltro con non poche difficolta'
-  una siffatta omissione «sanata» dal disposto dell'art. 1, comma 8,
lettera  e),  della  legge  (che  annovera  tra  i principi e criteri
generali della delega la «piena e coerente attuazione delle direttive
comunitarie,   al   fine  di  garantire  elevati  livelli  di  tutela
dell'ambiente  e  di contribuire in tale modo alla competitivita' dei
sistemi   territoriali   e   delle   imprese,  evitando  fenomeni  di
distorsione  della  concorrenza»),  residuerebbe comunque il problema
dell'intervenuta  modifica  della  delega  ad opera dell'art. 1 della
legge  n. 62  del 2005, che ha inserito anche la direttiva 2003/35/CE
tra   quelle  da  attuare.  Si  riproporrebbero,  allora,  le  stesse
doglianze  gia'  prospettate  sub  (c), (\alpha ), relativamente alla
direttiva   2001/42/CE,   con   riferimento   alle   diversita'   dei
procedimento  di  formazione  delineato  dalla legge n. 62 del 2005 e
quello  seguito  nell'emanazione  del  decreto legislativo n. 152 del
2006.  A  quanto  gia' rilevato con specifico riguardo ai commi 2 e 6
dell'art. 1,  potrebbe  qui aggiungersi il mancato rispetto di quanto
prescritto   dal   comma  4,  secondo  cui  «gli  schemi  di  decreti
legislativi   recanti  attuazione  [tra  le  altre]  della  direttiva
2003/35/CE  [...]  sono  corredati  della  relazione  tecnica  di cui
all'art.  11-ter,  comma  2,  della  legge  5  agosto 1978, n. 468, e
successive  modificazioni.  Su  di  essi e' richiesto anche il parere
delle  Commissioni  parlamentari competenti per i profili finanziari.
Il Governo, ove non intenda conformarsi alle condizioni formulate con
riferimento  all'esigenza  di  garantire  il  rispetto  dell'art. 81,
quarto  comma,  della  Costituzione, ritrasmette alle Camere i testi,
corredati  dei  necessari elementi integrativi di informazione, per i
pareri   definitivi   delle  Commissioni  competenti  per  i  profili
finanziari che devono essere espressi entro venti giorni».
    In  conclusione,  sulla  scorta di quanto sin qui detto, non puo'
che  addivenirsi alla richiesta di una declaratoria di illegittimita'
costituzionale  che  colpisca le disposizioni del decreto legislativo
n. 152   del   2006  che  rappresentino  attuazione  della  direttiva
2003/35/CE,  e  segnatamente  degli  artt.  4,  comma  1, lettera b),
limitatamente  alle parole «e con direttiva 2003/35/CE del Parlamento
europeo  e del Consiglio, del 26 maggio 2003», 5, comma 1, lettere q)
e r), 28, 31, comma 4, e 39.
    Rifacendosi alle considerazioni svolte supra, sub (c), (\alpha ),
non   puo'  ignorarsi  il  grave  danno  che  la  invalidita'  appena
evidenziata arreca alle attribuzioni costituzionali delle regioni, di
talche'  nessun  difetto  di  interesse  eventualmente  addotto  puo'
precludere una pronuncia di merito di codesta ecc.ma Corte.
    (\beta  )  La «concorrenza di competenze» all'interno della quale
la  disciplina  della VIA si colloca ben puo' essere rappresentata da
quanto  lo  stesso  decreto legislativo n. 152 del 2006, all'art. 24,
lettera  b),  stabilisce in ordine alle finalita' cui la procedura di
VIA  deve  ispirarsi, e cioe' la valutazione degli effetti diretti ed
indiretti  della  realizzazione dei progetto «sull'uomo, sulla fauna,
sul  suolo,  sulle  acque di superficie e sotterranee, sull'aria, sul
clima,  sul  paesaggio e sull'interazione tra detti fattori, sui beni
materiali e sul patrimonio culturale ed ambientale».
    Da questo elenco, si traggono indicazioni significative in merito
ad una eventuale prevalenza di un titolo competenziale rispetto ad un
altro:  non  puo'  trascurarsi, in particolare, che il primo elemento
considerato  («l'uomo»)  evoca  la  competenza  in materia di «tutela
della salute»; d'altra parte, il richiamo del «suolo», delle «acque»,
del «paesaggio» sono tutti da ricondurre al «governo dei territorio»,
mentre   la  «tutela  dell'ambiente»,  strettamente  intesa,  compare
soltanto all'ultimo posto della lista.
    Se  queste  osservazioni  suggeriscono la prevalenza (nell'ambito
della   «concorrenza   di   competenze»)  di  materie  di  competenza
concorrente,  deve  riproporsi  per la VIA quanto fatto valere in via
principale  per  VAS.  Ne  discende  la illegittimita' costituzionale
degli  artt.  da  26  a  34,  che dettano disposizioni procedimentali
comuni   in   materia   di   VIA,   e   la  correlata  illegittimita'
costituzionale  dell'art. 43, che impone alle regioni il rispetto dei
sopra citati articoli.
    In   questa   prospettiva,   a   fortiori   illegittimi  sono  da
considerarsi  gli  artt.  da  43  a  47,  con  i  quali e' lo Stato a
disciplinare  direttamente procedimenti dichiaratamente di competenza
regionale, in palese contrasto con le esigenze di funzionalita' e con
la  logica  del  sistema  che ispira il Titolo V della Parte II della
Costituzione.  Le  stesse  previsioni  contenute  negli  articoli ora
censurati evidenziano una profonda discrasia rispetto al ruolo che il
legislatore  statale  puo'  legittimamente  svolgere, e che certo non
puo'  tradursi,  ad  esempio,  nella  disciplina  delle condizioni in
presenza delle quali si sospendono i lavori (art. 43, comma 5), nella
determinazione   della  durata  della  proroga  dei  termini  per  la
conclusione  della  procedura  (art.  44),  nella  individuazione  di
esoneri dalla procedura ordinaria (art. 46).
    Peraltro,  se  l'impostazione che si e' fatta propria non dovesse
venire accolta, quanto rilevato sub (a), relativamente alla eventuale
sussistenza  di  una «concorrenza di competenze», imporrebbe comunque
la  dichiarazione  di  illegittimita'  costituzionale  delle seguenti
disposizioni:
        l'art.  26,  commi  2,  3  e 4, con cui viene disciplinata in
estremo dettaglio la fase introduttiva del procedimento, specificando
le   modalita'   di   trasmissione   della   domanda  alle  autorita'
interessate,  i  termini  per  i  pareri  di queste e gli effetti dei
pareri;
        l'art.  27, commi da 2 a 7, che puntualizza i contenuti dello
studio  di  impatto  ambientale  e  che disciplina una eventuale fase
preliminare nel procedimento autorizzativo;
        l'allegato  V  alla  Parte  seconda  del  decreto legislativo
impugnato,  oggetto  di  rinvio  da  parte dell'art. 27, comma 2, che
specifica  ulteriormente  le informazioni da inserire nello studio di
impatto ambientale;
        l'art.  28,  comma  2, che si sofferma dettagliatamente sulle
misure  di  pubblicita' a carico del committente o del proponente; la
stessa  disposizione  contrasta  con  l'art.  117, sesto comma, della
Costituzione,  nella  parte  in  cui,  dopo  aver  stabilito  che  le
modalita'  dell'annuncio  dell'avvenuto  deposito della presentazione
della   domanda   sono   stabilite  con  regolamento  dell'«autorita'
competente»  (lettera  b), primo periodo), precisa che il regolamento
stesso  e'  «emanato  con  decreto del Ministro dell'ambiente e della
tutela   del  territorio»  (lettera  b),  terzo  periodo),  lasciando
intendere  che  soltanto  quest'ultimo  -  e non qualunque «autorita'
competente»  -  e'  titolare della potesta' regolamentare in materia;
una   potesta'   che   e'   peraltro   esclusa   dalla   disposizione
costituzionale   citata,   alla   luce   del  riparto  di  competenze
legislative che si e' esaminato;
        l'illegittimita'   costituzionale   dell'art.  28,  comma  2,
lettera  b),  produce, come conseguenza necessitata, l'illegittimita'
costituzionale   pro  parte  qua;  delle  disposizioni  che  ad  essa
rinviano, e segnatamente gli artt. 29, comma 1, primo periodo, l'art.
31, comma 1, e 43, comma 4;
        l'art.   29,   commi  da  2  a  5,  che  dispone  in  maniera
estremamente  analitica  le  modalita' attraverso le quali rendere il
procedimento  che  conduce alla VIA partecipato da parte dei soggetti
in vario modo ed in varia misura interessati;
        l'art.  31,  commi  da 2 a 4, il quale si sofferma in maniera
assai  dettagliata  (ed  ultronea  rispetto all'obiettivo di dare una
normativa  quadro)  sulle  modalita'  mediante  le  quali  operare il
giudizio di compatibilita' ambientale;
        l'art.  32,  comma  3,  che  stabilisce  termini  e modalita'
specifici   mediante   cui   procedere   alla  verifica  dell'impatto
ambientale delle opere;
        l'art.  34,  comma 2, il quale individua in maniera minuziosa
cio'  che e' tenuto a fare il proponente che manifesti la volonta' di
ottenere  che  la procedura di VIA sia integrata nel procedimento per
il rilascio dell'autorizzazione integrata ambientale;
        l'art.  42,  comma 2, che fissa criteri eccessivamente rigidi
entro i quali le regioni e le province autonome possono definire, per
determinate   tipologie   progettuali  e/o  aree  predeterminate,  un
incremento  delle  soglie  al  di  sotto  delle  quali  la VIA non e'
richiesta;  tale  rigidita'  e' testimoniata, tra l'altro, dal limite
del  20  per cento posto alla variabilita' rispetto ai dati contenuti
nell'allegato  III  della  Parte  seconda, limite che, ai termini del
d.P.R. 12 aprile 1996, era del 30 per cento;
        l'art.  43,  comma 5, che disciplina i casi e le modalita' di
sospensione  dei  lavori  in  corso  ai  fini  del  ripristino  delle
condizioni di compatibilita' ambientale;
        l'art.  44, che determina la durata massima della proroga dei
termini per la conclusione della procedura di VIA;
        l'art.   46,   nella   parte  in  cui  limita  eccessivamente
l'individuazione,  ad  opera delle regioni e delle province autonome,
le  ipotesi di esonero dalla procedura ordinaria e la possibilita' di
promuovere procedure semplificate.
    Le   norme   censurate   possono  essere  tutte  ricondotte  alla
regolamentazione di aspetti di dettaglio. Soltanto quelle di cui agli
artt.  29  e  31 hanno una piu' ampia portata, alla luce della quale,
essendo   lungi  dal  potersi  parlare  di  «principi  fondamentali»,
l'istanza  cooperativa non poteva essere disconosciuta, come avvenuto
nel  procedimento  di  formazione  del decreto legislativo n. 152 del
2006,  donde  l'illegittimita'  costituzionale  discendente da quanto
argomentato supra, sub (a).
    e) Per  concludere  sulla  Parte  seconda del decreto legislativo
impugnato,  alcune  fattispecie di illegittimita' costituzionale sono
rintracciabili  anche  nell'ambito  delle «Disposizioni transitorie e
finali».
    (\alpha  )  In  primo  luogo, e' da censurare l'art. 50, il quale
stabilisce  che,  in  (mancanza di normative regionali di adeguamento
alla Parte seconda del decreto legislativo impugnato, le disposizioni
ivi previste si applicano loro integralmente.
    La  ragione dell'illegittimita' costituzionale della disposizione
deriva, come e' chiaro, dalla illegittimita' costituzionale di (molte
delle)  disposizioni  contenute  nella Parte seconda, nel senso che i
vizi  sin  qui  riscontrati  si  comunicano  all'art. 50, che mira ad
interinarli, sia pure in una fase transitoria.
    (beta)  E', inoltre, da censurare l'art. 51, comma 1, che prevede
l'adozione  di regolamenti di semplificazione relativi alle procedure
di  valutazione  ambientale  strategica  e  di valutazione di impatto
ambientale.   La  disposizione  viola  gli  artt.  117  e  118  della
Costituzione,  in  quanto  lo Stato puo' delegificare solo materie di
sua   competenza   esclusiva  e  non  gia'  materie  attribuite  alla
competenza  concorrente  regionale  (ex  plurimis,  sentenza  303 del
2003), poiche' il regolamento statale non costituisce fonte idonea ad
incidere  su  competenze  legislative  della  regione.  Pertanto,  la
previsione del regolamento da emanare ai sensi dell'art. 17, comma 2,
della  legge  23  agosto 1988, n. 400, va dichiarata incostituzionale
per   la   parte   in  cui  si  riferisce  alla  semplificazione  dei
procedimenti di competenza regionale.
B.3) Parte  terza - Sezione I (Norme in materia di difesa del suolo e
lotta alla desertificazione).
    Illegittimita'  costituzionale  degli  artt. 55, comma 4, 57, 58,
59,  61,  63, 64, 65, 67 (commi da 2 a 6), 68, 69 (commi 2 e 3), 70 e
72.
    a) Sulla    configurazione   della   «difesa   dei   suolo»,   la
giurisprudenza  costituzionale,  gia' nel vigore del testo originario
del   Titolo   V   della   Parte   seconda   della  Costituzione,  ha
incontestabilmente   escluso   la   possibilita'   per  lo  Stato  di
disciplinare  autonomamente  la  materia: «la difesa del suolo e' una
finalita'   il   cui  raggiungimento  coinvolge  funzioni  e  materie
assegnate  tanto alla competenza statale quanto a quella regionale (o
provinciale)»   (sentenza   n. 85   dei   1990,   poi   ripetutamente
confermata),  di  talche',  in  tema  di difesa del suolo, le regioni
disponevano   (e   dispongono)   di   «competenze  costituzionalmente
garantite  dagli  artt.  117  e  118 della Costituzione e dalle norme
interposte» (sentenza n. 97 del 1992).
    Ponendosi  in  quest'ottica, codesta ecc.ma Corte ha sottolineato
che, «essendo [...] un obiettivo comune allo Stato e alle regioni, la
difesa  del  suolo  puo' essere perseguita soltanto attraverso la via
della cooperazione fra l'uno e gli altri soggetti» (cosi', ancora, la
sentenza n. 85 del 1990).
    Una   siffatta   impostazione   e'  stata  ribadita  -  sia  pure
incidentalmente  - anche nell'ambito del nuovo quadro costituzionale,
con specifico riferimento ad una delle attivita' piu' caratterizzanti
della   difesa  del  suolo,  quale  la  bonifica:  la  giurisprudenza
costituzionale «aveva gia' ritenuto, nel vigore del previgente Titolo
V   della   Parte  II  della  Costituzione,  che  la  bonifica  fosse
riconducibile    ad   una   competenza   regionale   fondamentalmente
concorrente,  relativa  da  un  lato  alla materia dell'agricoltura e
foreste,  dall'altro,  e in un quadro piu' ampio, all'azione pubblica
per  la difesa del suolo, la tutela e l'uso delle risorse idriche, la
tutela  dell'ambiente  come  ecosistema,  in  una "concezione globale
degli  interventi  sul  territorio"  (sentenza n. 326 del 1998, sulle
orme  della  sentenza  n. 66  del  1992).  Rispetto  al  nuovo  testo
dell'art.  117,  potrebbero  venire oggi in rilievo sia la competenza
regionale "residuale" che si presta a comprendere molti aspetti della
disciplina  del  settore agricolo (quarto comma), sia, d'altro canto,
la   competenza   esclusiva   dello   Stato  in  materia  di  "tutela
dell'ambiente"  e  "dell'ecosistema"  (secondo comma, lettera s), sia
infine,  in  modo piu' comprensivo, la competenza concorrente in tema
di "governo del territorio" (terzo comma)» (sentenza n. 282 del 2004;
il corsivo e' di chi scrive).
    Pur  senza  aver  dipanato  questo intreccio competenziale (che',
d'altra parte, per decidere la controversia nella specie sottopostale
cio'  non  era  richiesto),  codesta  ecc.ma  Corte  ha  offerto  una
ricostruzione  dalla  quale  si  coglie,  per  un  verso,  la  natura
complessa  della  materia  «difesa  del  suolo»  e,  per  l'altro  (e
conseguentemente), la concorrenza di diversi titoli competenziali: al
fianco  della  «tutela  dell'ambiente»,  si pongono - quanto meno: in
relazione   a  determinate  previsioni,  deve  infatti  prendersi  in
considerazione  anche  la «tutela della salute» - l'«agricoltura», di
competenza  residuale,  ed il «governo del territorio», di competenza
concorrente.
    Applicando  il  gia'  ricordato  canone decisorio enunciato nella
sentenza  n. 50  del  2005, la ricerca di un titolo prevalente, sulla
scorta  del  brano  riportato  (ed in specie del riferimento posto in
carattere  corsivo),  non  puo'  avere  che l'esito secondo cui e' il
«governo  del  territorio» ad imporsi sugli altri, con il che si deve
concludere  che  si verte in una materia concorrente, caratterizzata,
tra  1'altro  -  in  ossequio  a  quanto  stabilito a far tempo dalla
sentenza  n. 85  del  1990  da  una  forte  accentuazione  del modulo
cooperativo, tale da richiedere una costante dialettica tra i diversi
livelli  di  governo  nell'impostazione  delle  linee  generali della
politica  di difesa del suolo (altrimenti detto: nella fissazione dei
principi fondamentali).
    Il   corollario   di   questa  configurazione  e'  che  tutte  le
disposizioni di dettaglio contenute nella Sezione I della Parte terza
del decreto legislativo impugnato sono da ritenersi viziate.
    b) Ponendosi in quest'ottica, un primo gruppo di censure riguarda
quegli  articoli  nei  quali  viene  esplicitato  il concreto riparto
competenziale tra i vari livelli di governo.
    (\alpha  ) L'art. 57, relativo alle competenze del Presidente del
Consiglio  e del Comitato dei ministri per gli interventi nel settore
della  difesa  del  suolo,  opera  un  accentramento  organizzativo e
funzionale  che,  pur  operando nel citato concorso di competenze con
prevalenza   del   «governo   del  territorio»,  priva  di  qualsiasi
coinvolgimento  le autonomie territoriali. Dell'articolo in questione
sono,  in  particolare,  da censurare alcune previsioni che risultano
gravemente lesive delle attribuzioni costituzionali delle regioni.
    Per  quanto  riguarda  l'approvazione, con decreto del Presidente
dei  Consiglio  dei ministri, dei piani di bacino, di cui al comma 1,
lettera  a),  n. 2),  la  illegittimita'  costituzionale deriva dalla
violazione  del principio di leale cooperazione perpetrata in ragione
del  fatto che, in ordine ad una decisione tanto rilevante, non ci si
puo'  limitare al mero parere della Conferenza Stato-regioni, essendo
invece  necessaria, per la stretta correlazione tra l'esistenza di un
piano  di bacino e la tutela del territorio regionale, l'acquisizione
dell'intesa.
