IL TRIBUNALE

    Ritenuto  che  deve  essere  sollevata  questione di legittimita'
costituzionale   dell'art. 14,   comma  5-ter,  prima  parte,  d.lgs.
n. 268/1998   come   sostituito   dall'art. 1,   comma 5-bis,   legge
n. 271/2004  (che  ha convertito in legge, con modificazioni, il d.l.
n. 271/2004)  nella  parte in cui prevede la pena della reclusione da
uno  a quattro anni per lo straniero che senza giustificato motivo si
trattiene  nel  territorio  dello  Stato  in  violazione  dell'ordine
impartito  dal questore ai sensi del comma 5-bis, in riferimento agli
articoli 3 e 27, terzo comma della Costituzione, rileva quanto segue.
    L'imputato  e'  stata arrestato il 20 agosto 2005 nella flagranza
del  reato di cui all'art. 14, comma 5-ter del d.lgs. n. 286/1998. Il
decreto  di  espulsione  e  l'ordine  emesso  dal  questore  ai sensi
dell'art. 14,  comma  5-bis,  tradotti  in lingua francese sono stati
notificati in pari data 18 marzo 2005.
    L'imputato  non  ha  allegato  giustificato motivo per la propria
inottemperanza   all'ordine   riferendo  di  un'inverosimile  mancata
comprensione degli effetti dei richiamati provvedimenti.
    All'esito  della  convalida Mbaye ha chiesto l'applicazione della
pena ex art. 444 cpp.
    Pertanto,  la  pena  da applicare dovrebbe essere determinata con
riguardo  a  quella  prevista  della  norma  della  cui  legittimita'
costituzionale si dubita.
    Il  testo  originario  dell'art. 14 non prevedeva alcuna sanzione
penale  per lo straniero che non avesse ottemperato all'ordine emesso
dal Questore in esecuzione del decreto di espulsione del Prefetto.
    La  fattispecie  penale di cui trattasi e' stata introdotta dalla
legge   n. 189/2002,   come   reato  contravvenzionale  punibile  con
l'arresto  da sei mesi a un anno, prevedendo per tale reato l'arresto
obbligatorio.
    Con la sentenza n. 223/2004 la Corte costituzionale ha dichiarato
l'illegittimita'  costituzionale  dell'art. 14, comma 5-quinquies per
contrasto  con  gli  articoli 3 e 13 Costituzione «nella parte in cui
stabilisce  che  per  il  reato  previsto  dal comma-ter del medesimo
art. 14  e'  obbligatorio  l'arresto  dell'autore  del fatto», per la
manifesta  irragionevolezza  della  previsione di misura precautelare
non  suscettibile  di  sfociare in alcuna misura cautelare in base al
vigente ordinamento processuale.
    E' quindi intervenuto il d.l. n. 241/2004, che non modificava per
la  fattispecie in esame la pena prevista dalla legge n. 189/2002, ma
riformulava  il  testo  dell'art. 14,  comma  15-quinquies  limitando
l'arresto   obbligatorio   all'ipotesi   di  cui  al  comma  5-quater
(reingresso nel territorio dello Stato dello straniero espulso), gia'
prevista  come  delitto  punibile  con la reclusione da uno a quattro
anni.
    In   sede  di  conversione  del  d.l.  citato  il  reato  di  cui
all'art. 14, comma 5-ter veniva previsto come delitto punibile con la
reclusione  da  uno  a  quattro  anni  (ad  eccezione dell'ipotesi di
espulsione  motivata  dall'essere  scaduto  il permesso di soggiorno,
ipotesi  per  la  quale  veniva mantenuta la pena dell'arresto da sei
mesi a un anno) e veniva nuovamente stabilito l'arresto obbligatorio.
    E'  dunque intervenuto un notevole inasprimento della pena, della
cui proporzionalita' e ragionevolezza si dubita.
    La  Corte  costituzionale,  pur riservando alla «discrezionalita'
del  legislatore stabilire quali comportamenti debbano essere puniti,
determinare  quali  debbano essere la qualita' e la misura della pena
ed   apprezzare   parita'  e  disparita'  di  situazioni»,  ha  pero'
costantemente   ribadito   il   principio  che  d'esercizio  di  tale
discrezionalita'  puo'  essere  censurato quando esso non rispetti il
limite  della  ragionevolezza e dia quindi luogo ad una disparita' di
trattamento   palese   e  ingiustificata»  (sentenza  n. 25/1994;  il
principio   e'   richiamato   anche   nella   sentenza   n. 333/1992,
nell'ordinanza n. 220/1996, sentenza n. 84/1997).
    Ancora,   e'  stato  affermato  (sentenza  n. 409/1989)  «che  il
principio   di   uguaglianza,   di   cui   all'art. 3,  primo  comma,
Costituzione  esige  che  la  pena sia proporzionata al disvalore del
fatto illecito commesso, in modo che il sistema sanzionatorio adempia
nel  contempo  alla  funzione di difesa sociale ed a quella di tutela
delle posizioni individuali».