    Anche   la   disposizione   di   cui   al   comma  1,  n. 3),  e'
costituzionalmente   illegittima,  per  violazione  degli  artt. 117,
quinto  comma,  e  120,  secondo comma, della Costituzione, in quanto
prevede  l'attivita'  sostitutiva  da  parte  del Governo «in caso di
persistente  inattivita'  dei  soggetti  ai  quali  sono demandate le
funzioni  previste  dalla presente sezione». Una siffatta previsione,
per  la  sua genericita', apre allo Stato la possibilita' di agire in
via   sostitutiva   al   di  fuori  delle  fattispecie  espressamente
contemplate  nelle  disposizioni  costituzionali  appena  menzionate.
Queste  ultime  hanno disegnato in maniera tassativa le ipotesi nelle
quali  si  puo' intervenire in via sostitutiva, in piena coerenza con
il  nuovo  assetto  delle  competenze  legislative  ed amministrative
introdotte  dalla  riforma costituzionale: l'inserimento, nel tessuto
legislativo,  di formule generiche come quella qui oggetto di censura
produce  un  rischio  permanente  di riappropriazione, da parte dello
Stato   -  in  violazione  dell'art. 118  della  Costituzione  -,  di
attivita'  amministrativa  di cui esso non ha piu' ne' la titolarita'
ne'  la  responsabilita',  una  volta affermata la tassativita' delle
competenze legislative residuate allo Stato ed una volta scomparso il
parallelismo tra funzioni legislative ed amministrative.
    Sempre  nell'art. 57,  alcune  disposizioni - segnatamente quelle
del  comma  1, lettera a), n. 4), e del comma 3 - contrastano con gli
artt. 117  e  118  della  Costituzione,  in  quanto  attribuiscono al
Presidente  del  Consiglio dei ministri (comma 1, lettera a), n. 4) o
al  Comitato  dei  ministri  (comma  3) il potere di adottare atti di
indirizzo  e  coordinamento,  in un settore che, per quanto detto sub
(a),  rientra  tra  quelli  per  i  quali  il  quadro  costituzionale
successivo   alla   riforma   del  Titolo  V  della  Parte  II  della
Costituzione  e  lo  stesso  art. 8,  comma 6, secondo periodo, della
legge  5 giugno  2003,  n. 131 (c.d. legge La Loggia) escludono che a
siffatti  atti  possa farsi luogo. Nelle materie di cui all'art. 117,
terzo e quarto comma, della Costituzione, infatti, l'adozione di atti
di  indirizzo  e  coordinamento  produrrebbe l'effetto di sconvolgere
l'assetto  delle  competenze  normative,  drasticamente dimidiando la
posizione   costituzionale   delle   regioni,   le  cui  attribuzioni
legislative  debbono  essere  esercitate  nel  rispetto  dei principi
fondamentali fissati con legge dello Stato e non gia' nel rispetto di
principi  fissati  da  una  fonte  sublegislativa  quale e' l'atto di
indirizzo e coordinamento.
    La  illegittimita' costituzionale dei commi 1, lettera a), n. 4),
e 3 ingenera, come conseguenza necessitata, anche quella del comma 6,
che postula la sussistenza di un potere di indirizzo e coordinamento,
disciplinandone l'esercizio.
    Analogo esito deve avere il vaglio concernente il comma 4, per la
parte   in   cui   postula,  anch'esso,  un  potere  di  indirizzo  e
coordinamento del Comitato dei ministri.
    Infine,  il  comma  3  dell'art. 57  deve  essere  censurato, per
violazione  dell'art. 118 della Costituzione, la' dove attribuisce al
Comitato  dei  ministri  «funzioni  di alta vigilanza», senza neppure
specificare  l'oggetto su cui tali funzioni vengono esercitate. A tal
proposito,  deve  sottolinearsi  come codesta ecc.ma Corte abbia piu'
volte ribadito la necessita' di operare un parallelismo tra il potere
di vigilanza e la materia cui essa inerisce (si vedano, da ultime, le
sentenze  nn. 106  del  2006, 63 del 2006 e 384 del 2005), di talche'
non  puo'  prospettarsi  l'esercizio  in  capo  allo  Stato di questa
funzione in un ambito nel quale il principio di sussidiarieta' impone
l'attribuzione  ai  livelli  di governo infra-statuali delle funzioni
amministrative.
    L'illegittimita'  della  previsione ora censurata, d'altra parte,
emerge  con  chiarezza  quando  venga  confrontata  con la disciplina
previgente.  Ai  termini  dell'art. 4, comma 3, della legge 18 maggio
1989,   n. 183,   infatti,  l'attribuzione  delle  funzioni  di  alta
vigilanza  del  Comitato  dei ministri non aveva portata generale, ma
era  limitata  a  quella  «sui servizi tecnici nazionali». L'art. 57,
comma  3,  segna, dunque, una espansione delle competenze statali (ed
un  correlativo  «arretramento»  di quelle regionali), espansione che
deve  contestarsi  anche in virtu' dei precetti contenuti nella legge
di  delega:  l'art. 1, comma 8, della legge n. 308 del 2004, nel fare
riferimento  ai  piu' rilevanti atti legislativi previgenti (legge 15
marzo  1997,  n. 59,  e  decreto  legislativo 31 mazzo 1998, n. 112),
oltre  che alle attribuzioni costituzionali di regioni ed enti locali
ed   al   principio  di  sussidiarieta',  pone  -  implicitamente  ma
inequivocabilmente  -  un  argine  contro  ogni  «ritorno  indietro»,
garantendo  agli enti infra-statuali, come soglia minima a livello di
autonomia, il mantenimento dello status quo.
    E'  in  ragione  di questa previsione che puo' sottolinearsi che,
ogniqualvolta  lo  Stato  si  riappropria  (come nella fattispecie in
discorso) di competenze legislative e/o amministrative gia' conferite
agli enti territoriali, va a ledere, per cio' stesso, anche l'art. 76
della Costituzione.
    L'illegittimita'  costituzionale  della  previsione del potere di
«alta  vigilanza»  si  estende  anche al comma 4, per la parte in cui
concretizza  tale  potere  attraverso  la  «verifica» della «coerenza
nella fase di approvazione» degli atti di pianificazione.
    (\beta   )   Sotto  molteplici  profili  e'  da  censurare  anche
l'art. 58,  che  disegna  le  competenze dei Ministro dell'ambiente e
della tutela del territorio.
    L'articolo  risulta viziato, nel suo complesso, per la violazione
del  principio di leale cooperazione. In considerazione della marcata
incidenza  che  le  competenze  del  Ministro  hanno sulle competenze
concorrenti  delle  regioni,  e' evidente - anche in virtu' di quanto
rilevato  supra,  sub  (a)  -  che  le  istanze rappresentative delle
regioni  debbono  poter partecipare ai procedimenti che si concludano
con  atti  imputabili  al  Ministro. Una partecipazione che, oltre ad
essere  generale, deve anche essere modulata in forme tendenzialmente
paritarie,  e  dunque attraverso la previsione di intese, piu' che di
pareri.  Nell'art. 58, invece, il coinvolgimento delle rappresentanze
regionali  e' puramente «rapsodico», essendo contemplato soltanto per
alcune ipotesi, oltretutto esclusivamente nella forma del parere.
    La  violazione del principio di leale cooperazione si associa, in
taluni  casi,  anche alla violazione dell'art. 76 della Costituzione.
Cio' avviene, in particolare, a proposito del comma 3, lettera d), ai
termini del quale spetta al Ministro dell'ambiente e della tutela del
territorio  identificare  «le  linee  fondamentali  dell'assetto  del
territorio  nazionale con riferimento ai valori naturali e ambientali
e  alla difesa del suolo, nonche' con riguardo all'impatto ambientale
dell'articolazione  territoriale  delle  reti infrastrutturali, delle
opere  di competenza statale e delle trasformazioni territoriali»: Un
siffatto  potere era gia' previsto dall'art. 52, comma 1, del decreto
legislativo n. 112 del 1998 come di spettanza statale; il comma 3 del
medesimo  art. 52,  tuttavia,  prevedeva  che esso venisse esercitato
«attraverso  intese nella Conferenza unificata». La scomparsa di ogni
riferimento  a  questa  istanza  di codecisione contrasta, quindi, in
maniera  evidente con l'art. 1, comma 8, della legge n. 308 del 2004,
e, in ultima analisi, con l'art. 76 della Costituzione.
    Infine,  per  le  ragioni  gia'  indicate  sub (\alpha ), sono da
censurare il comma 2, lettera c), ed il comma 3, lettera c), giacche'
in  essi  si  attribuisce  un potere di indirizzo e coordinamento non
piu'  esercitabile  da  parte  dell'organo  di vertice del Governo, e
dunque  a  fortiori  esorbitante  rispetto  alle  attribuzioni  di un
ministro.
    (\gamma  )  Quanto  precede  relativamente  agli artt. 57 e 58 si
riverbera  nella  illegittimita'  costituzionale,  per violazione del
principio   di   leale   cooperazione,  anche  dell'art. 59  nel  suo
complesso.  Le  disposizioni in esso contenute, infatti, degradano la
Conferenza Stato-regioni al ruolo di mero soggetto proponente per gli
atti di cui all'art. 57 (lettera a).
    La   Conferenza   Stato-regioni   e'  poi  chiamata  a  formulare
semplicemente  osservazioni  sui piani di bacino (lettera c) e non va
oltre  l'espressione  di pareri sulla ripartizione degli stanziamenti
autorizzati  da  ciascun  programma triennale tra i soggetti preposti
all'attuazione  delle  opere e degli interventi individuati dai piani
di  bacino  (lettera  d),  cio'  che  -  versandosi in una materia di
competenza  concorrente  viola,  oltre  che  il  principio  di  leale
cooperazione, anche l'art. 119 della Costituzione, che imporrebbe una
intesa sulla ripartizione dei finanziamenti.
    c) Ancor   piu'   che   nelle  disposizioni  sin  qui  censurate,
l'avvenuta  violazione delle competenze legislative ed amministrative
delle regioni emerge in tutta la sua nitidezza dal combinato disposto
degli  artt. 61  (competenze  delle regioni), 63 (Autorita' di bacino
distrettuale)  e  64  (distretti idrografici) del decreto legislativo
n. 152 del 2006.
    L'intero impianto delineato dalle disposizioni sulle Autorita' di
bacino distrettuale e su «i distretti idrografici, gli strumenti, gli
interventi»  segna  un  indubbio  ed  indebito  arretramento,  per le
ragioni  delle  autonomie,  rispetto  alla normativa previgente sulla
difesa  del  suolo (legge n. 183 del 1989), recando cosi' un grave ed
irreparabile  vulnus  alla posizione costituzionale delle regioni, in
patente  dissonanza  con il nuovo riparto di competenze delineato dal
Titolo  V  della  Parte  II  della  Costituzione,  ed  in violazione,
altresi',  del decreto legislativo n. 112 del 1998, ergo dell'art. 1,
comma  8,  della  legge  di delega e, in ultima analisi, dell'art. 76
della Costituzione.
    (\alpha  )  Partendo  dall'art. 61, la violazione degli artt. 76,
117  e  118  della  Costituzione  risulta in maniera evidente ponendo
mente alle rilevanti competenze sottratte alle regioni.
    A  tal  proposito,  quanto  mai  eloquente e' un confronto tra le
previsioni  dell'art. 61 e quelle contenute nell'ora abrogato art. 10
della  legge  n. 183  del  1989. Nell'indicare le funzioni esercitate
dalle regioni in materia, l'art. 61 predispone un elenco che, essendo
introdotto  dalla  locuzione  «in  particolare»,  parrebbe tassativo,
mentre  l'elenco  di  cui all'art. 10 si poneva come esemplificativo,
essendo introdotto dalla locuzione «tra l'altro». Al di la' di questa
differenza,   che   potrebbe  essere  superata,  quando  non  in  via
interpretativa,   attraverso   la   declaratoria   di  illegittimita'
costituzionale del comma 1 dell'art. 61, limitatamente alle parole «,
ed  in  particolare»,  cio'  che maggiormente rileva e' l'espunzione,
dall'elenco  dell'art. 61,  di  due funzioni previste dall'art. 10, e
segnatamente  quella  in  base alla quale le regioni «attiva[vano] la
costituzione  di  comitati  per  i  bacini  di rilievo regionale e di
rilievo interregionale e stabilivano le modalita' di consultazione di
enti,  organismi,  associazioni e privati interessati, in ordine alla
redazione dei piani di bacino» (lettera h), e, soprattutto, quella in
base  alla  quale  le regioni «delimita[vano] i bacini idrografici di
propria competenza» (lettera a).
    Queste due omissioni sono, di per se', gia' sufficienti a rendere
l'art. 61,  comma  1,  incostituzionale,  per  la  contrarieta' con i
parametri sopra indicati. Peraltro, la mancata previsione del potere,
per  le  regioni,  di  delimitare  i  bacini  idrografici  di propria
competenza  si collega strettamente ad uno dei punti piu' criticabili
(e  censurabili)  dell'intero  decreto  legislativo  n. 152 del 2006,
individuabile nel combinato disposto degli artt. 63 e 64.
    (\beta  )  L'art. 63,  comma 3, primo periodo, stabilisce che «le
autorita' di bacino previste dalla legge 18 maggio 1989, n. 183, sono
soppresse  a  far data dal 30 aprile 2006 e le relative funzioni sono
esercitate  dalle  Autorita' di bacino distrettuale». La soppressione
automatica  delle autorita' di bacino esistenti e' all'origine di una
situazione di pericolosa incertezza, soprattutto per il termine della
soppressione,  che  segue  di  un  solo  giorno la data di entrata in
vigore   del   decreto   legislativo   n. 152,  donde  la  violazione
dell'art. 3  della Costituzione, per il mancato rispetto di qualunque
canone  di  ragionevolezza,  con evidenti riflessi sulle attribuzioni
costituzionali  delle  regioni,  chiamate  a gestire, quanto meno pro
parte,  una situazione di «vuoto amministrativo» (a tacere, in questa
sede, dell'involontaria comicita' di una situazione in cui il termine
ad  quem  per  la costituzione delle Autorita' di bacino distrettuale
decorre  dal  sabato  -  29  aprile  -  ed  il termine a quo scade la
domenica!).
    La  previsione  dei  comma  3  si completa alla luce del comma 1,
secondo  cui  «in ciascun distretto idrografico di cui all'art. 64 e'
istituita l'Autorita' di bacino distrettuale».
    Sulla  base  di  quanto  disposto  dal comma 7 dell'art. 63, tali
Autorita'  di  bacino  provvedono:  «a) all'elaborazione del Piano di
bacino  distrettuale di cui all'art. 65; b) ad esprimere parere sulla
coerenza  con gli obiettivi del Piano di bacino dei piani e programmi
comunitari,  nazionali,  regionali  e locali relativi alla difesa del
suolo,  alla  lotta  alla desertificazione, alla tutela delle acque e
alla  gestione  delle  risorse  idriche; c) all'elaborazione [...] di
un'analisi   delle   caratteristiche   del  distretto,  di  un  esame
sull'impatto   delle   attivita'   umane   sullo  stato  delle  acque
superficiali   e  sulle  acque  sotterranee,  nonche'  di  un'analisi
economica dell'utilizzo idrico».
    Gli  organi di queste nuove Autorita' di bacino sono indicati nel
primo  periodo  del  comma  2 dell'art. 63. Trattasi della Conferenza
istituzionale  permanente,  del segretario generale, della segreteria
tecnico-operativa  e della Conferenza operativa di servizi. Lo stesso
comma  2  rinvia,  nel secondo periodo, ad un «decreto del Presidente
del  Consiglio dei ministri, su proposta del Ministro dell'ambiente e
della tutela del territorio di concerto con il Ministro dell'economia
e  delle  finanze  e  con  il  Ministro  per la funzione pubblica, da
emanarsi  sentita la Conferenza permanente Stato-regioni entro trenta
giorni  dalla  data  di entrata in vigore della parte terza del [...]
decreto»  legislativo  n. 152,  per la definizione de «i criteri e le
modalita' per l'attribuzione o il trasferimento del personale e delle
risorse   patrimoniali   e   finanziarie,  salvaguardando  i  livelli
occupazionali,  definiti  alla  data  del  31 dicembre 2005, e previa
consultazione  dei sindacati» (il medesimo decreto del Presidente dei
Consiglio  dei  ministri  e' chiamato, ai termini del secondo periodo
del  comma  3,  a  disciplinare  «il  trasferimento di funzioni» ed a
regolamentare il periodo transitorio).
    Ai  commi  4,  5  e  6  si  disciplinano  piu'  nel  dettaglio la
composizione e le funzioni degli organi individuati al comma 2.
    La   Conferenza  istituzionale  permanente  adotta  gli  atti  di
indirizzo,  coordinamento  e pianificazione delle Autorita' di bacino
(comma  4,  primo  periodo),  ed esercita le (numerose) funzioni piu'
specificamente  indicate al comma 5, vale a dire: adozione di criteri
e  metodi per la elaborazione del Piano di bacino in conformita' agli
indirizzi   ed   ai   criteri   di   cui   all'art. 57  (lettera  a);
individuazione  di  tempi  e  modalita'  per  l'adozione del Piano di
bacino  (lettera  b);  determinazione  dei  componenti  del piano che
costituiscono   interesse  esclusivo  delle  singole  regioni  e  dei
componenti  per  i  quali sussistono, invece, interessi comuni a piu'
regioni   (lettera  c);  adozione  dei  provvedimenti  necessari  per
garantire  comunque  l'elaborazione  del Piano di bacino (lettera d);
adozione  del  Piano di bacino (lettera e); controllo sull'attuazione
degli  schemi  previsionali e programmatici del Piano di bacino e dei
programmi  triennali  (lettera  f);  nomina  del  segretario generale
(lettera g).
    La Conferenza istituzionale permanente e' presieduta e convocata,
«anche  su  proposta delle amministrazioni partecipanti, dal Ministro
dell'ambiente   e  della  tutela  del  territorio  su  richiesta  del
segretario  generale,  che vi partecipa senza diritto di voto» (comma
4,  primo  periodo). Vi partecipano «i Ministri dell'ambiente e della
tutela  del  territorio,  delle infrastrutture e dei trasporti, delle
attivita'  produttive,  delle  politiche agricole e forestali, per la
funzione   pubblica,  per  i  beni  e  le  attivita'  culturali  o  i
Sottosegretari  dai  medesimi  delegati,  nonche'  i Presidenti delle
regioni  e  delle  province autonome il cui territorio e' interessato
dal  distretto  idrografico  o  gli  Assessori dai medesimi delegati,
oltre al delegato del Dipartimento della protezione civile» (comma 4,
secondo periodo).
    L'organo  cosi'  composto delibera a maggioranza (comma 4, quarto
periodo).
    Ai  termini  del  comma  6, la Conferenza operativa di servizi e'
formata  dai  rappresentanti  dei  Ministeri di cui al comma 4, delle
regioni   e  delle  province  autonome  interessate,  nonche'  da  un
rappresentante  del  Dipartimento  della protezione civile. Convocata
dal  segretario  generale,  che  la presiede, provvede, deliberando a
maggioranza, all'attuazione ed esecuzione di quanto disposto ai sensi
del comma 5, nonche' al compimento degli atti gestionali.
    Dall'insieme  di  queste previsioni, emergono svariati profili di
illegittimita' costituzionale.
    Innanzi  tutto,  l'art. 63,  nel  suo  complesso, viola l'art. 76
della  Costituzione,  in ragione del mancato rispetto di quanto dalla
legge di delega prescritto all'art. 1, comma 1.
    L'oggetto   della   delega   ivi   individuato  consiste(va)  nel
«riordino,    coordinamento   e   integrazione   delle   disposizioni
legislative  [...],  anche  mediante  la  redazione  di testi unici»:
l'obiettivo  perseguito  era  dunque  nulla  piu'  che  una  semplice
razionalizzazione  della legislazione vigente. Nel caso specifico, la
lettera   c)   del  comma  9  dell'art. 1  rafforzava  l'idea  di  un
tendenziale  mantenimento  dello status quo, giacche' vi si prevedeva
che   il   Governo   dovesse   «rimuovere  i  problemi  di  carattere
organizzativo,  procedurale  e  finanziario  che  ostacol[assero]  il
conseguimento  della piena operativita' degli organi amministrativi e
tecnici  preposti  alla  tutela  e  al  risanamento  del  suolo e del
sottosuolo,   superando   la  sovrapposizione  tra  i  diversi  piani
settoriali   di  rilievo  ambientale  e  coordinandoli  con  i  piani
urbanistici;  valorizzare  il  ruolo  e  le  competenze  svolti dagli
organismi  a  composizione  mista  statale  e  regionale; adeguare la
disciplina    sostanziale    e    procedurale    dell'attivita'    di
pianificazione,   programmazione   e   attuazione  di  interventi  di
risanamento  idrogeologico  del territorio e della messa in sicurezza
delle  situazioni  a  rischio; prevedere meccanismi premiali a favore
dei  proprietari  delle  zone agricole e dei boschi che investono per
prevenire  fenomeni  di  dissesto  idrogeologico,  nel rispetto delle
linee   direttrici  del  piano  di  bacino;  adeguare  la  disciplina
sostanziale   e   procedurale  della  normativa  e  delle  iniziative
finalizzate   a   combattere   la  desertificazione,  anche  mediante
l'individuazione    di   programmi   utili   a   garantire   maggiore
disponibilita'   della  risorsa  idrica  e  il  riuso  della  stessa;
semplificare   il  procedimento  di  adozione  e  approvazione  degli
strumenti  di  pianificazione con la garanzia della partecipazione di
tutti  i  soggetti istituzionali coinvolti e la certezza dei tempi di
conclusione dell'iter procedimentale».
    Il  riassetto ab imis operato dall'art. 63 (in combinazione, come
si vedra', con l'art. 64), non e' dunque in alcun modo giustificabile
alla  luce  della  legge  di  delega, che presupponeva chiaramente un
«riordino»,   ergo  una  «manutenzione»,  tendente  a  migliorare  il
funzionamento  degli  organismi  esistenti,  e  non  certo  alla loro
soppressione e sostituzione con altri affatto nuovi.
    Il  vizio  di  eccesso  di  delega  ha  riflessi  evidenti  sulle
attribuzioni  costituzionali  delle regioni, dal momento che, come si
riscontrera'  anche  infra,  l'ordinamento  amministrativo introdotto
sostituisce  quello  previsto  dalla  legge  n. 183  del  1989 con un
sistema   centralistico   di   gestione  delle  politiche  di  tutela
idrogeologica  del  territorio,  per  di  piu' causando un periodo di
grave incertezza nella fase transitoria.
    Piu'  in  particolare,  l'eccesso  di delega censurato si collega
direttamente  alla  violazione dell'art, 118 della Costituzione e del
principio   di   leale   cooperazione   (oltre  che  alla  violazione
dell'art. 76  della  Costituzione,  in  ragione  del mancato rispetto
dell'art. 1, comma 8, della legge di delega).
    Cio'  in  quanto, anteriormente al decreto legislativo n. 152 del
2006,  la legge n. 183 del 1989 attribuiva alle cure delle regioni la
costituzione  delle  autorita'  di  bacino  di rilievo regionale e di
quelle  di  rilievo interregionale, stabilendo, all'art. 10, comma 1,
lettera  h),  che  le  regioni  avevano  il  potere  di  attivare  la
costituzione  di  comitati  per  i  bacini  di rilievo regionale e di
rilievo  interregionale  e di stabilire le modalita' di consultazione
di  enti,  organismi,  associazioni  e privati interessati, in ordine
alla  redazione dei piani di bacino. Analogamente, con riferimento ai
bacini  di  rilievo interregionale, l'art. 15, comma 3, stabiliva che
«le regioni territorialmente competenti defini[vano], d'intesa: a) la
formazione  dei  comitato  istituzionale  di  bacino  e  del comitato
tecnico;   b)  il   piano  di  bacino;  c)  la  programmazione  degli
interventi;   d)   le   modalita'   di   svolgimento  delle  funzioni
amministrative   per   la   gestione  del  bacino,  ivi  comprese  la
progettazione, la realizzazione, la gestione e il finanziamento degli
incentivi, degli interventi e delle opere».
    Con  riguardo  ai  bacini  nazionali,  gli organi delle Autorita'
erano  caratterizzati,  ai  sensi  dell'art. 12,  da una composizione
mista  e, soprattutto, da regole di funzionamento che garantivano una
partecipazione effettiva delle regioni alla politica di gestione.
    Alla  luce  di  queste  previsioni,  ben poteva affermarsi che le
regioni   erano   contitolari   del   governo  dei  bacini  nazionali
(configurati  come  organismi a partecipazione mista Stato-regioni) e
titolari,  in  via tendenzialmente esclusiva, delle funzioni relative
ai   bacini  regionali  e  interregionali.  Oggi,  per  converso,  la
aggregazione  dei  bacini  (di  cui si dira' infra, sub (\gamma )) ha
reso  sostanzialmente  insignificanti i poteri che alle regioni erano
gia'  stati  attribuiti  per  i  bacini  regionali ed interregionali,
mentre,  per  quanto  riguarda i bacini nazionali, la posizione delle
regioni  e' notevolmente deteriore rispetto al passato. In tal senso,
deve  sottolinearsi  come rappresentanti delle regioni siano presenti
in netta minoranza nel fondamentale organo decisionale, la Conferenza
istituzionale  permanente  (che nomina anche il Segretario generale),
nonche' nella Conferenza operativa.
    A  rendere  ancor  piu' marginale la posizione delle regioni sono
pero' le disposizioni di cui ai commi 4, quarto periodo, e 6, secondo
periodo, in base alle quali i due organi appena menzionati deliberano
a  maggioranza:  data  la  composizione  fortemente  sperequata degli
organi  (in cui le regioni hanno un rilievo assolutamente marginale),
i  rappresentanti  regionali  non  avranno  mai  la  possibilita'  di
incidere  effettivamente  ne' di condizionare la politica di gestione
delle Autorita' di bacino.
    Concludendo sull'art. 63, non puo' non evidenziarsi che il rinvio
operato,  dai commi 2 e 3, ad un decreto del Presidente del Consiglio
dei  ministri si pone in contrasto con l'art. 117, sesto comma, della
Costituzione.  Vertendosi,  come si e' avuto modo di rilevare in piu'
occasioni,  in  una  materia di competenza concorrente, allo Stato e'
precluso  l'utilizzo  dello  strumento  regolamentare. D'altra parte,
quand'anche  si  ritenesse  cio' che pare tutt'altro che agevole - di
poter   giustificare   una  siffatta  previsione,  dovrebbe  comunque
constatarsi  la  violazione  del  principio  di  leale  cooperazione,
derivante  dalla  previsione  di  un semplice parere della Conferenza
Stato-regioni,  organo  in  seno al quale sarebbe, invece, necessario
raggiungere  una  intesa  al fine di incidere, in una materia come il
«governo  dei  territorio»,  su aspetti tanto rilevanti quanto quelli
indicati nelle disposizioni censurate.
    (\gamma   )   Con   precipuo   riferimento   all'art. 64,  e'  da
sottolineare  che  esso  individua  un  numero estremamente esiguo di
distretti idrografici in cui viene ripartito il territorio nazionale.
Gli  otto distretti individuati, infatti, accorpano i numerosi bacini
che  gli  artt. 14,  15  e 16 della legge n. 183 del 1989 prevedevano
(sub  specie,  rispettivamente,  di  bacini  di rilievo nazionale, di
rilievo  interregionale  e di rilievo regionale), con il risultato di
operare  una  divisione  in  buona parte arbitraria (in ragione della
estensione   eccessiva   di   molti  dei  bacini  istituiti  e  della
variabilita'  della  loro estensione: si va dal massimo del distretto
padano,  con  una  superficie  di  circa  74.115  kmq,  al minimo del
distretto   del   Serchio,   di  circa  1.600  kmq)  e,  soprattutto,
determinata  autonomamente  dallo  Stato,  senza alcun coinvolgimento
delle regioni.
    Se  ne  deduce  l'illegittimita' costituzionale dell'art. 64, nel
suo complesso, per il concorrere di diversi ordini di motivi.
    Innanzi  tutto,  risulta  manifesta  la  sussistenza  di un vizio
procedimentale,  veicolato  dalla  violazione  del principio di leale
cooperazione,  verificatosi  in sede di approvazione dell'art. 64: le
regioni  non  sono state, infatti, chiamate ad esercitare alcun ruolo
nella determinazione concreta dell'ambito dei distretti.
    In  secondo  luogo,  e'  palese  la  violazione dell'art. 3 della
Costituzione,  sotto  il  profilo  della  violazione del principio di
ragionevolezza.  Quest'ultimo  parametro,  pur se esterno al Titolo V
della  Parte  II  della  Costituzione,  rileva,  nella presente sede,
giacche' proprio l'irragionevolezza della delimitazione dei bacini ha
conseguenze  profondamente  pregiudizievoli sulla gestione dei bacini
idrografici, di spettanza regionale.
    In  effetti,  l'unificazione  sotto  un'unica autorita' di bacini
che,  in  molti  casi,  non  hanno  alcuna  correlazione  realizza un
accentramento  privo  di  qualunque  giustificazione, espropriando le
regioni  delle  proprie  naturali competenze, in violazione sia della
competenza  legislativa  di  cui  all'art. 117,  terzo  comma,  della
Costituzione che del principio di sussidiarieta' di cui all'art. 118.
    L'indistinto  accorpamento  dei  bacini  in  poche ed estese aree
geografiche  oblitera integralmente la ragione stessa del significato
di «bacino», che deve essere considerato quale «ecosistema unitario».
    Viene   in  rilievo,  a  tal  proposito,  quanto  disposto  dalla
direttiva  2000/60/CE,  del 23 ottobre 2000, del Parlamento europeo e
del  Consiglio,  che istituisce un quadro per l'azione comunitaria in
materia  di acque, sulla quale e' opportuno brevemente soffermarsi al
fine  di dimostrare l'avvenuta violazione - ad opera dell'art. 64 (ma
anche,  in  parte, dell'art. 63) - degli artt. 11 e 117, primo comma,
della Costituzione.
    Nel   tredicesimo  considerando,  sull'assunto  che  «le  diverse
condizioni  ed  esigenze  riscontrabili  all'interno  della comunita'
richiedono  l'adozione  di  soluzioni specifiche», si sottolinea come
sia  «opportuno tener conto di tale diversita' nella programmazione e
nell'esecuzione  di  misure  atte  a  garantire  la  protezione ed un
utilizzo sostenibile delle acque nell'ambito del bacino idrografico»,
donde  la necessita' che le decisioni siano «adottate al livello piu'
vicino  possibile  ai luoghi di utilizzo effettivo o di degrado delle
acque»,  il che si traduce nell'impegno a «privilegiare le azioni che
rientrino  fra le competenze degli Stati membri, attraverso programmi
di misure adeguati alle condizioni regionali e locali».
    Piu'  in  particolare,  il  trentatreesimo  considerando sancisce
«l'obiettivo  di  ottenere un buono stato delle acque), che «dovrebbe
essere perseguito a livello di ciascun bacino idrografico, in modo da
coordinare  le misure riguardanti le acque superficiali e sotterranee
appartenenti    al   medesimo   sistema   ecologico,   idrologico   e
idrogeologico».
    Queste   affermazioni  di  ordine  generale  trovano  una  prima,
significativa,  concretizzazione all'art. 2 della direttiva, che reca
le  definizioni  dei  concetti  di  base:  il «bacino idrografico» e'
identificato  ne  «il  territorio  nel  quale scorrono tutte le acque
superficiali attraverso una serie di torrenti, fiumi ed eventualmente
laghi  per  sfociare  al  mare  in un'unica foce, a estuario o delta»
(n. 13);  il «sottobacino» ne «il territorio nel quale scorrono tutte
le  acque  superficiali  attraverso  una  serie di torrenti, fiumi ed
eventualmente  laghi  per  sfociare in un punto specifico di un corso
d'acqua  (di solito un lago o la confluenza di un fiume)» (n. 14); il
«distretto  idrografico» nell'«area di terra e di mare, costituita da
uno  o  piu'  bacini  idrografici  limitrofi e dalle rispettive acque
sotterranee  e  costiere  che,  a  norma dell'art. 3, paragrafo 1, e'
definito la principale unita' per la gestione dei bacini idrografici»
(n. 15).  A  sua  volta,  l'art. 3, par. 1, stabilisce che «gli Stati
membri  individuano  i  singoli  bacini idrografici presenti nel loro
territorio  e,  ai  fini  della  direttiva,  li  assegnano  a singoli
distretti  idrografici».  Si sottolinea anche che, «ove opportuno, e'
possibile  accomunare  in  un  unico  distretto bacini idrografici di
piccole  dimensioni  e  bacini  di  dimensioni  piu'  grandi,  oppure
unificare   piccoli   bacini  limitrofi»,  avvertendo  comunque  che,
«qualora  le acque sotterranee non rientrino interamente in un bacino
idrografico   preciso,   esse  vengono  individuate  e  assegnate  al
distretto  idrografico piu' vicino o piu' consono»; analogamente, «le
acque   costiere   vengono   individuate  e  assegnate  al  distretto
idrografico o ai distretti idrografici piu' vicini o piu' consoni».
    La  citazione  testuale  di  questi  passi  dimostra  in  maniera
inoppugnabile  che,  nella  logica  del  legislatore  comunitario, la
regola  e'  quella  della  corrispondenza  tra  l'individuazione  del
«bacino  idrografico»  e la perimetrazione del «distretto»: e' dunque
una  eccezione  la  rottura di questa corrispondenza, da giustificare
per   ragioni  di  opportunita',  e  segnatamente  in  considerazione
dell'omogeneita'  dell'ecosistema  e/o  della  piu' efficace gestione
discendente   dall'assegnazione   di   bacini  limitrofi  di  diversa
dimensione ad un unico distretto idrografico.
    Una   logica   di   questo   tipo   e'  completamente  sovvertita
nell'art. 64,  che individua macroaree, affidandole alle Autorita' di
bacino  distrettuale,  in modo del tutto disomogeneo, secondo criteri
non  meglio  identificabili,  ma  che  certo non rispondono affatto a
quelle ragioni di «opportunita» che la direttiva comunitaria esige.
    Una  siffatta violazione degli artt. 11 e 117, primo comma, della
Costituzione  non  e'  affatto ininfluente sulle attribuzioni proprie
delle  regioni  (donde  la  censurabilita' in sede di giudizio in via
principale).  Le  dimensioni  dei distretti individuati dall'art. 64,
infatti,  non possono che configurare i distretti stessi alla stregua
di  enti  amministrativi  sovraregionali.  Se, nella legge n. 183 del
1989,  le  dimensioni  dei  bacini  erano  tali  da  consentire  alle
Autorita'  di  bacino  una effettiva capacita' gestionale, il sistema
dei  «distretti  idrografici»  posto  in  essere  porta a concepire i
bacini  regionali  ed interregionali (unitamente ai bacini di rilievo
nazionale)  come  enti  di  decentramento  burocratico,  per  i quali
valgono  indistintamente  compiti e funzioni dettati dallo Stato, con
conseguente  riappropriazione  al centro di attivita' gia' delegate o
trasferite  e  con  la  vanificazione delle attivita' di gestione, in
violazione dell'art. 117, terzo comma, della Costituzione, in materia
di «governo del territorio» e dell'art. 118 della Costituzione.
    Altro profilo di illegittimita' costituzionale e' quello relativo
alla  violazione dell'art. 1, comma 8, della legge n. 308 del 2004, e
dunque  dell'art. 76 della Costituzione. Va all'uopo sottolineato che
l'osservanza  del  decreto legislativo n. 112 del 1998, cui e' tenuto
il   legislatore   delegato,  non  consente  la  riappropriazione  di
competenze   amministrative   gia'   trasferite  ed  al  riguardo  e'
sufficiente  la lettura del capo IV del decreto n. 112 per verificare
che,  ai  termini  dell'art. 88,  comma  1,  lettera  t),  allo Stato
residuano  i  poteri  di  «individuazione  e delimitazione dei bacini
idrografici  nazionali  e  interregionali»,  poteri  dai  quali si e'
esorbitato,  nella redazione dell'art. 64, andando ad individuare (e,
quindi, ad ipostatizzare) anche i bacini regionali esistenti.
    L'art. 64,  infine,  contrasta,  di  nuovo,  con  l'art. 76 della
Costituzione,  in  conseguenza della violazione dell'art. 1, comma 1,
della  legge  n. 308  del  2004, per le stesse ragioni che sorreggono
l'analogo   profilo   di  incostituzionalita'  evocato  con  riguardo
all'art. 63.
    d)  I  rilievi  mossi in riferimento agli artt. 61, 63 e 64 hanno
evidenti  riflessi  anche  sugli  articoli  successivi, che dei primi
rappresentano la specificazione e che, dunque, contrastano in maniera
patente  con  la  ripartizione delle competenze legislative delineata
dall'art. 117, terzo comma, della Costituzione.
    (\alpha   )  Cio'  vale,  in  primo  luogo,  per  l'art. 65,  che
disciplina   il  piano  di  bacino  distrettuale.  La  illegittimita'
costituzionale    di    tale   articolo   discende   dalla   avvenuta
centralizzazione  della  politica  di gestione dei bacini. La censura
puo'  allora  essere motivata in chiave di consequenzialita' rispetto
alle censure sopra illustrate.
    Qualora,  tuttavia,  non  si  ritenesse l'art. 65 inficiato dalla
incostituzionalita'  degli  artt.  61, 63 e 64, un motivo decisivo di
illegittimita'  costituzionale sarebbe rintracciabile nella normativa
estremamente  dettagliata (ben lontana da una formazione puramente di
principio) che esso reca.