    Tale   funzione   non  verrebbe  adempiuta  qualora  non  venisse
rispettato il limite della ragionevolezza. A cio' si aggiunge (sempre
nella  sentenza  citata) che il principio di proporzionalita' porta a
negare    legittimita'    alle    «incriminazioni   che,   anche   se
presumibilmente   idonee   a   raggiungere   finalita'   statuali  di
prevenzione,  producono, attraverso la pena, danni all'individuo, (ai
suoi  diritti  fondamentali)  ed  alla  societa'  sproporzionatamente
maggiori dei vantaggi ottenuti (o da ottenere) da quest'ultima con la
tutela  dei  beni e dei valori offesi dalle predette incriminazioni».
Questo  principio  e'  ora  recepito anche dalla Costituzione europea
(«le  pene  inflitte  non  devono  essere  sproporzionate rispetto al
reato», art. 2-109).
    Inoltre,   la   Corte   ha   ripetutamente   affermato  (sentenze
n. 313/1995 e 343/1993) che la manifesta mancanza di proporzionalita'
rispetto  ai  fatti  reato  vanifica  il  fine rieducativo della pena
sancito dall'art. 27, terzo comma della Costituzione.
    In  primo  luogo, poiche' il dubbio di costituzionalita' riguarda
un  inasprimento  della  pena, non puo' omettersi di ricordare quanto
affermato  dalla  Corte  costituzionale  su  un'eccezione concernente
l'elevazione  nel  1991  del  minimo  edittale  per  il  reato di cui
all'art. 629 c.p.
    Nel  dichiarare  manifestamente  infondata  l'eccezione, la Corte
(ordinanza   n. 368/1995)   ritenne   rispettato   il   limite  della
ragionevolezza  rilevando  che  l'inasprimento  in quel caso non dava
luogo   «a   macroscopiche   differenze   rispetto   al   trattamento
sanzionatorio  previsto per il reato di rapina - fattispecie peraltro
non del tutto assimilabile a quella della estorsione».
    La  questione  oggi in esame e' totalmente diversa per due ordini
di ragioni.
    Innanzitutto,  l'inasprimento  e',  in  questo  caso,  certamente
macroscopico:  il massimo edittale della pena detentiva in precedenza
prevista  per  lo  stesso  fatto,  qualificato  come contravvenzione,
corrisponde ora al minimo edittale previsto per il delitto.
    In secondo luogo, l'aumento di pena per il delitto di estorsione,
come  rileva tra le righe la Corte con il riferimento alla «difficile
individuazione    in    concreto   dell'aggravante   di   far   parte
dell'associazione   di  tipo  mafioso»,  costituiva  la  risposta  al
fenomeno  del  «pizzo»  emerso  con  particolare  gravita'  in alcune
regioni nel corso degli anni ottanta e, quindi, a decenni di distanza
(e  quindi  in  un  contesto  sociale  certamente  diverso) da quando
vennero scritte le sanzioni per la rapina e l'estorsione.
    Una   simile   ragione   non   e'   invece   dato  rinvenire  per
l'inasprimento  di pena per lo straniero che non ottempera all'ordine
del questore.
    Nei  soli due anni che intercorrono tra legge 189 e la legge 271,
il  fenomeno  dell'immigrazione clandestina (per contrastare il quale
vennero  scritte  le  norme  della  legge  n. 189/2002) non ha subito
variazioni   tali   da   giustificare   la   conversione  in  delitto
dell'inottemperanza  dello straniero all'ordine di allontanamento del
questione  e  l'elevazione macroscopica di pena introdotta in sede di
conversione in legge del d.l. n. 241/2002.
    Ne'   una   tale  giustificazione  si  rinviene  nella  relazione
all'emendamento  del  d.l. n. 241/2004 che ha introdotto una sanzione
cosi'  elevata,  posto che i relatori fanno riferimento soltanto alla
necessita'   di  adeguarsi  alla  sentenza  n. 223/2004  della  Corte
costituzionale,  intendendo  tale  adeguamento  come  un inasprimento
della pena, cosi' da consentire l'arresto obbligatorio per coloro che
non ottemperino all'ordine del questore.
    Che  questo  fosse  l'unico fine per il quale e' stata elevata in
misura  cosi'  rilevante  la  sanzione  e'  confermato dall'essere la
stessa  pena  prevista  per  il  fatto  di chi rientra nel territorio
nazionale    dopo   un'espulsione   disposta   dal   giudice   (fatto
evidentemente  ben piu' grave, in quanto presuppone la commissione di
un reato o quantomeno la pendenza di un procedimento penale).
    E'  evidente  che la trasposizione di un'esigenza processuale nel
diritto   penale   sostanziale   non   integra   il   criterio  della
ragionevolezza  e  si pone in contrasto con i principi costituzionali
posti dagli articoli 3 e 27, terzo comma della Costituzione.