    In  ulteriore  subordine,  qualora,  per  ipotesi,  si  dovessero
ritenere  gli  artt. 61,  63  e  64  non  lesivi  delle  attribuzioni
costituzionali  delle regioni, allora l'art. 65 risulterebbe comunque
illegittimo,  per  il  fatto  di  non  prevedere  - in violazione del
principio  di  leale  cooperazione  -  una  partecipazione di istanze
regionali  nella  procedura  di  approvazione dei piani di bacino: la
marginalizzazione   sopra  riferita  della  posizione  delle  regioni
nell'ambito   della  politica  di  gestione  dei  bacini  renderebbe,
infatti, indefettibile una misura che - ancorche' in maniera minimale
-  garantisse  alle  regioni  la  possibilita' almeno di far valere i
propri interessi e le proprie esigenze nell'ambito di un procedimento
di  capitale  importanza  nel  governo  dei loro territori (il che e'
inequivocabilmente  dimostrato dal comma 4 dell'art. 65, secondo cui,
per  un  verso,  «le disposizioni del Piano di bacino approvato hanno
carattere  immediatamente  vincolante  per le amministrazioni ed enti
pubblici,   nonche'   per   i   soggetti  privati,  ove  trattasi  di
prescrizioni  dichiarate  di  tale  efficacia  dallo  stesso Piano di
bacino»,  e,  per  altro  verso,  «i  piani  e  programmi di sviluppo
socio-economico  e  di  assetto  ed  uso del territorio devono essere
coordinati,  o  comunque  non  in  contrasto,  con il Piano di bacino
approvato»).
    La   illegittimita'  costituzionale  dell'art. 65  non  puo'  non
comportare   la  declaratoria  di  illegittimita'  costituzionale  ex
art. 27,  secondo  periodo, legge 11 marzo 1953, n. 87, dell'art. 66,
che  specifica  ulteriormente  il  procedimento  che  si conclude con
l'approvazione del piano di bacino.
    (\beta  )  I  motivi  che  inducono  a  ritenere incostituzionale
l'art. 65  si  ripresentano  in  ordine  all'art. 67,  che disciplina
l'adozione,  nelle  more  dell'approvazione  dei piani di bacino, dei
piani  stralcio  di  distretto  per  l'assetto  idrogeologico  (PAI),
all'interno  dei  quali  inserire,  in particolare,  l'individuazione
delle  aree  a rischio idrogeologico, la perimetrazione delle aree da
sottoporre  a misure di salvaguardia e la determinazione delle misure
medesime.
    Facendo  salvo  il principio, esplicitato nel comma 1, in base al
quale  i  piani  stralcio si rendono provvisoriamente necessari, cio'
che  deve  essere  censurato  e' il contenuto dei commi da 2 a 6, che
recano  disposizioni  dirette ad attuare il principio medesimo. Anche
in   questo  caso,  l'illegittimita'  costituzionale  discende  dalle
considerazioni  svolte  supra,  sub  (c);  in subordine, il carattere
estremamente  dettagliato dei commi in esame e' inconciliabile con la
titolarita',  in  capo  allo Stato, di un potere legislativo limitato
alla  fissazione  dei  principi  fondamentali  (donde  la  violazione
dell'art. 117  della  Costituzione);  in ulteriore subordine (qualora
gli  artt.  61,  63  e  64  non fossero stati caducati), risulterebbe
violato  il principio di leale cooperazione, in ragione della mancata
partecipazione   di   istanze   rappresentative   delle   regioni  al
procedimento formativo dei piani stralcio.
    La illegittimita' costituzionale dell'art. 67, commi da 2 a 6, ha
come conseguenza inevitabile quella di rendere incostituzionale anche
l'art. 68,  che  dell'art. 67  rappresenta  una specificazione ed una
attuazione.
    e) Il sopra esaminato riparto di competenze legislative tra Stato
e  regioni  in  materia  di  difesa del suolo e di bacini idrografici
rende  evidente  la  illegittimita'  costituzionale anche di svariate
disposizioni contenute nel Capo III del Titolo II.
    Deve  a  tal  proposito  sottolinearsi  come  le disposizioni sui
«programmi  di  intervento»  contenute  nei  commi 2 e 3 dell'art. 69
siano di estremo dettaglio.
    Per  quanto  attiene al comma 2, la specificita', che ingenera la
violazione   dell'art. 117,   terzo  comma,  della  Costituzione,  si
traduce, altresi', nella violazione dell'art. 119 della Costituzione,
in   quanto,   nella   ripartizione  delle  quote  percentuali  degli
stanziamenti  complessivi,  si  pretende  di indirizzare - attraverso
vincoli  di  destinazione  contrastanti  con  l'autonomia finanziaria
degli   enti   infra-statuali  -  attivita'  amministrative  che  non
rientrano nella competenza dello Stato.
    In  merito  al  comma  3,  la  previsione  per  le  regioni della
possibilita' di provvedere con propri stanziamenti alla realizzazione
di  opere  e  di  interventi  appare fortemente lesiva dell'autonomia
finanziaria  di  spesa riconosciuta dall'art. 119 della Costituzione,
in quanto tali stanziamenti sono indebitamente condizionati al previo
parere  favorevole  della  Conferenza istituzionale permanente di cui
all'art. 63,  comma  4.  La previsione appare irragionevole, e quindi
invasiva  delle  competenze  regionali,  poiche' l'irrigidire in modo
indifferenziato  per  tutte  le  regioni  gli  interventi  finanziari
comporta una mancata comprensione delle diversita' territoriali degli
enti,  i  quali  debbono  poter  decidere  liberamente  in  ordine al
finanziamento degli interventi necessari per il proprio territorio.
    Le  censure  che concernono il carattere estremamente dettagliato
delle  citate  disposizioni dell'art. 69 si ripropongono, a fortiori,
con  riferimento  all'art. 70,  che  disciplina  il  procedimento  di
adozione dei programmi di intervento.
    Ancora   con   riguardo  agli  interventi  da  progettare  (e  da
finanziare),  si segnala la illegittimita' costituzionale dei commi 3
e 5 dell'art. 72.
    Il  comma  3,  nel  prevedere che il Comitato dei ministri di cui
all'art. 57,   predispone   lo   schema  di  programma  nazionale  di
intervento  per  il triennio e la ripartizione degli stanziamenti tra
le  amministrazioni  dello  Stato e le regioni, individua nella forma
del semplice parere il coinvolgimento della Conferenza Stato-regioni.
Si  verifica,  in  tal  modo,  una  violazione del principio di leale
cooperazione, che richiede una forma di codecisione per attivita' che
abbiano riguardo ad ambiti normativi ed amministrativi spettanti alle
regioni   in   base   agli   artt. 117,  terzo  comma,  e  118  della
Costituzione.
    Analoga  censura  deve essere proposta con riferimento al comma 5
dell'art. 72,   nella   parte   in   cui   attribuisce   al  Ministro
dell'ambiente  e della tutela del territorio il potere di individuare
con  proprio  decreto le opere di competenza regionale, che rivestono
grande  rilevanza  tecnico-idraulica  per  la  modifica  del reticolo
idrografico  principale  e  del demanio idrico, i cui progetti devono
essere  sottoposti  al  parere  del  Consiglio  superiore  dei lavori
pubblici. La previsione contrasta, innanzi tutto, con gli artt. 117 e
118  della  Costituzione,  giacche' attribuisce al Ministro un potere
condizionante  nei  confronti  dell'autonomia anche legislativa delle
regioni. In via subordinata, si constata una violazione del principio
di leale cooperazione, in ragione del fatto che l'esplicita incidenza
sulle  competenze regionali ad opera del decreto ministeriale vede un
coinvolgimento  procedimentale  delle  istanze  rappresentative delle
regioni  limitato  alla  semplice  proposta iniziale della Conferenza
Stato-regioni.
    f) Per  concludere  sulla Sezione I della Parte terza del decreto
legislativo impugnato, una ultima disposizione deve essere annoverata
tra  quelle  invalide.  Trattasi del comma 4 dell'art. 55, ai termini
del   quale   l'Associazione   nazionale   comuni   italiani   (ANCI)
contribuisce  allo  svolgimento dell'attivita' conoscitiva in tema di
difesa  del  suolo  ed  ai  fini  della  diffusione dell'informazione
ambientale.
    L'attribuzione   all'ANCI   del   compito   di  partecipare  allo
svolgimento    dell'attivita'    conoscitiva   ed   alla   diffusione
dell'informazione ambientale nella quasi totalita' dei settori che si
ricollegano  alla difesa del suolo e' costituzionalmente illegittima,
per  violazione  dell'art. 118 della Costituzione, in quanto con essa
si  demanda  ad  una associazione di categoria, rappresentativa degli
interessi  dei  comuni, un'attivita' che deve, invece, trovare la sua
sede  naturale,  da un lato, nella Conferenza Stato-citta' (organismo
istituzionale  al  quale  possono  essere  demandati, per competenza,
compiti  ricognitivi  e  di  informazione) e, dall'altro, nel normale
esercizio  (eventualmente  anche  in  forma associata) delle funzioni
amministrative da parte degli enti territoriali.
    Dalla  caducazione  del  comma  4  deriva, in via consequenziale,
l'illegittimita'  ex  art. 27,  secondo periodo, legge n. 87 del 1953
anche del comma 5, che postula l'affidamento all'ANCI della attivita'
conoscitiva di cui sopra.
B.4) Parte terza - Sezione II (Tutela delle acque dall'inquinamento).
    Illegittimita' costituzionale degli artt. 73, 75, 87, 91, commi 2
e  6,  101,  comma 7, 113, comma 1, 114, 116, 119, 120, 121, comma 4,
122, 123, 132, 135, comma 2, e 136.
    a) La lettura dell'art. 73 del decreto legislativo impugnato, nel
quale  si  individuano  gli  obiettivi da perseguire nella disciplina
generale   per   la   tutela   delle  acque  superficiali,  marine  e
sotterranee,  rende  palese  la riproponibilita' delle considerazioni
svolte  supra,  sub  B.3),  in  merito  alla  riconducibilita'  della
disciplina  ad  un insieme di titoli competenziali di diversa natura,
tra i quali a prevalere e' il «governo del territorio» (si vedano, in
particolare,  le  lettere  a),  c),  d) ed e). Non mancano, peraltro,
richiami  alla  «tutela  dell'ambiente» (segnatamente con riferimento
alle  lettere a), b) e f)ed alla «tutela della salute» (in tal senso,
rilevano soprattutto le lettere b), d) ed e).
    Da  questi  rilievi,  deve  riproporsi,  sul  piano  generale, la
riconducibilita' della disciplina alla competenza concorrente in tema
di  «governo del territorio» e, in via gradata, la sussistenza di una
«concorrenza  di  competenze»  coinvolgente  le  tre  materie  appena
indicate.
    Nel   caso   specifico,   non  puo'  non  sottolinearsi,  in  via
preliminare, che la disciplina contenuta nella Sezione II della Parte
terza  si  appalesa  come  fortemente  condizionata in senso negativo
dall'assetto  dei  bacini  idrografici  disegnato  agli  artt.  63  e
seguenti. Sull'assunto che l'auspicata declaratoria di illegittimita'
costituzionale  delle  disposizioni  impugnate  supra,  sub  B.3.c) e
B.3.d),  non  puo'  non  avere  conseguenze,  sulla  sezione  ora  in
questione, di rilevanza tale da imporre una sua rivisitazione ab imis
da parte dei legislatore, in questa sede verranno passate in rassegna
le  disposizioni  sulle  quali  si  ritiene comunque indefettibile un
intervento caducatorio da parte di codesta ecc.ma Corte.
    b) Talune  disposizioni sono da censurare per il mancato rispetto
del   riparto   di   competenze  normative  ed  amministrative  sopra
delineato.
    (\alpha  )  L'art. 73,  nell'indicare  le  finalita'  delle norme
contenute  nella  sezione sulla tutela delle acque dall'inquinamento,
si  sofferma,  al  comma  2, anche sugli strumenti attraverso i quali
raggiungere  gli  obiettivi  di  cui  al comma 1. Per definizione, il
comma   2   non   puo'  recare  norme  di  principio,  donde  la  sua
illegittimita'  per  violazione  dell'art. 117,  terzo  comma,  della
Costituzione.
    Se  anche  si  adottasse  la prospettiva della sussistenza di una
«concorrenza di competenze», l'enunciazione degli strumenti potrebbe,
al  piu',  essere  inquadrata  nell'ambito  della  determinazione  di
standards  di tutela (cio' che appare, peraltro, assai problematico),
con il che il comma 2 non potrebbe comunque essere considerato immune
da vizi, giacche', in applicazione dei canoni di normazione enunciati
supra,  sub  B.2.a),  la  redazione  di  siffatti contenuti normativi
avrebbe  richiesto  una  previa  intesa  con  i  rappresentanti delle
regioni.
    (\beta  ) Radicalmente contrastante con lo spirito, oltre che con
la  lettera,  degli  artt.  117, commi secondo, terzo e quarto, e 118
della  Costituzione  e'  la disposizione di cui all'art. 75, comma 1,
lettera  b),  ai  termini  della  quale «le regioni e gli enti locali
esercitano le funzioni e i compiti ad essi spettanti nel quadro delle
competenze   costituzionalmente  determinate  e  nel  rispetto  delle
attribuzioni  statali».  L'enunciato normativo mostra chiaramente una
concezione  del  riparto  di  competenze inconciliabile con il mutato
assetto  costituzionale,  nella  misura in cui ignora che le funzioni
normative  delle  regioni  e  le  funzioni  amministrative degli enti
locali  non  possono  mai essere «determinate», stanti le clausole di
cui  all'art. 117,  quarto comma, ed all'art. 118, primo comma, della
Costituzione.  L'inserimento, nel tessuto normativo, di previsioni di
tal  fatta  riflette  la  tendenza  dello  Stato a restare l'ente cui
spettano  le  competenze «generali»; tendenza che, pero', deve essere
avversata  proprio  per  la sua contrarieta' ai citati articoli della
Costituzione.
    (\gamma ) Analogamente viziato risulta l'art. 116, secondo cui le
regioni integrano i piani di tutela di cui all'art. 121 con programmi
di  misure  che  «sono sottoposti per l'approvazione all'Autorita' di
bacino»,   la   quale   ultima,  «qualora  le  misure  non  risultino
sufficienti  a garantire il raggiungimento degli obiettivi previsti»,
e'  chiamata  ad  individuare le cause e ad indicare «alle regioni le
modalita'  per  il riesame dei programmi, invitandole ad apportare le
necessarie  modifiche,  fermo  restando  il  limite  costituito dalle
risorse disponibili».
    Alla luce di questa disposizione, si coglie chiaramente l'idea di
un'autonomia regionale che viene collocata «sotto tutela» da parte di
un  ente,  quale  l'Autorita'  di bacino, che e' riconducibile, nella
composizione  e nelle funzioni, alla sfera di diretta influenza dello
Stato  (come  si  confida  di  aver  adeguatamente  dimostrato supra,
sub B.3.c).
    L'art. 116,  in  definitiva,  contrasta  con  gli artt. 114 e 118
della Costituzione, proprio in conseguenza del mancato riconoscimento
di  una  sfera di autonomia della regione, configurata viceversa come
una  propaggine  di un ente di decentramento (l'Autorita' di bacino),
ed  a  questo  subordinata  (nella misura in cui riceve «istruzioni»,
«inviti» e «suggerimenti»).
    (\delta  )  L' art. 119, nel dettare norme in materia di recupero
dei  costi  relativi  ai servizi idrici, compresi quelli ambientali e
relativi  alla  risorsa,  attribuisce il potere di (attuare politiche
dei  prezzi  dell'acqua»  alle «Autorita' competenti». Il riferimento
generico  al  titolare  di  questa  attribuzione  e'  l'unico  che si
riscontra  nell'intero  Titolo IV della Sezione II della Parte terza,
poiche'  in  tutti  gli altri articoli sono adeguatamente specificate
quali  siano  le «autorita' competenti». In un settore cosi' delicato
come  e'  quello  in parola, una tale genericita' appare, di per se',
contrastante  con  l'art. 118 della Costituzione, nella misura in cui
e'  all'origine di incertezza in ordine alla concreta titolarita' del
potere.
    La  natura  delle attivita' previste all'art. 119 rende chiara la
necessita'  di  traslitterare l'espressione «Autorita' competenti» in
«Regioni  (e  Province  autonome)», giacche' sono questi i livelli di
governo  chiamati  -  come  evidenziato  anche da una interpretazione
sistematica del Capo in cui l'art. 119 e' contenuto - ad agire in via
amministrativa. Qualora, pero', ad un tale approdo ermeneutico non si
giungesse,   una   declaratoria   di   illegittimita'  costituzionale
dell'articolo  in  questione,  nella  parte  in  cui  non attribuisce
l'attuazione  delle  politiche dei prezzi dell'acqua alle regioni, si
imporrebbe  onde  eliminare  il  contrasto  inveratosi con l'art. 118
della Costituzione.
    La  illegittimita' costituzionale dell'art. 119 ha riflessi anche
sull'art. 121,  comma  4,  lettera  h), nella parte in cui ad esso fa
esplicito  rinvio.  Il  vizio  e', in questo caso, da riscontrarsi in
relazione  all'utilizzo  della  formula  generica «dare attuazione» -
priva della specificazione dei soggetti che in concreto sono chiamati
a  farlo  -  alle  disposizioni concernenti il recupero dei costi dei
servizi idrici.
    Come  e'  ovvio,  l'accoglimento  della prospettiva ermeneutica o
della questione di legittimita' costituzionale riguardante l'art. 119
farebbe, peraltro, cadere la censura sull'art. 121.
    (\varepsilon  )  L'art. 120  assegna  alle  regioni il compito di
elaborare  ed  attuare  i  programmi  per la conoscenza e la verifica
dello  stato  qualitativo  e  quantitativo delle acque superficiali e
sotterranee all'interno di ciascun bacino idrografico.
    La  previsione,  apparentemente  in  linea con il ruolo che delle
regioni  deve necessariamente essere proprio in materia, tradisce una
limitazione  eccessiva dell'autonomia amministrativa de1le regioni in
considerazione  di  quanto  stabilito  al  comma  2 dell'art. 120. Ai
termini  del  primo  periodo,  infatti, i programmi «sono adottati in
conformita' alle indicazioni di cui all'Allegato 1 alla parte terza».
L'allegato  e'  inusitatamente  lungo e dettagliato, tanto da rendere
l'attivita'  della  regione  l'espressione, non gia' di una autonomia
amministrativa,  ma  di una funzione operativa ed ausiliaria rispetto
ai  desiderata  di  un  ente  sovraordinato,  nella specie ovviamente
identificabile nello Stato.
    L'ottica  di  sudditanza  delle  regioni,  che  anche  da  questa
disposizione  emerge,  si  pone  in  patente contrasto con l'art. 118
della Costituzione.
    (\zeta  ) Considerazioni analoghe debbono essere svolte in merito
all'art. 122,  che,  dopo aver riconosciuto alle regioni il potere di
promuovere  «la  partecipazione  attiva di tutte le parti interessate
all'attuazione  della  parte  terza del [...] decreto, in particolare
all'elaborazione,   al  riesame  e  all'aggiornamento  dei  Piani  di
tutela», si sofferma sui dettagli delle azioni che le regioni debbono
intraprendere,  violando  cosi', in ragione dell'inserimento di norme
non  di principio, l'art. 117, terzo comma, della Costituzione, e, in
ragione    della   limitazione   eccessiva   della   discrezionalita'
amministrativa regionale, l'art. 118 della Costituzione.
    (\eta  )  L'art. 123 e' inficiato, a sua volta, dal contrasto con
l'art. 117  della  Costituzione, in quanto in esso non ci si limita a
porre   il   principio   in   base  al  quale  «contestualmente  alla
pubblicazione  dei  Piani  di  tutela le regioni trasmettono copia di
detti  piani  e  di  tutti  gli aggiornamenti successivi al Ministero
dell'ambiente  e  della  tutela del territorio al fine del successivo
inoltro  alla  Commissione  europea», ma si vanno anche a dettagliare
ulteriormente  le  modalita',  i  tempi e gli oggetti specifici delle
informazioni da trasmettere, esorbitando cosi' dai poteri legislativi
che allo Stato spettano in virtu' del terzo comma dell'art. 117 della
Costituzione.
    c) La   maggior   parte   delle   fattispecie  di  illegittimita'
costituzionale  deriva  dalla  violazione degli artt. 117 e 118 della
Costituzione,  associata  alla  violazione  dell'art. 76, a sua volta
veicolata  dalla  violazione dell'art. 1, comma 8, della legge n. 308
del  2004,  nella  parte  in  cui  impone  al legislatore delegato il
rispetto  delle  attribuzioni  che  delle regioni e degli enti locali
sono  proprie  in  virtu'  del  decreto  legislativo n. 112 del 1998.
Analogamente,  sono inficiate dal mancato rispetto dell'art. 1, comma
8,   della  legge  di  delega  quelle  disposizioni  che  segnano  un
«arretramento»  della  posizione di regioni ed enti locali rispetto a
quanto  previsto  in  seno  al  decreto  legislativo  11 maggio 1999,
n. 152,  dal  momento  che  -  come  si e' avuto modo di sottolineare
supra,  sub B.3.b), (\alpha ), a proposito del riferimento alla legge
n. 183  del 1989 - la ratio inequivocabile della disposizione redatta
dal  legislatore  delegante  era  quella  di  impedire  ogni «ritorno
indietro»  rispetto  alle  acquisizioni gia' consolidate in capo alle
autonomie territoriali.
    (\alpha  )  Viene,  innanzi  tutto,  in rilievo l'art. 87, il cui
comma  1  cosi'  recita: «Le regioni, d'intesa con il Ministero delle
politiche  agricole  e  forestali, designano, nell'ambito delle acque
marine  costiere e salmastre che sono sede di banchi e di popolazioni
naturali  di  molluschi  bivalvi  e  gasteropodi,  quelle richiedenti
protezione e miglioramento per consentire la vita e lo sviluppo degli
stessi  e  per  contribuire  alla  buona  qualita' dei prodotti della
molluschicoltura direttamente commestibili per l'uomo».
    Tale  disposizione ripete quella contenuta nell'art. 14, comma 1,
del  decreto  legislativo  n. 152  del  1999,  in cui, pero', non era
prevista   l'intesa  con  il  Ministro  delle  politiche  agricole  e
forestali. Trattandosi di competenza gia' interamente trasferita alle
regioni,  appare  evidente  che  lo  Stato non possa sotterraneamente
riappropriarsene  attraverso  un atto di codeterminazione, di cui non
si  rinviene  alcuna giustificazione, ne' sul piano funzionale ne' su
quello del sistema costituzionale di ripartizione delle competenze.
    (\beta  )  Un  vizio ancor piu' grave e' da riscontrare in merito
all'art. 91,  comma  2,  che  attribuisce al Ministro dell'ambiente e
della  tutela del territorio, sentita la Conferenza Stato-regioni, il
potere  di  emanare  un  decreto  con  il  quale  individuare le aree
sensibili  ulteriori rispetto a quelle inserite nell'elenco di cui al
comma 1.
    In   proposito,   va   sottolineato  che  l'individuazione  delle
«ulteriori  aree  sensibili»  era  gia' stata trasferita alle regioni
dall'art. 18,  comma  4,  del decreto legislativo n. 152 del 1999, in
piena  coerenza  con  l'art. 80,  comma  1,  lettera  n), del decreto
legislativo n. 112 del 1998, che attribuiva allo Stato unicamente «la
definizione  dei  criteri  generali  per  la  elaborazione  dei piani
regionali di risanamento delle acque».
    Appare, quindi, evidente l'indebita riattrazione allo Stato della
competenza  in  ordine  alla  individuazione  delle  «ulteriori  aree
sensibili», la cui illegittimita' costituzionale puo' essere soltanto
mitigata,  ma  non certo superata, dalla previsione del previo parere
(oltretutto non vincolante) in sede di Conferenza Stato-regioni.
    (\gamma   )   Con   riferimento   all'art. 101,   comma  7,  deve
evidenziarsi  come  esso  assimili  alle  acque reflue domestiche gli
scarichi «provenienti da imprese [...] che esercitano anche attivita'
di  trasformazione  o  di  valorizzazione  della produzione agricola,
«inserita  con carattere di normalita' e complementarieta' funzionale
nel   ciclo   produttivo  aziendale  e  con  materia  prima  lavorata
proveniente  in  misura prevalente dall'attivita' di coltivazione dei
terreni di cui si abbia a qualunque titolo la disponibilita» (lettera
c).
    Nella  normativa  precedente, l'art. 28, comma 7, lettera c), del
decreto   legislativo   n. 152   del   1999   prevedeva  una  analoga
assimilazione,  fissando,  pero',  un  preciso  rapporto  minimo (due
terzi) tra materia prima derivante dalla propria produzione e materia
prima  derivante  da produzioni altrui: con la disposizione impugnata
il  rapporto  minimo  precisamente individuato viene sostituito da un
concetto  inevitabilmente  elastico  quale  e'  quello  della «misura
prevalente»,  che  ben  puo'  prestarsi  ad una certa (anche marcata)
discrezionalita' applicativa.
    Ora,  una siffatta discrezionalita' e' potenzialmente in grado di
tradursi  nell'applicazione  di livelli di trattamento meno rigorosi,
con evidenti effetti negativi sulle caratteristiche di qualita' delle
acque  del corpo recettore. In questo quadro, l'art. 101, comma 7, si
pone  come  una norma foriera di difficolta' nel raggiungimento degli
obiettivi  di  qualita'  che sono stabiliti a livello comunitario (in
violazione, dunque, dell'art. 117, primo comma, della Costituzione) e
nel  «miglioramento  della  qualita' dell'ambiente» (che pure figura,
all'art. 1,  comma  8, lettera a), della legge n. 308 del 2004, tra i
«principi   e   criteri  direttivi  generali»,  donde  la  violazione
dell'art. 76 della Costituzione).
    La  conseguenza  ultima e' quella di incidere negativamente sulle
funzioni svolte dalle regioni e dagli enti locali, chiamati a gestire
una  situazione  che,  nel mettere a repentaglio il conseguimento dei
risultati   imposti  dal  diritto  comunitario,  e'  suscettibile  di
divenire una situazione emergenziale.
    (\delta   )   Assai   significativo   del  modus  procedendi  del
legislatore  delegato  e'  altresi'  l'art. 113,  in  tema  di «acque
meteoriche  di  dilavamento  e  acque  di  prima  pioggia».  Il testo
dell'articolo  e'  apparentemente  identico a quello dell'art. 39 del
decreto   legislativo   n. 152   del  1999,  ai  termini  del  quale,
nell'ottica  della  prevenzione di rischi idraulici ed ambientali, le
regioni  erano  chiamate  a  disciplinare le forme di controllo degli
carichi  di  acque  meteoriche  di  dilavamento  provenienti  da reti
fognarie  separate  ed  i  casi  in  cui puo' essere richiesto che le
immissioni  delle acque meteoriche di dilavamento, effettuate tramite
altre condotte separate, siano sottoposte a particolari prescrizioni,
ivi compresa l'eventuale autorizzazione.
    L'art. 113,  al  comma  1,  ripete  integralmente la disposizione
previgente, salvo introdurre l'obbligo, per le regioni, di richiedere
il parere del Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio.
    Si  tratta,  di  nuovo,  di  un  «arretramento»  della  autonomia
regionale,  in  violazione  dei  precetti  contenuti  nella  legge di
delega,  che si inquadra nella prospettiva di collocare le regioni in
una   posizione   di   subalternita',   nell'azione  di  governo  del
territorio,  rispetto alle determinazioni di organi statali. Nel caso
di  specie,  la  forma  di tutela imposta e' particolarmente pesante,
giacche'   l'intervento   statale   va   a  condizionare  l'attivita'
legislativa  delle  regioni,  in  aperto  contrasto  con  il disposto
dell'art. 117, terzo comma, della Costituzione.
    (\varepsilon  )  I  rilievi  mossi  all'art. 113,  comma  1, sono
integralmente riproponibili con riferimento all'art. 114, comma 1, in
materia di «dighe». Nella disposizione si stabilisce che «le regioni,
previo   parere  dei  Ministero  dell'ambiente  e  della  tutela  del
territorio,  adottano  apposita disciplina in materia di restituzione
delle  acque  utilizzate  per  la produzione idroelettrica, per scopi
irrigui  e  in  impianti  di  potabilizzazione,  nonche'  delle acque
derivanti  da sondaggi o perforazioni diversi da quelli relativi alla
ricerca  ed  estrazione  di  idrocarburi,  al  fine  di  garantire il
mantenimento  o  il raggiungimento degli obiettivi di qualita' di cui
al  titolo II della parte terza del [...] decreto» legislativo n. 152
del 2006.
    Una    previsione    sostanzialmente   identica   era   contenuta
nell'art. 40,  comma  1, del decreto legislativo n. 152 del 1999, nel
quale,  pero',  difettava un qualunque riferimento alla necessita' di
acquisire  il  parere  del Ministero dell'ambiente e della tutela del
territorio.  Si  e', quindi, nuovamente in presenza dell'introduzione
di  una  forma di anomala «tutela» di un organo statale nei confronti
dell'ente  regionale,  in  stridente  dissonanza  con le prescrizioni
della  legge  di  delega, ma soprattutto con il quadro costituzionale
successivo   alla   riforma   del  Titolo  V  della  Parte  II  della
Costituzione.
    (\zeta ) L'art. 135, comma 2, stabilisce che, «fatto salvo quanto
previsto dal decreto legislativo 31 marzo 1998, n. 112, ai fini della
sorveglianza  e  dell'accertamento degli illeciti in violazione delle
norme  in materia di tutela delle acque dall'inquinamento provvede il
Comando   Carabinieri   tutela  ambiente  (C.C.T.A.);  puo'  altresi'
intervenire  il  Corpo  forestale dello Stato e possono concorrere la
Guardia  di  finanza e la Polizia di Stato». Inoltre, «il Corpo delle
capitanerie  di porto, Guardia costiera, provvede alla sorveglianza e
all'accertamento  delle  violazioni di cui alla parte terza del [...]
decreto  quando  dalle  stesse possano derivare danni o situazioni di
pericolo per l'ambiente marino e costiero».
    La corrispondente disposizione del decreto legislativo n. 152 del
1999  stabiliva  che  alla  sorveglianza  ed  all'accertamento  degli
illeciti  in  violazione delle norme in materia di tutela delle acque
dall'inquinamento e del relativo danno ambientale concorreva il Corpo
forestale  dello Stato, in qualita' di forza di polizia specializzata
in materia ambientale.
    Dal  confronto  tra  le  due  disposizioni  emerge, di nuovo, una
compressione delle prerogative regionali.
    Lo  stesso  art. 135,  al  comma  1,  attribuisce alle regioni la
competenza  ad accertare gli illeciti amministrativi e ad irrogare le
sanzioni amministrative: appare conseguentemente ovvio che dovrebbero
essere  le  regioni  ad  individuare i soggetti preposti a compiti di
polizia   amministrativa.   Il   comma   2   qui  censurato,  invece,
cristallizza  i  compiti delle diverse forze di polizia, affidando il
ruolo  centrale a strutture facenti capo allo Stato e relegando ad un
ruolo  facoltativo e residuale il Corpo forestale, vale a dire quella
che,  in precedenza, era l'unica forza espressamente contemplata, sia
pure  come  struttura  «concorrente»  con altre, che le regioni erano
ovviamente chiamate a specificare.
    A  chiarire  ulteriormente il disegno teso a rendere marginale il
ruolo  delle regioni, non puo' sfuggire che, ai termini dell'art. 70,
lettera  c),  del  decreto  legislativo  n. 112  del 1998, sono state
conferite  a  regioni  ed enti locali «le competenze [...] necessarie
all'esercizio  delle funzioni di competenza statale». La traslazione,
dal  Corpo  forestale  al  Comando Carabinieri tutela ambiente, delle
funzioni  fondamentali  in  tema  di  sorveglianza  e accertamento di
illeciti  in  violazione delle norme in materia di tutela delle acque
dall'inquinamento  rappresenta,  allora  un tentativo, neppure troppo
mascherato, di avocare allo Stato una competenza gia' trasferita agli
enti territoriali infra-statuali.
    d)  Per concludere sulla Sezione II della Parte terza del decreto
legislativo   n. 152   del   2006,   debbono  individuarsi  ulteriori
disposizioni  affette  da  illegittimita'  costituzionale  per motivi
diversi da quelli sin qui passati in rassegna.
    (\alpha  )  In  primo  luogo,  merita  soffermarsi  sul  comma  4
dell'art. 75,  nel  quale si stabilisce che «con decreto dei Ministri
competenti  per materia si provvede alla modifica degli Allegati alla
parte  terza  del presente decreto per dare attuazione alle direttive
che  saranno  emanate dall'Unione europea, per le parti in cui queste
modifichino  modalita'  esecutive e caratteristiche di ordine tecnico
delle  direttive  dell'Unione  europea recepite dalla parte terza del
[...]  decreto,  secondo  quanto previsto dall'art. 13, della legge 4
febbraio 2005, n. 11».
    La   disposizione  si  pone  in  contrasto,  innanzi  tutto,  con
l'art. 117, quinto comma, della Costituzione, poiche' attribuisce, in
generale, ad organi statali il compito di dare attuazione a direttive
comunitarie che, quanto meno per la parte in cui modificano modalita'
esecutive  di  altre  direttive, incidono su aspetti di dettaglio del
settore  in  questione.  Come si e' avuto modo di rilevare supra, sub
(a),  una  siffatta  attivita' non puo' che spettare, in virtu' degli
artt. 117 e 118 della Costituzione, alla cura delle regioni.
    In  questa  prospettiva,  appare  evidente  anche  la  violazione
dell'art. 117,   sesto   comma,   della   Costituzione,   poiche'  si
attribuisce  un  potere regolamentare a ministri in un ambito diverso
da quelli individuati nel secondo comma dell'art. 117.
    In  via assolutamente subordinata, l'attribuzione ai ministri del
potere  di  emanare decreti viola il principio di leale cooperazione,
nella  misura  in  cui  gli  atti  eventualmente posti in essere, per
l'importanza che possono assumere, necessitano, nel loro procedimento
di  formazione,  di  un  intervento  delle istanze rappresentative di
regioni ed enti locali.
    (\beta  )  Il precitato art. 91, in tema di «aree sensibili» reca
un'ulteriore  disposizione  inficiata  da  un  vizio  di legittimita'
costituzionale.  Trattasi  del  comma  6, che attribuisce al Ministro
dell'ambiente e della tutela del territorio il compito di provvedere,
con  proprio  decreto, alla riedificazione delle aree sensibili e dei
rispettivi  bacini drenanti che contribuiscono all'inquinamento delle
aree sensibili.
    Il   decreto   ministeriale   deve  essere  emanato  «sentita  la
Conferenza    Stato-regioni».    La   natura   meramente   consultiva
dell'intervento   della   Conferenza   risulta  contrastante  con  il
principio  di  leale  cooperazione. Cio' in quanto l'incidenza che il
decreto ministeriale inevitabilmente ha sul territorio (e sul governo
del  territorio)  regionale  rende indefettibile una intesa, che sola
puo'  consentire  alle  regioni  di far adeguatamente valere i propri
interessi.
    (\gamma   )   L'art. 132   prevede,   per   il  caso  di  mancata
effettuazione  dei  controlli  previsti dalla Parte terza del decreto
legislativo   impugnato,   un   potere   sostitutivo   del   Ministro
dell'ambiente  e  della  tutela  del  territorio  nei confronti delle
regioni.
    L'articolo  si  pone  in contrasto con l'art. 120, secondo comma,
della  Costituzione,  anche  alla luce di quanto previsto dall'art. 8
della  legge  5  giugno  2003,  n. 131, nella parte in cui conferisce
l'esercizio  del  potere sostitutivo statale ad un ministro, anziche'
all'organo  di  vertice  del  Governo  nazionale, come esplicitamente
richiesto, oltre che dalla giurisprudenza costituzionale (a far tempo
dalle sentenze nn. 313 del 2003 e 43 del 2004), dall'art. 8, comma 1,
della legge n. 131 del 2003.
    (\delta   )  Infine,  l'art. 136  disciplina  i  «proventi  delle
sanzioni  amministrative  pecuniarie», ponendo alle somme riscosse, e
versate   all'entrata   del   bilancio   regionale,   un  vincolo  di
destinazione  che  si sostanzia nel fatto che le somme debbono essere
finalizzate    alle    «opere   di   risanamento   e   di   riduzione
dell'inquinamento  dei  corpi  idrici».  La previsione di un siffatto
vincolo  di  destinazione  risulta costituzionalmente illegittima, in
virtu'   dell'art. 119  della  Costituzione,  come  dimostrato  dalla
costante giurisprudenza di codesta ecc.ma Corte.
B.5) Parte terza - Sezione III (Gestione delle risorse idriche).
    Illegittimita'  costituzionale degli artt. da 144 a 146, da 147 a
158, 159 e 160.
    a)  Nel tentativo (giuridicamente vano) di inserire la disciplina
della  gestione  delle  risorse  idriche  nell'ambito  di  competenze
legislative  esclusive  dello  Stato  o,  quanto  meno, di competenze
trasversali,  l'art. 141,  comma 1, del decreto legislativo impugnato
afferma  l'esistenza  di  una «concorrenza di competenze» riguardante
«la  tutela dell'ambiente e della concorrenza e la determinazione dei
livelli  essenziali delle prestazioni del servizio idrico integrato e
delle  relative  funzioni  fondamentali  di comuni, province e citta'
metropolitane».
    Dato  atto  che  in  materia di gestione delle risorse idriche si
«realizza  un complesso intreccio di interessi e competenze in cura a
diversi  livelli  istituzionali» (sentenza n. 412 del 1994), cio' che
non puo' non contestarsi e' la individuazione delle materie coinvolte
in questo «intreccio».
    L'elenco redatto si appalesa, infatti, in parte sovrabbondante ed
in parte lacunoso.