    Per  valutare  se  l'inasprimento  di pena introdotto dalla legge
n. 271/2004  sia  compatibile con l'art. 3 della Costituzione si deve
poi  fare  riferimento  a  norme  incriminatrici poste a tutela degli
stessi  interessi (individuati nell'ordine pubblico e nella sicurezza
pubblica)  con  previsione  di  analoghe  modalita' di condotta. Tale
comparazione  e'  stata effettuata dalla Corte costituzionale al fine
di  valutare  la  proporzionalita'  e  la  ragionevolezza  della pena
prevista  per  il reato di cui all'art. 8, comma 2, legge n. 772/1992
(sentenza  n. 409/1989)  e  della  pena  prevista per il reato di cui
all'art. 341 c.p. (sentenza n. 341/1994).
    In  questo  caso,  deve essere preso in considerazione l'art. 650
c.p.  che punisce con l'arresto fino a tre mesi o con la sola ammenda
l'inottemperanza  ad  un provvedimento legalmente dato dall'autorita'
per ragioni di sicurezza pubblica o d'ordine pubblico.
    Ancora,  sempre alla tutela dell'ordine pubblico e della pubblica
sicurezza  e'  ispirata  la fattispecie di cui all'art. 2 della legge
n. 423/1956.  Anche  qui vi e' un ordine della pubblica autorita' (il
Questore,  come  nella  fattispecie  di cui all'art. 14, comma 4-ter)
concernente  persone  ritenute «pericolose per la sicurezza pubblica»
(si  osserva  che  si  tratta  non di una pericolosita' «potenziale»,
quale  e' quella dello straniero clandestino, ma di una pericolosita'
concreta) e anche qui l'inottemperanza configura una contravvenzione,
per la quale e' previsto l'arresto da uno a sei mesi.
    Marginalmente   si   osserva  che  completamente  diversa  e'  la
fattispecie del delitto previsto dall'art. 9 della legge citata.
    Si  tratta  della  violazione  da  parte del sorvegliato speciale
dell'obbligo  o  del divieto di soggiorno impostogli dal tribunale e,
sebbene  gli interessi tutelati dalla norma siano ancora quelli della
sicurezza  pubblica  e  dell'ordine  pubblico, non soltanto vi e' una
valutazione  in  concreto della pericolosita' sociale (effettuata dal
tribunale  e  non  dall'autorita'  amministrativa), ma soprattutto e'
prevista   una   condotta   attiva   dell'autore,  consistente  nella
violazione  di  un  obbligo o di un divieto (anche questo imposto dal
tribunale) al quale e' gia' stata data esecuzione a cura del questore
(art. 7,  legge  cit.)  e  quindi  nell'allontanamento  dal  luogo di
soggiorno  obbligato  ovvero  nel ritorno nel territorio per il quale
sussiste il divieto.
    L'ipotesi  in  questione  potrebbe quindi costituire parametro di
riferimento  per il delitto previsto dall'art. 14, comma 5-quater del
d.lgs. n. 286/1998 (reingresso dello straniero espulso nel territorio
dello  Stato),  ma non per la norma oggetto della presente questione,
norma  che  sanziona la mera inosservanza di un ordine dell'autorita'
di polizia.
    Coerentemente  con le sanzioni dettate per analoghe violazioni il
legislatore del 2002 aveva previsto come contravvenzione l'ipotesi di
cui  all'art. 14,  comma-ter, potendo la maggiore pena (da sei mesi a
un  anno di arresto) dettata per lo straniero (inottemperante, ma non
necessariamente  pericoloso) trovare giustificazione nell'esigenza di
contrastare  il  fenomeno  dell'immigrazione clandestina, inesistente
all'epoca   della   redazione   del   codice  penale  e  della  legge
n. 1423/1956.
    Sussiste  invece  una  rilevante  sproporzione  tra  le  pena ora
prevista  per  la  stessa  ipotesi,  configurata  come  delitto  e le
sanzioni  penali dettate per le contravvenzioni (ad essa analoghe) di
cui agli articoli 650 c.p. e 2, legge n. 1423/1956.
    L'irragionevolezza  sussiste  dunque  sotto  un duplice profilo e
cioe'  sia con riferimento alla pena che il legislatore solo due anni
prima  aveva  ritenuto  congrua  per  l'ipotesi  in  esame,  sia  con
riferimento alle pene previste per analoghe fattispecie.
    Come  si  e'  visto,  la  Corte  ha  ripetutamente  affermato che
l'art. 3  Costituzione  impone che il bilanciamento tra gli interessi
da  tutelare e il bene della liberta' personale (che, se si tratta di
straniero,  non  e'  per  questo  di  rango  inferiore  a  quello del
cittadino)  venga  effettuato  con riferimento alle sanzioni previste
per condotte analoghe, che minacciano gli stessi interessi e che solo
quando  la  sanzione  penale  viene  stabilita  con  la la necessaria
proporzionalita'  la  pena  puo' avere la funzione rieducativa di cui
all'art. 27, terzo comma della Costituzione.