    Nel  primo  senso,  e'  da  escludere  la  materia  «tutela della
concorrenza»,  da  codesta ecc.ma Corte definita alla stregua di «una
delle  leve  della  politica  economica  statale» (sentenza n. 14 del
2004): sebbene «la nozione di tutela della concorrenza abbracci [...]
nel  loro  complesso  i  rapporti  concorrenziali  sul  mercato e non
esclud[a]  interventi promozionali dello Stato», e' indiscutibile che
«una  dilatazione  massima  di  tale  competenza,  che non presenta i
caratteri  di  una  materia  di  estensione  certa,  ma quelli di una
funzione  esercitabile  sui  piu'  diversi  oggetti,  rischierebbe di
vanificare  lo  schema  di  riparto  dell'art. 117  Cost.,  che  vede
attribuite  alla  potesta'  legislativa residuale e concorrente delle
regioni   materie  la  cui  disciplina  incide  innegabilmente  sullo
sviluppo economico» (ancora, sentenza n. 14 del 2004).
    Facendo applicazione di questi principi, la stessa giurisprudenza
costituzionale  ha  avuto  modo  di  circoscrivere la rilevanza della
«tutela  della  concorrenza»  ai  soli  servizi  pubblici  locali «di
rilevanza  economica»  (sentenza  n. 272  del  2004),  cio' che esula
chiaramente  dall'ambito  di disciplina di cui alla Sezione III della
Parte terza del decreto legislativo impugnato.
    Analogamente,   deve   escludersi   la  rilevanza  della  materia
rappresentata  dalle  «funzioni  fondamentali  di  comuni, province e
citta'   metropolitane»,   giacche'   la   stessa   previsione  della
definizione   (da   parte  delle  regioni)  di  «ambiti  territoriali
ottimali»,  di  estensione  territorialmente  variabili (art. 147 del
decreto  legislativo  impugnato), postula una dimensione territoriale
tale  da  escludere  che  la  gestione dei servizi in questione possa
considerarsi  «esplicazione  di una funzione propria ed indefettibile
dell'ente locale» (sentenza n. 272 del 2004).
    Nel  senso  della  lacunosita'  dell'elenco  di cui all'art. 141,
comma   1,   del   decreto  legislativo  n. 152  del  2006,  si  pone
l'indefettibilita'   dell'inserimento   della  materia  «governo  del
territorio»  (in  ragione  del  - peraltro consolidato - collegamento
gia'  piu'  volte evidenziato tra la gestione delle risorse idriche e
la  materia  di  competenza concorrente), della materia «tutela della
salute»  (viste  le  ricadute che la tutela delle risorse idriche non
puo'  non avere sul diritto alla salute degli individui, anche inteso
come  diritto  all'ambiente  salubre)  e,  soprattutto, della materia
«servizi  pubblici  locali».  A  quest'ultimo proposito, non puo' che
farsi riferimento alla sentenza n. 222 del 2005, con la quale codesta
ecc.ma Corte, avendo riguardo ad un servizio pubblico quale quello di
trasporto,  ha  evidenziato  che «non vi e' dubbio che la materia del
trasporto   pubblico  locale  rientra  nell'ambito  delle  competenze
residuali  delle  regioni di cui al quarto comma dell'art. 117 Cost.)
(l'esistenza di una materia «servizi pubblici locali» come materia di
competenza  residuale e' stata poi ribadita con la sentenza n. 26 del
2006).
    Fondandosi sulla rimodulazione operata dell'elencazione contenuta
nell'art. 141,   comma  1,  del  decreto  legislativo  impugnato,  la
conclusione  cui  deve  addivenirsi  e'  nel senso della sussistenza,
relativamente  al «servizio idrico integrato», di una «concorrenza di
competenze»,  che  non  si  risolve  nella  prevalenza di una materia
rispetto  ad  un'altra.  Ne  deriva  che  l'intreccio  di  competenze
trasversali,   concorrenti  e  residuali  rende  imprescindibile  una
normazione   adottata   a  seguito  di  procedimenti  che  vedano  un
coinvolgimento  degli  enti  regionali che vada ben oltre il semplice
parere,  e che si incardini essenzialmente sul modello dell'intesa in
senso   forte:   in   ultima   analisi,   dunque,  la  illegittimita'
costituzionale  per il vizio derivante dalla violazione del principio
di   leale   cooperazione   che   affligge  il  procedimento  seguito
nell'approvazione  del  decreto  legislativo n. 152 del 2006 non puo'
non  colpire l'intero Titolo II della Sezione III della Parte seconda
del decreto stesso, ossia gli artt. da 147 a 158.
    A monte, rispetto all'incostituzionalita' appena rilevata si pone
quella degli artt. da 144 a 146. Tali disposizioni dettano i principi
generali  alla luce dei quali porre in essere la gestione del demanio
idrico,   segnatamente   attraverso  l'impegno  per  il  mantenimento
dell'equilibrio  del  bilancio  idrico  (art. 145) e per il risparmio
idrico  (art. 146).  Essendo  in  larga misura condizionanti rispetto
alla  gestione  delle  risorse  idriche  dettagliata  negli  articoli
seguenti,  le  disposizioni  di cui agli artt. da 144 a 146 avrebbero
necessitato  di  una  partecipazione  effettiva  delle  regioni  alla
determinazione  dei  loro  contenuti, partecipazione nella specie ben
lungi dall'essersi prodotta.
    Con  precipuo  riguardo,  poi,  al comma 3 dell'art. 146, sono da
rilevare  ulteriori motivi di illegittimita' costituzionale derivanti
dalla  previsione  secondo  cui  «il  Ministro  dell'ambiente e della
tutela del territorio, sentita l'Autorita' di vigilanza sulle risorse
idriche  e sui rifiuti e il Dipartimento tutela delle acque interne e
marine  dell'Agenzia  per la protezione dell'ambiente e per i servizi
tecnici  (APAT), adotta un regolamento per la definizione dei criteri
e  dei metodi in base ai quali valutare le perdite degli acquedotti e
delle  fognature».  Siffata  disposizione  si  pone  in contrasto con
l'art. 117,   sesto  comma,  della  Costituzione,  per  il  fatto  di
prevedere  un  potere  regolamentare in capo allo Stato in un settore
non riconducibile ad una materia di competenza esclusiva ex art. 117,
secondo  comma.  In  subordine,  deve  constatarsi una violazione del
principio di leale cooperazione, discendente dalla mancata previsione
della  necessita'  di un coinvolgimento dei rappresentanti degli enti
regionali.
    b) Qualora  si  dovesse  ritenere  -  cio'  che  peraltro  appare
difficilmente  argomentabile  -  che il servizio idrico integrato non
coinvolga  la  materia «servizi pubblici locali», o che, comunque, si
possa  assegnare  una  prevalenza,  tra  le materie interessate, alla
«tutela  dell'ambiente», gli articoli appena censurati risulterebbero
parimenti  in buona parte illegittimi, in quanto recanti disposizioni
di   minuto   dettaglio,  indiscutibilmente  ultronee  rispetto  alla
fissazione di standards di tutela uniformi, in contrasto, quindi, con
i  principi  che  reggono il riparto delle funzioni amministrative di
cui  all'art. 118  della Costituzione, nonche' con l'art. 1, comma 8,
della legge n. 308 del 2004, nella parte in cui impone al legislatore
il   rispetto  delle  attribuzioni  regionali  e  degli  enti  locali
stabilite all'interno del decreto legislativo n. 112 del 1998. Tra le
disposizioni  di  quest'ultimo decreto, assume particolare importanza
quella  di  cui  all'art. 88,  comma 1, lettera h), secondo cui hanno
rilievo  nazionale i compiti relativi «ai criteri per la gestione del
servizio   idrico  integrato»:  il  richiamo  ai  semplici  «criteri»
implica,  evidentemente, l'impossibilita' per lo Stato di dettagliare
la  normativa  in materia, dovendosi limitare alla predisposizione di
un  quadro  assolutamente  generale  nel  quale le regioni (e, se del
caso,  gli  enti  locali)  siano  lasciati  liberi  di agire nel modo
ritenuto  piu'  consono  alla  tutela  del  proprio  territorio ed al
soddisfacimento delle esigenze della propria popolazione.
    (\alpha  )  La  illegittimita'  costituzionale  colpisce, innanzi
tutto,  l'art. 148  nel  suo  complesso,  in  quanto  esso  individua
nell'Autorita'  d'ambito  la  struttura  cui  e' affidata la gestione
delle  risorse  idriche.  Si  va in tal modo a violare, per un verso,
l'art. 118  della Costituzione, nella misura in cui si ipostatizza un
certo  assetto  di competenze amministrative, senza tener conto delle
peculiarita' di ciascun territorio, peculiarita' che soltanto in sede
di  legislazione  regionale possono trovare adeguata rispondenza. Per
altro  verso,  si  pone  in  non cale l'art. 86, comma 1, del decreto
legislativo  n. 112 del 1998, ai termini del quale «alla gestione dei
beni  del  demanio  idrico  provvedono  le  regioni e gli enti locali
competenti per territorio»: non solo, dunque, lo Stato priva gli enti
territoriali  di  poteri  amministrativi  loro attribuiti dal decreto
n. 112  (donde  la  violazione  della  legge  di  delega e, in ultima
analisi, dell'art. 76 della Costituzione), ma espropria le regioni di
poteri  legislativi  che il tenore della disposizione citata indicano
chiaramente  (sia  pure  implicitamente)  come di spettanza regionale
(donde la violazione dell'art. 117 della Costituzione).
    Quand'anche  si configurasse l'Autorita' d'ambito alla stregua di
uno  standard  di tutela uniforme (il che sembra assai problematico),
resterebbero  comunque  illegittimi  i  commi 3 e 5 dell'art. 148, in
ragione  del contenuto di estremo dettaglio che essi recano: il primo
disciplina,   infatti,   le   forme   di  pubblicazione  dei  bilanci
dell'Autorita' d'ambito, mentre il secondo si diffonde minuziosamente
sulla  partecipazione  all'Autorita',  andando  cosi'  ad incidere su
aspetti che non tangono in alcun modo la tutela dell'ambiente, ma che
riguardano, semmai, misure organizzative che le regioni debbono poter
calibrare in relazione alle peculiarita' del proprio territorio.
    (\beta ) L'art. 149 e' costituzionalmente illegittimo giacche' in
esso   si  manifestano  le  velleita'  dello  Stato  di  disciplinare
l'esercizio   delle   funzioni  amministrative  spettanti  agli  enti
infra-statuali.   La   violazione   degli   artt. 117   e  118  della
Costituzione   discende,  in  primo  luogo,  dalla  previsione  dello
strumento  (il piano d'ambito) e, secondariamente (subordinatamente),
dalla specificazione dei contenuti che dello strumento sono propri.
    La  illegittimita' costituzionale del comma 1 ha come conseguenza
inevitabile  l'incostituzionalita'  anche  dei  commi  da  2 a 5, che
specificano ulteriormente i contenuti del comma 1.
    Per  quanto  attiene al comma 6, il vizio di costituzionalita' e'
riscontrabile nella disciplina procedurale assai dettagliata che reca
relativamente  alle fasi successive alla delibera di approvazione del
piano d'ambito.
    (\gamma  )  L'inclusione del servizio idrico integrato dal novero
dei   servizi  pubblici  locali  di  rilevanza  economica  (ai  sensi
dell'art. 113  del  decreto  legislativo 18 agosto 2000, n. 267, come
sostituito  dall'art. 35, comma 1, legge 20 dicembre 2001, n. 448, ed
indi  modificato  dall'art. 14,  comma  1, del decreto legislativo 30
settembre  2003,  n. 269, convertito con modificazioni dalla legge 24
novembre   2003,   n. 326,   e  poi  dall'art. 4,  comma  234,  legge
24 dicembre  2003, n. 350) conduce alla illegittimita' costituzionale
degli artt. 150, 151 e 153.
    L'art. 150  reca norme in tema di «scelta della forma di gestione
e   procedure   di   affidamento»,   basandosi  essenzialmente  sulla
disciplina  dell'art. 113  del  decreto  legislativo n. 267 del 2000,
oggetto,  non  a  caso,  di  molteplici  rinvii:  sulla  scorta delle
affermazioni gia' ricordate di codesta ecc.ma Corte, rese nell'ambito
della  sentenza  n. 272  del  2004, si dimostra chiaramente l'intento
dilatatorio  perseguito  dal  legislatore  statale relativamente alle
competenze  di  cui  e'  titolare. L'esclusione di ogni rilievo della
«tutela  della  concorrenza»  nel settore che ci occupa configura, in
effetti,   come  improponibile  una  recezione  della  normativa  dal
precitato art. 113.
    La   censura   dell'art. 150   si  riverbera,  ovviamente,  anche
sull'art. 151,  che  del  primo e' prosieguo logico e specificazione,
dal  momento  che  disciplina  i  «rapporti  tra autorita' d'ambito e
soggetti gestori del servizio idrico integrato».
    Identica     argomentazione     sorregge    l'incostituzionalita'
dell'art. 153,  concernente  le  dotazioni  (infrastrutture  idriche,
immobilizzazioni,  attivita'  e  passivita' relative al servizio) dei
soggetti gestori del servizio idrico.
    (\delta  )  L'art. 154 disciplina la «tariffa del servizio idrico
integrato»,  fissando  i  parametri in base ai quali essa deve essere
concretamente determinata.
    La   determinazione   della   tariffa  di  un  servizio  rientra,
evidentemente,  negli aspetti di pura gestione dello stesso, e dunque
non  puo'  non  tradursi  in  una  normativa di minuto dettaglio (sul
presupposto  - che si e' qui fatto proprio, peraltro solo per ipotesi
-  che  si  versi  un  ambito  materiale  comunque riconducibile alla
competenza trasversale dello Stato).
    La   stessa  giurisprudenza  costituzionale,  d'altro  canto,  ha
chiarito  che  le  tariffe  in  materia  di  acque  non  possono  non
inquadrarsi nella competenza legislativa regionale. Viene in rilievo,
a  tal  proposito,  la  sentenza n. 335 del 2005. Una delle questioni
sollevate in via principale del Presidente dei Consiglio dei ministri
ha    riguardato    la   disposizione   legislativa   della   regione
Emilia-Romagna  in  cui  si  prevede  che, con decreto del Presidente
della  Giunta,  venga stabilito il metodo per la determinazione della
tariffa  relativa al servizio integrato ed alla gestione dei rifiuti.
Il  ricorrente aveva argomentato che l'individuazione dei criteri per
la  determinazione  della tariffa in materia di acque costituisce per
sua  natura  sia un livello essenziale di prestazione che deve essere
garantito   su  tutto  il  territorio  nazionale,  sia  un  principio
fondamentale in materia di governo del territorio, con la conseguenza
che  la  disposizione  impugnata  era  da  ritenersi contrastante con
l'art. 117,   secondo   comma,  lettera  m),  e  terzo  comma,  della
Costituzione.   Codesta   ecc.ma   Corte  ha  disatteso  la  censura,
dichiarando  la  questione  inammissibile «per l'assenza di qualsiasi
motivazione in ordine ai parametri costituzionali, peraltro di dubbia
pertinenza,   meramente  invocati  dal  ricorrente»  (il  corsivo  e'
aggiunto,  proprio a sottolineare il punto centrale della motivazione
per quanto qui interessa).
    Alla  violazione,  ad opera dell'art. 154 del decreto legislativo
impugnato, degli artt. 117 e 118 della Costituzione si associa quella
dell'art. 119,  in  ragione  della compressione che si viene a creare
dell'autonomia  di  entrata costituzionalmente garantita a regioni ed
enti locali.
    Un  ultimo,  subordinato, profilo di incostituzionalita' concerne
specificamente  i commi 2 e 3, i quali prevedono, in capo al Ministro
dell'ambiente   e   della   tutela  del  territorio  e  del  Ministro
dell'economia e delle finanze, poteri regolamentari che, per il fatto
di  incidere  su  materie  diverse  da quelle di competenza esclusiva
statale,  si  pongono  in  contrasto con il sesto comma dell'art. 117
della Costituzione. Le medesime disposizioni, infine (ed in ulteriore
subordine),  ledono  il  principio di leale cooperazione, in quanto i
poteri   regolamentari   ivi  contemplati  non  prevedono,  nel  loro
esercizio,  alcun  coinvolgimento  delle  istanze  rappresentative di
regioni ed enti locali.
    (\varepsilon  )  Quanto  rilevato  in merito all'art. 154 nel suo
complesso  deve  essere  riproposto  relativamente  all'art. 155, che
detta  i  parametri  sulla  base  dei  quali  fissare la «tariffa del
servizio  di  fognatura e depurazione». Anche l'art. 155, dunque, nel
dettare  disposizioni specifiche con riferimento al corrispettivo per
il   servizio   prestato  in  un  ambito  di  competenza  legislativa
regionale, contrasta con gli artt. 117, 118 e 119 della Costituzione,
per le ragioni sopra enunciate.
    (\zeta  )  La illegittimita' costituzionale degli artt. 154 e 155
ingenera   l'incostituzionalita'   anche   dell'art. 156,   che,   in
violazione  degli artt. 117 e 118 della Costituzione, si occupa della
disciplina  della  riscossione  della tariffa, incidendo dunque su un
aspetto  di  ulteriore  dettaglio  rispetto  a  quanto previsto negli
artt. 154 e 155.
    c)  La  compenetrazione  delle  competenze in materia di gestione
delle  risorse idriche cui si e' fatto riferimento ha una inevitabile
incidenza anche sulle attivita' di vigilanza.
    A tal proposito, sono da censurare, in particolare, gli artt. 159
e  160  del  decreto  legislativo  n. 152  del  2006.  Tali articoli,
infatti,  disciplinano  le  modalita'  attraverso  cui viene posta in
essere  l'attivita'  di vigilanza, adottando una prospettiva tale per
cui  e'  lo  Stato ad avere un monopolio sostanzialmente assoluto. La
composizione dell'Autorita' di vigilanza e, soprattutto, i compiti ad
essa  affidati escludono qualunque intervento regionale che incida su
un   ambito   che   incide   indiscutibilmente   sulle   attribuzioni
costituzionali    alle    regioni    riconosciute   dall'art. 117   e
dall'art. 118 della Costituzione.
    La  concentrazione in capo allo Stato della funzione di vigilanza
viola, dunque, in primo luogo, il riparto di competenze in materia di
gestione  del servizio idrico, giacche' non puo' non prospettarsi una
contiguita'  tra le competenze normative in tema di gestione e quelle
in  tema  di  vigilanza.  E'  la stessa giurisprudenza costituzionale
consolidata   ad  evidenziare  una  siffatta  contiguita',  allorche'
sottolinea  come  debba  negarsi  «che  il  potere  di  vigilanza sia
autonomo  rispetto  alla  materia  cui inerisce» (sentenza n. 106 del
2006), in quanto «la vigilanza e' spesso la fonte dell'individuazione
di  fattispecie  sanzionabili  o  comunque  di carenze che richiedono
interventi  anche  non sanzionatori diretti ad assicurare il rispetto
di  una  determinata  disciplina»  (cosi',  di  recente,  le sentenze
nn. 106 del 2006, 63 del 2006 e 384 del 2005).
    Analogamente  leso  e' l'art. 118 della Costituzione, dal momento
che  lo svolgimento della vigilanza ad opera dello Stato contrasta in
maniera  evidente  con  il principio di sussidiarieta', non potendosi
negare  che  il  livello  regionale  di  governo  e' ampiamente nelle
condizioni di assicurare lo svolgimento di questa funzione, ed anzi -
per  la migliore conoscenza delle peculiarita' del proprio territorio
- lo e' in misura certo maggiore rispetto ad una autorita' centrale.
    La  conclusione  cui  deve  addivenirsi  e', quindi, quella della
formulazione   della  richiesta  a  codesta  ecc.ma  Corte  di  voler
dichiarare  la  illegittimita' costituzionale dell'intero testo degli
artt. 159 e 160 del decreto legislativo n. 152 del 2006.
    Se,  peraltro, ad una tale declaratoria non si ritenesse di dover
giungere,  altre  ragioni  di illegittimita' costituzionale sarebbero
rintracciabili   con   particolare   riferimento   ai  commi  2  e  4
dell'art. 159.
    Il comma 2 disciplina gli organi e la composizione dell'Autorita'
di  vigilanza  sulle  risorse  idriche  e sui rifiuti. Ai termini del
terzo  periodo  del  comma in parola, «il consiglio dell'Autorita' e'
composto da tredici membri e dal presidente, nominati con decreto del
Presidente  della  Repubblica,  su  deliberazione  dei  Consiglio dei
ministri».  Nel  quarto periodo cosi' si dettagliano le designazioni:
«il presidente dell'Autorita' e quattro componenti del Consiglio, dei
quali  due  con funzioni di coordinatore di sezione, sono nominati su
proposta  del  Ministro  dell'ambiente e della tutela del territorio,
due  su  proposta del Ministro dell'economia e' delle finanze, due su
proposta  del  Ministro per la funzione pubblica, uno su proposta del
Ministro  delle  attivita' produttive relativamente alla "Sezione per
la  vigilanza  sui  rifiuti" quattro su designazione della Conferenza
dei  presidenti delle regioni e delle province autonome». Le proposte
-  in  base al quinto periodo - sono previamente sottoposte al parere
delle competenti Commissioni parlamentari.
    Dall'insieme   di   queste   previsioni   emerge  chiaramente  un
«arretramento» della posizione assegnata ai rappresentanti regionali.
Il confronto e' da condurre con l'art. 21 della legge 5 gennaio 1994,
n. 36,  oggetto  di  espresso  rinvio da parte dell'art. 88, comma 1,
lettera  h),  del  decreto  legislativo  n. 112  del  1998  (e dunque
vincolante,  per  il  legislatore  delegato,  ai termini dell'art. 1,
comma  8,  della  legge  n. 308  del  2004),  sulla base del quale il
Comitato per la vigilanza sull'uso delle risorse idriche era composto
«da  sette  membri,  nominati  con  decreto  del  Ministro dei lavori
pubblici,  di  concerto  con  il  Ministro  dell'ambiente».  Di  tali
componenti, tre erano designati dalla Conferenza dei presidenti delle
regioni e delle province autonome e quattro - di cui uno con funzioni
di  presidente  - erano scelti tra persone particolarmente esperte in
materia  di  tutela  ed  uso  delle  acque,  sulla base di specifiche
esperienze e conoscenze del settore (comma 2).
    In  buona  sostanza, l'organo di vigilanza sull'uso delle risorse
idriche  ha  visto  una  partecipazione  regionale che, da tre membri
designati  su  sette,  si  e'  ridotta  a  quattro membri su tredici,
passando da una quota pari a circa il 43% ad una inferiore al 31%.
    Questo   ingiustificato  ridimensionamento  lede  le  prerogative
costituzionali  delle  regioni,  e  cio'  sia  sotto il profilo della
violazione  dell'art. 118  della  Costituzione,  sia sotto quello del
mancato  rispetto  del  principio  di  leale cooperazione, per tacere
della  violazione  patente  dell'art. 76  della  Costituzione  che si
ricava dal confronto appena condotto.
    Con  precipuo riferimento al comma 4 dell'art. 159, la previsione
di  un  regolamento  emanato con decreto del Presidente dei Consiglio
dei   ministri,   mirante   a  disciplinare  «l'organizzazione  e  il
funzionamento, anche contabile, dell'Autorita», si pone in contrasto,
in primo luogo, con l'art. 117, sesto comma, della Costituzione. Cio'
in  quanto,  alla  luce delle considerazioni svolte in precedenza, la
disposizione  si  traduce  nella attribuzione allo Stato di un potere
regolamentare  in  un  ambito  diverso  da quello per cui lo Stato ha
competenza legislativa esclusiva.
    In  via  subordinata,  e'  da censurare il mancato coinvolgimento
delle  istanze rappresentative delle regioni nella approvazione di un
regolamento  che  avrebbe  importanti  ricadute  sulla gestione delle
risorse   idriche,   donde  la  violazione  del  principio  di  leale
cooperazione.
B.6) Parte terza - Sezione IV (Disposizioni transitorie e finali).
    Illegittimita' costituzionale dell'art. 176, comma 1.
    Le  argomentazioni  sin qui svolte relativamente alla Parte terza
del   decreto   legislativo   n. 152   del   2006   rendono  evidente
l'illegittimita'  costituzionale  dell'art. 176, comma 1, del decreto
medesimo,  nella  parte in cui stabilisce che «le disposizioni di cui
alla  parte  terza  [...]  che  concernono  materie  di  legislazione
concorrente    costituiscono    principi    fondamentali   ai   sensi
dell'art. 117, comma 3 [recte, terzo], della Costituzione».
    Il   brano   riportato,   per   un   verso,  viene  a  suffragare
ulteriormente   la   ricostruzione   basata  su  una  concorrenza  di
competenze  che  nella  presente  sede  si  e' argomentata; per altro
verso, pero', l'autoqualificazione alla stregua di norme di principio
e'  da  ritenersi  illegittima,  nella  misura in cui non tiene conto
della   riscontrabilita'   di   (molte)  disposizioni  che,  come  in
precedenza   si   e'   visto,   intervengono,  disciplinando  aspetti
eminentemente di dettaglio, su materie di competenza concorrente.
B.7) Parte quarta - Titolo I (Gestione dei rifiuti).
    Illegittimita'  costituzionale  degli artt. 181, commi 3, secondo
periodo,  e  da 5 a 12, 186, 189, commi 1, secondo periodo, e 3, 195,
comma  1,  lettere  f),  g)  e  t), comma 2, lettera b) (in combinato
disposto  con  l'art. 196,  comma 1,  lettera  m),  ed  in  combinato
disposto con l'art. 195, comma 4), 197, comma 1, da 199 a 207, da 208
a  211, 212, commi 2 e 3, 214, commi 3 e 5, 215, commi 3, 4, 5 e 6, e
216, commi da 3 a 7 e da 10 a 15.
    a)La  gestione  dei  rifiuti e gli ambiti strettamente connessi a
questo  settore  si  caratterizzano,  al pari di quelli che gia' sono
stati  analizzati,  per un intreccio di competenze di diversa natura:
alla  materia trasversale «tutela dell'ambiente» debbono aggiungersi,
quanto meno, la «tutela della salute» ed il «governo del territorio».
    Sulla  scia  della  giurisprudenza costituzionale (e segnatamente
della  sentenza  n. 62  del  2005),  la  indiscutibile concorrenza di
competenze   deve   probabilmente  sciogliersi,  in  linea  generale,
mediante   il   riconoscimento   di   una  tendenziale  (ma  soltanto
tendenziale) prevalenza della «tutela dell'ambiente».
    Cio' detto, tuttavia, costituirebbe semplicemente un fuor d'opera
il  riconoscere  allo  Stato  una potesta' legislativa tanto ampia da
giungere  alla  disciplina  dell'integralita'  della  materia.  A tal
proposito,  la definizione della «tutela dell'ambiente» come «materia
trasversale»  sarebbe  gia' sufficiente, di per se', a precludere una
siffatta  conclusione;  nella  medesima direzione, peraltro, non puo'
non  sottolinearsi come, in un settore tanto ampio e tanto variegato,
emergano,  sotto  molteplici  profili,  particolari esigenze connesse
alla  «tutela  della  salute»  e/o  al  «governo  del territorio», di
talche'  la  potesta'  legislativa  statale  deve essere calibrata (e
correlativamente    limitata)    in    ragione    delle   prerogative
costituzionali degli enti regionali.
    A  fornire  una  testimonianza emblematica della molteplicita' di
titoli  competenziali  coinvolti  e',  del  resto,  lo stesso decreto
legislativo  n. 152  del  2006,  il  quale,  all'art. 177,  comma  2,
stabilisce  che  «le  regioni  e  le  province  autonome  adeguano  i
rispettivi  ordinamenti  alle  disposizioni di tutela dell'ambiente e
dell'ecosistema  contenute  nella  parte  quarta del presente decreto
entro  un  anno dalla data di entrata in vigore dello stesso»: l'aver
circoscritto  l'obbligo  di  adeguamento  alle (sole) disposizioni in
materia    di   tutela   dell'ambiente   e   dell'ecosistema   indica
inoppugnabilmente,  infatti,  l'esistenza,  all'interno  della  Parte
quarta, anche di disposizioni che a siffatto titolo competenziale non
sono riconducibili.
    In concreto, la necessita' di un approccio basato sul concorso di
competenze - variamente combinato, quanto a prevalenza e concorrenza,
in   ragione   dei   singoli   specifici  ambiti  normativi  -  rende
costituzionalmente  illegittimi,  per  violazione dell'art. 117 della
Costituzione,  (\alpha  )  l'art. 181,  commi  da  5  a  12, (\beta )
l'art. 189,  comma 3, (\gamma ) gli artt. da 199 a 207, (\delta ) gli
artt. da 208 a 211 e (\varepsilon ) gli artt. 215 e 216.
    (\alpha  )  All'art. 181, i commi da 5 a 12 - in parte oggetto di
censura anche per violazione degli artt. 11 e 117, primo comma, della
Costituzione:   v.  infra,  sub  (c),  (a)  -  disciplinano  in  modo
estremamente  dettagliato le procedure attraverso le quali perseguire
il  recupero  dei  rifiuti,  mediante il riutilizzo, il reimpiego, il
riciclaggio  ed altre forme di recupero. La normativa contenuta nelle
disposizioni  qui  censurate appare largamente ultronea rispetto alla
esigenza di porre standards uniformi di tutela ambientale su tutto il
territorio   nazionale,  non  limitandosi  esse  ad  individuare  gli
orientamenti  generali  cui gli operatori debbono attenersi (cio' che
viene   effettuato   ai   primi   quattro  commi  dell'art. 181),  ma
specificando  minutamente  finanche  gli  strumenti  in base ai quali
porre  in  essere  gli  obiettivi  (gli  accordi  di  programma) e le
procedure da seguire.
    (\beta  )  Con riguardo all'art. 189, comma 3, deve sottolinearsi
la   mutata   formulazione   della  disposizione  rispetto  a  quella
precedentemente  vigente (art. 11, comma 3, del decreto legislativo 5
febbraio   1997,  n. 22):  la  modifica  intervenuta  consiste  nella
esenzione per alcune delle imprese e degli enti che producono rifiuti
non  pericolosi  dall'obbligo di comunicazione annuale alle Camere di
commercio  le  quantita'  e le caratteristiche dei rifiuti oggetto di
attivita' di raccolta, trasporto, recupero e smaltimento di rifiuti.
    L'innovazione contrasta patentemente con la crescente esigenza di
ampliare  il  piu' possibile il monitoraggio dei rifiuti prodotti, ed
e'  quindi all'origine di una normativa irrazionale, lesiva, per cio'
stesso,    dell'art. 3    della   Costituzione.   La   illegittimita'
costituzionale   si  apprezza,  peraltro,  anche  in  relazione  alla
compressione  dei  poteri  di  controllo  che spettano (tra gli altri
soggetti, anche) alle regioni, poteri particolarmente caratterizzanti
in  un  ambito  incidente  sulla  «tutela  della  salute» collettiva,
certamente minacciata da una «gestione allegra» dei rifiuti (anche se
non  pericolosi).  E'  in tal senso che un alleggerimento degli oneri
imposti   agli   operatori   del   settore   si   traduce,  sia  pure
indirettamente,  in  una  lesione non trascurabile delle attribuzioni
costituzionali degli enti regionali.
    (\gamma  )  Gli  artt.  da  199 a 207 disciplinano il servizio di
gestione  integrata  dei  rifiuti. La materia si colloca nel punto di
intersezione   tra   diverse  competenze  normative,  tra  le  quali,
certamente,  la  «tutela  dell'ambiente»,  ma  anche la «tutela della
salute»  ed i «servizi pubblici (regionali e) locali». La concorrenza
di  competenze  trasversali, concorrenti e residuali, nello specifico
settore  che  adesso ci occupa, non puo' essere risolta attraverso il
riconoscimento della prevalenza della materia «tutela dell'ambiente»,
per  la  semplice  ragione  che  appare  vana la ricerca di un titolo
competenziale   in   grado   di  prevalere  sugli  altri.  Ne  deriva
l'indefettibilita'  dell'adozione  di  un  modulo  cooperativo  nella
elaborazione  della  disciplina di tutta la materia, e la conseguente
illegittimita'  costituzionale, per vizio procedurale, degli artt. da
199 a 207, non essendo stati approvati a seguito di un coinvolgimento
degli enti territoriali infra-statuali in forme idonee (individuabili
nell'intesa).
    Deve  peraltro  notarsi  che, se anche si intendesse risolvere la
concorrenza  di  competenze  attraverso  l'attribuzione  alla «tutela
dell'ambiente» di una posizione di prevalenza, gli articoli censurati
non  sarebbero  comunque immuni da vizi di legittimita', nella misura
in   cui  essi  dettano  una  disciplina  di  minuto  dettaglio,  non
giustificabile  in  relazione  alla  determinazione,  da  parte dello
Stato,  di  standards  di  tutela  uniformi.  In  questa prospettiva,
sarebbero da censurare, in particolare, le seguenti disposizioni:
      l'art. 199,   comma   3,   in   quanto  disciplina  in  maniera
(estremamente)   dettagliata  i  contenuti  dei  piani  regionali  di
gestione, annichilendo in tal maniera ogni margine operativo lasciato
(e da lasciare) alle regioni;
        l'art. 199,  comma  5,  che detta una disciplina analogamente
dettagliata in merito ai piani di bonifica delle aree inquinate;
        l'art. 201,  il  quale,  nel  prevedere  l'istituzione  e nel
dettare   norme   in  materia  di  Autorita'  d'ambito,  esula  dalla
predisposizione   di   standards   uniformi   di  tutela,  ed  incide
direttamente   sulla   gestione  concreta  dell'attivita',  in  forme
peraltro  piu' invasive di quelle contemplate all'art. 23 del decreto
legislativo  n. 22  del 1997, donde, tra l'altro, il mancato rispetto
dell'art. 1,  comma  8,  della  legge  n. 308  del 2004, in relazione
all'art. 85  del  decreto  legislativo  n. 112 del 1998, secondo la -
costituzionalmente doverosa - ricostruzione dei rapporti tra le fonti
piu' ampiamente evocata infra, sub (b);
          l'art. 202,  in  quanto  la normativa ivi contenuta entra -
inammissibilmente - nei minimi dettagli dell'affidamento del servizio
di gestione dei rifiuti;
        gli  artt. 203  e  204,  la cui illegittimita' costituzionale
deriva, come conseguenza, da quella dell'art. 202.
    Prescindendo     dalla     illegittimita'    discendente    dalla
impossibilita'  di giustificare le normative di cui sopra mediante la
loro  definizione  alla  stregua  di  standards  di  tutela uniformi,
ulteriori  ragioni  di  incostituzionalita'  colpiscono  alcune delle
disposizioni ora in esame:
        gli  artt. 199,  comma  8,  e  204, comma 3, secondo periodo,
contrastano  con l'art. 120, secondo comma, della Costituzione, anche
alla  luce  di quanto previsto dall'art. 8 della legge 5 giugno 2003,
n. 131,  nella  parte  in  cui  conferiscono  l'esercizio  del potere
sostitutivo   statale   nei   confronti  delle  regioni  al  Ministro
dell'ambiente  e  della tutela del territorio, anziche' all'organo di
vertice  del  Governo nazionale, come esplicitamente richiesto, oltre
che  dalla  giurisprudenza costituzionale (a far tempo dalle sentenze
nn. 313  del  2003  e 43 del 2004), dall'art. 8, comma 1, della legge
n. 131  del  2003;  con  specifico  riguardo  all'art. 204,  comma 3,
secondo  periodo,  inoltre,  deve  sottolinearsi la totale assenza di
garanzie  approntate  per  l'ente  sostituendo,  cio'  che  radica un
ulteriore  motivo  di  violazione dell'art. 120, secondo comma, della
Costituzione;
        l'art. 205,  comma 6, contrasta con gli artt. 114 e 117 della
Costituzione,  in  quanto, nel prevedere la necessita' per le regioni
di legiferare a seguito di una intesa con il Ministro dell'ambiente e
della   tutela   del   territorio,   produce   un   anomalo   vincolo
amministrativo  sulla funzione legislativa regionale; il principio di
leale  cooperazione  non  puo'  tradursi  in una «tutela» statale nei
confronti  delle regioni, ma deve, viceversa, contemperare le ragioni
dell'autonomia  con  quelle  dell'unita', donde l'alternativa teorica
tra una intesa con il Governo nel suo complesso ed il mero parere del
Ministro  dell'ambiente;  nel caso di specie, peraltro, l'alternativa
non puo' che sciogliersi nel secondo senso, giacche' l'indicazione di
«maggiori  obiettivi  di riciclo e di recupero» costituisce, rispetto
alla dettata normativa quadro statale, una azione «aggiuntiva» che la
regione  deve  poter  calibrare in relazione alle proprie esigenze ed
alle proprie particolarita';
        i  commi  2  e  3  dell'art. 206 ledono il principio di leale
cooperazione,   nonche'  l'art. 118  della  Costituzione,  in  quanto
consentono al Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio di
stipulare  accordi  e  contratti di programma con soggetti pubblici e
privati  o  con  le  associazioni di categoria, al fine di promuovere
l'utilizzo  dei  sistemi  di  certificazione  ambientale e di attuare
programmi  di ritiro dei beni di consumo al termine del loro ciclo di
utilita',  senza  coinvolgere  in  alcun  modo  le  regioni,  e  cio'
nonostante  l'impatto  che  le  attivita' previste possono avere - ed
effettivamente hanno - sul territorio di queste.
    (\delta ) Le disposizioni, minuziose piu' che dettagliate, recate
dagli  artt. da 208 a 211 relativamente alla procedura da seguire per
l'ottenimento di autorizzazione per i nuovi impianti di smaltimento e
di  recupero dei rifiuti, per il rinnovo delle autorizzazioni, per le
autorizzazioni  in  ipotesi  particolari  e  per  l'autorizzazione di
impianti  di ricerca e di sperimentazione, sono ben lungi dal potersi
sussumere  nell'ambito  degli standards di tutela uniformi in materia
ambientale.  Ammesso  - e non concesso - che la concorrenza di titoli
competenziali   (alla  «tutela  dell'ambiente»  debbono  aggiungersi,
almeno,  la  «tutela  della  salute»  e  l'«industria», di competenza
rispettivamente  concorrente e residuale) si risolva nella prevalenza
della  «tutela  dell'ambiente»,  e'  evidente  che  gran  parte della
normativa contenuta in questi articoli non possa trovare cittadinanza
nel  sistema delle autonomie disegnato dal nuovo Titolo V della Parte
II  della  Costituzione  (oltre  che  dalla giurisprudenza di codesta
ecc.ma Corte).
    Sceverando  le  disposizioni  che,  pur  con  qualche incertezza,
possono   ricondursi   alla  fissazione  di  standards  uniformi,  la
illegittimita' costituzionale deve allora colpire:
        l'art. 208,  commi  3,  4,  6,  8,  9, 11, 12, da 15 a 20, in
quanto  disciplina  la  procedura  da  seguire  per  l'autorizzazione
prevista  per  i  nuovi  impianti  di  smaltimento  e di recupero dei
rifiuti, contemplando, tra l'altro, termini procedimentali generali e
di   durata   delle  autorizzazioni  (non  commisurabili  nella  loro
rigidita'   alle   peculiarita'   regionali),   contenuti   specifici
dell'autorizzazione, adempimenti particolari che vengono richiesti;
        l'art. 209,  commi  da  2  a 5 e 7, relativi al rinnovo delle
autorizzazioni,   per   le   medesime   ragioni  che  conducono  alla
illegittimita' costituzionale dei commi sopra indicati dell'art. 208;
        l'art. 210  nella  sua  integralita',  trattandosi  di  norma
derogatoria  rispetto  agli  artt. 208  e  209,  e  dunque a fortiori
estranea dal concetto di standard di tutela uniforme;
        l'art. 211,   commi   da   2   a  5,  che,  dopo  aver  posto
legittimamente standards particolari per gli impianti di ricerca e di
sperimentazione,  si  sofferma  nuovamente sul minuto dettaglio della
procedura da seguire e dei termine dell'autorizzazione.
    L'art. 211,  limitatamente al comma 3, presenta anche l'ulteriore
motivo  di  illegittimita'  costituzionale derivante dalla violazione
degli  artt. 118  e  120,  secondo  comma,  della Costituzione. Vi si
stabilisce,  infatti,  che,  in caso di mancata approvazione da parte
della regione del progetto o della relazione dell'impianto di ricerca
o  di  sperimentazione, l'interessato puo' rivolgersi direttamente al
Ministro  dell'ambiente e della tutela del territorio, ponendo in non
cale  qualunque motivazione che la regione abbia addotto per bloccare
l'attivita'.  Questo  anomalo  potere  di  sostituzione  si  traduce,
dunque,  in  una deroga ingiustificata al principio di sussidiarieta'
(se   si  riconosce,  come  e'  d'uopo,  la  competenza  regionale  a
rilasciare   l'autorizzazione,   non   si  vede  perche'  si  dia  la
possibilita'  di  un  «ricorso  gerarchico» all'istanza statale), non
ricollegabile    neppure   all'esercizio   del   potere   sostitutivo
contemplato in Costituzione, stante la totale assenza di garanzie per
l'ente sostituendo.
      Il  comma  4  dell'art. 211  e' anch'esso illegittimo, sotto il
profilo  della  violazione  dell'art. 118  della  Costituzione (e, in
subordine,   del  principio  di  leale  cooperazione),  giacche',  in
contrasto con il principio di sussidiarieta', assegna direttamente al
Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio la competenza ad
autorizzare  impianti  in  caso  di  rischio  di agenti patogeni o di
sostanze  sconosciute  e  pericolose dal punto di vista sanitario. La
mancata  attribuzione  alle regioni di questa competenza o, comunque,
la  totale  esclusione delle regioni da questa procedura nega loro la
possibilita'   di  curare  adeguatamente  gli  interessi  dei  propri
territori,  perpetuando,  cosi',  un sistema fortemente centralistico
ormai   non   piu'   ammissibile   alla   luce   del   mutato  quadro
costituzionale.
    (\varepsilon  )  Gli  artt. 215  e  216,  nel  dettare  procedure
semplificate  in tema di autosmaltimento e di operazioni di recupero,
si  pongono  al  di  la' della predisposizione di standards di tutela
uniformi   in   materia  ambientale:  la  stessa  predisposizione  di
«procedure   semplificate»   e'  indice  della  relativamente  scarsa
incidenza  delle  attivita' contemplate sull'ambiente, con il che non
puo' che spettare alle regioni la loro regolamentazione. Da censurare
sono,  in particolare, i commi da 3 a 6 dell'art. 215 ed i commi da 3
a   7   e  da  10  a  15  dell'art. 216,  tutti  recanti  una  minuta
regolamentazione    delle    procedure    da    seguire    ai    fini
dell'autosmaltimento e delle operazioni di recupero.
    b)  Nel senso della necessita' di assegnare alle regioni un ruolo
rilevante,  ben  piu'  esteso  di  quello  che il decreto legislativo
impugnato  disegna,  si  pone  finanche  la  legge  di  delega,  che,
attraverso  il  riferimento  alle attribuzioni regionali formalizzate
nel  testo  costituzionale e nel decreto legislativo n. 112 del 1998,
intende  chiaramente  preservare il sistema da normative ipertrofiche
da   parte   statale.  In  ragione  di  questo  riferimento,  debbono
menzionarsi  almeno  tre previsioni che risultano lesive dell'art. 76
della  Costituzione,  in  relazione  all'art. 1, comma 8, della legge
n. 308 del 2004.
    (\alpha  )  La  prima  e'  quella, cui gia' si e' fatto richiamo,
contenuta all'art. 201, la quale, nel prevedere l'Autorita' d'ambito,
ipostatizza  una  certa  organizzazione  della  gestione  dei rifiuti
urbani,  vincolando  le  regioni  in  modo  piu'  incisivo  di quanto
previsto  all'art. 23 del decreto legislativo n. 22 del 1997, oggetto
di  rinvio  esplicito  da  parte dell'art. 85 del decreto legislativo
n. 112   del   1998,  il  quale  si  era  limitato  a  dettare  norme
assolutamente generali, chiamando i livelli di governo infra-statuali
ad  una  attuazione largamente «discrezionale». Una attuazione di tal
sorta  risulta  assai  piu'  problematica (per non dire impossibile),
alla  luce  dell'art. 201  del  decreto  legislativo  impugnato,  dal
momento  che  esso  reca  norme  tutt'altro  che  generali  circa  la
struttura  dell'Autorita'  d'ambito,  l'affidamento del servizio, gli
obiettivi e la tempistica dell'affidamento.
    (\beta  )  La seconda previsione da censurare e' quella derivante
dal  combinato  disposto degli artt. 195, comma 2, lettera b), e 196,
comma  1,  lettera  m), del decreto legislativo impugnato. Ai termini
della  prima  disposizione,  e' di competenza dello Stato «l'adozione
delle  norme  e  delle  condizioni per l'applicazione delle procedure
semplificate  di cui agli artt. 214, 215 e 216, ivi comprese le linee
guida  contenenti  la specificazione della relazione da allegare alla
comunicazione prevista da tali articoli», mentre in base alla seconda
disposizione  e'  di  competenza  regionale  «la  specificazione  dei
contenuti  della  relazione da allegare alla comunicazione [...], nel
rispetto delle linee guida [...].
    Confrontando queste disposizioni con quelle contenute all'art. 19
del    decreto    legislativo   n. 22   del   1997,   emerge   chiaro
l'«arretramento»  della  posizione  delle  regioni, giacche' ai sensi
della  lettera  m) del comma 1 dell'articolo ora citato la competenza
delle  regioni  riguardava  l'integralita'  de  «la  definizione  dei
contenuti della relazione da allegare».
    (\gamma  )  Analogo  motivo  di  illegittimita' costituzionale e'
riscontrabile  in  merito  all'art. 197, comma 1, la cui formulazione
incide  negativamente  sulle  competenze  delle  province. Sebbene la
disposizione   non   abbia   ricadute   dirette   sulle  attribuzioni
costituzionali  della  regione,  una  siffatta  circostanza  non puo'
valere  a  negare  ingresso,  nel  giudizio  in  via principale, alla
censura,  giacche'  codesta  ecc.ma  Corte  ha avuto modo di chiarire
inoppugnabilmente   che   da   stretta   connessione   [...]  tra  le
attribuzioni  regionali  e  quelle delle autonomie locali consente di
ritenere  che  la  lesione delle competenze locali sia potenzialmente
idonea  a  determinare  una  vulnerazione delle competenze regionali»
(sentenza  n. 417  del  2005  e,  anteriormente,  sentenza n. 196 del
2004). Nella specie, tale «stretta connessione» e' testimoniata dalla
stessa  sistematica  del  decreto legislativo impugnato, che passa in
rassegna,  dall'art. 195 all'art. 198, le competenze dei vari livelli
di governo, sull'assunto della non concepibilita' di una demarcazione
netta  ed  impermeabile  tra  le  diverse  attribuzioni, viceversa da
considerarsi reciprocamente interferenti.
    Con  riferimento  al merito della questione, deve rimarcarsi come
l'elenco  delle  competenze provinciali di cui all'art. 197, comma 1,
sia  decisamente piu' esiguo rispetto a quello contenuto nell'art. 20
del  decreto  legislativo  n. 22  del  1997:  tra le altre competenze
eliminate,  e' d'uopo segnalare, in particolare, che le province sono
state   private   de   «le  funzioni  amministrative  concernenti  la
programmazione  e  l'organizzazione  dello  smaltimento dei rifiuti a
livello provinciale» (art. 19, comma 1, lettera a).
    c)  Altro  vizio  piu' volte riscontrabile nella Parte quarta del
decreto  legislativo  impugnato  e'  quello  concernente  il  mancato
rispetto  di  norme  comunitarie, donde una violazione dell'art. 117,
primo  comma, della Costituzione, violazione che in molte circostanze
si  riverbera  nella  lesione  di  attribuzioni  costituzionali delle
regioni.
    (\alpha  )  Viene  in  rilievo,  a  tal proposito, l'art. 181 del
decreto  impugnato,  il quale, al comma 7, primo periodo, prevede che
«i  soggetti  economici  interessati  o  le associazioni di categoria
rappresentative  dei  settori  interessati»  possono stipulare con il
Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio appositi accordi
di  programma  volti  a  definire  i  metodi  di recupero dei rifiuti
destinati   all'ottenimento   di   materie   prime   secondarie,   di
combustibili o di prodotti.
    Questa   disposizione  viene  completata,  al  comma  7,  secondo
periodo,  ed  ai commi da 8 a 11, con l'enucleazione della disciplina
delle modalita' che presiedono alla stipulazione, all'approvazione ed
alla pubblicazione degli accordi di programma.
    Una  siffatta disciplina si pone in contrasto con l'art. 11 della
direttiva  2006/12/CE,  del  5  aprile  2006,  del  Parlamento  e del
Consiglio,  relativa  ai  rifiuti (peraltro ripetitivo per quanto qui
interessa,  dell'art. 11 della direttiva 91/156/CEE del Consiglio del
18  marzo  1991,  che  modifica  la  direttiva 75/442/CEE relativa ai
rifiuti),   il   quale  consente  agli  Stati  membri  di  dispensare
dall'autorizzazione  richiesta  «gli  stabilimenti  o  le imprese che
provvedono essi stessi allo smaltimento dei propri rifiuti nei luoghi
di  produzione»  e  «gli  stabilimenti  o  le  imprese che recuperano
rifiuti»,  ma cio' soltanto a condizione che «le autorita' competenti
abbiano  adottato  per  ciascun  tipo di attivita' norme generali che
fissano  i  tipi e le quantita' di rifiuti e le condizioni alle quali
l'attivita' puo' essere dispensata dall'autorizzazione» e che «i tipi
o  le  quantita'  di rifiuti ed i metodi di smaltimento o di recupero
siano  tali  da  rispettare  le  condizioni imposte all'art. 4» della
direttiva  medesima (secondo cui «gli Stati membri adottano le misure
necessarie  per  assicurare che i rifiuti siano recuperati o smaltiti
senza  pericolo  per la salute dell'uomo e senza usare procedimenti o
metodi che potrebbero recare pregiudizio all'ambiente»).
    Il  contrasto  tra la normativa comunitaria e le disposizioni ora
censurate  si  appalesa  evidente tenendo conto della statuizione con
cui  la  Corte  di giustizia delle Comunita' europee ha condannato la
Repubblica  italiana  per  non aver stabilito, nel decreto 5 febbraio
1998,  sull'individuazione dei rifiuti non pericolosi sottoposti alle
procedure  semplificate  di recupero ai sensi degli artt. 31 e 33 del
decreto legislativo n. 22 del 1997, quantita' massime di rifiuti, per
tipo  di rifiuti, che possano essere oggetto di recupero in regime di
dispensa  dall'autorizzazione  (sentenza  7 ottobre 2004, nella causa
C-103/02, Commissione contro Repubblica italiana).
    In  sostanza,  l'art. 181,  ai  commi  da  7  a  11,  veicola una
deregulation  che  e'  del  tutto  priva  delle cautele predisposte a
livello   comunitario,   giacche'  stimola  l'attivita'  di  soggetti
economici  ben  prima  (ed  a  prescindere  dalla circostanza) che le
condizioni   normative   imposte   dall'Unione  europea  siano  state
ottemperate.  In  quest'ottica,  una particolare importanza assume il
comma  6  dello  stesso art. 181, il quale, dopo aver previsto che «i
metodi  di recupero dei rifiuti utilizzati per ottenere materia prima
secondaria, combustibili o prodotti devono garantire l'ottenimento di
materiali  con  caratteristiche  fissate  con  decreto  del  Ministro
dell'ambiente  e  della  tutela  del  territorio,  di concerto con il
Ministro  delle attivita' produttive, ai sensi dell'art. 17, comma 3,
della  legge  23  agosto  1988,  n. 400» (primo periodo), precisa che
«sino all'emanazione del predetto decreto continuano ad applicarsi le
disposizioni  di  cui  al  decreto ministeriale 5 febbraio 1998 ed al
decreto  del  Ministro dell'ambiente e della tutela del territorio 12
giugno  2002,  n. 161»  (secondo  periodo).  Non  si esita, dunque, a
mantenere   in   vita  -  sia  pure  transitoriamente  -  un  decreto
ministeriale  che  gia'  e'  stato  all'origine  di  una condanna per
l'Italia  in  sede  comunitaria, e che - e' facile prevedere - porra'
ulteriori problemi, incrementati dalla circostanza che la sua vigenza
si  e'  adesso  associata alla deregulation di cui ai commi da 7 a 11
dell'art. 181.
    Alla luce dei rilievi che precedono, non puo' che concludersi nel
senso  della  violazione  degli  artt. 11  e  117, primo comma, della
Costituzione, perpetrata dall'art. 181, commi da 6 a 11.
    A  precludere  una  pronuncia  di  merito  non  puo'  addursi  un
ipotetico  difetto di interesse da parte delle regioni. La denunciata
illegittimita' costituzionale arreca, infatti, un pregiudizio diretto
nei   confronti  delle  attribuzioni  costituzionali  delle  regioni,
argomentabile   sotto   due  punti  di  vista.  In  primo  luogo,  la
invalidita'  della  disciplina nazionale per contrasto con il diritto
comunitario  produce  inevitabilmente  una  incertezza  nei  rapporti
giuridici  analoga, nella sostanza, a quella evidenziata, a proposito
della  violazione dell'art. 76 della Costituzione, supra, sub B.2.c),
(\alpha  ),  e B.2.d), (\alpha ). In secondo luogo, la deregulation -
resa oltretutto possibile da un accordo con il Ministro dell'ambiente
e  della  tutela del territorio, senza che le regioni abbiano modo di
far  adeguatamente  valere  i  propri interessi e le proprie esigenze
(donde  anche la violazione del principio di leale cooperazione) - si
traduce  in  una deminutio della sfera di attivita' disciplinabili ad
opera del potere legislativo, e dunque anche da parte del legislatore
regionale,  che  -  come  piu'  volte  evidenziato  -  e' titolare di
rilevanti poteri normativi nel settore in parola.
    (\beta  ) Quanto argomentato con riferimento all'art. 181 conduce
alla   indefettibilita'   di   una   declaratoria  di  illegittimita'
costituzionale  che  colpisca  i  commi 3 e 5 dell'art. 214, relativi
alla  determinazione  delle  attivita'  e  delle  caratteristiche dei
rifiuti per l'ammissione alle procedure semplificate.
    In  ordine  al  comma  3,  il  vizio  deriva  dal  rinvio  che la
disposizione  opera  all'art. 181  ed  allo strumento dell'accordo di
programma, del cui contrasto con la normativa comunitaria e della cui
lesivita' per le attribuzioni costituzionali delle regioni gia' si e'
detto supra, sub (\alpha ).
    Relativamente   al   comma   5,  la  incostituzionalita'  risulta
assolutamente   analoga   (donde  la  proponibilita'  delle  medesime
motivazioni)  a  quella  gia'  riscontrata  con  riguardo  al comma 6
dell'art. 181,  giacche'  anche  nella  disposizione ora censurata si
perpetua  transitoriamente  la  vigenza  del  decreto  ministeriale 5
febbraio  1998,  finche'  non  vengano  adottate, per ciascun tipo di
attivita', le norme che fissano i tipi e le quantita' di rifiuti e le
condizioni  in base alle quali le attivita' di smaltimento di rifiuti
non  pericolosi  e  le  attivita'  di  recupero  sono sottoposte alle
procedure semplificate di cui agli artt. 215 e 216.
    (\gamma  )  Costituzionalmente illegittimo e', infine, l'art. 186
del  decreto  legislativo  impugnato,  che  esclude  dalla nozione di
«rifiuto»,  in  linea  generale,  le terre e rocce da scavo, anche di
gallerie,  ed  i  residui  della  lavorazione  della pietra destinate
all'effettivo   utilizzo   per  reinterri,  riempimenti,  rilevati  e
macinati.
    E'  da  notare  che  l'art. 186  ripropone  l'eccezione contenuta
all'art. 1,  commi  17  e 19, della legge 21 dicembre 2001, n. 443, a
proposito  della  quale  pende  attualmente un ricorso, proposto il 2
maggio  2005  dalla  Commissione  delle  Comunita'  europee contro la
Repubblica  italiana  (causa C-194/05), che e' cosi' argomentato: «la
Commissione  europea ritiene che la Repubblica italiana, nella misura
in   cui   ha  escluso  le  terre  e  le  rocce  da  scavo  destinate