ha pronunciato la seguente

                              Sentenza

nel  giudizio  per  conflitto  di attribuzione tra poteri dello Stato
sorto  a  seguito  della  delibera  della  Camera  dei  deputati  del
23 gennaio   2002,  relativa  alla  insindacabilita'  delle  opinioni
espresse dall'onorevole Umberto Bossi, promosso dalla Corte d'appello
di   Milano,   seconda  sezione  penale,  con  ricorso  notificato  e
depositato in cancelleria il 20 maggio 2003, ed iscritto al n. 18 del
registro conflitti del 2003.
    Visto l'atto di costituzione della Camera dei deputati;
    Udito nell'udienza pubblica del 6 giugno 2006 il giudice relatore
Gaetano Silvestri;
    Udito l'avvocato Massimo Luciani per la Camera dei deputati.

                          Ritenuto in fatto

    1.  -  Nel  corso  di  un  procedimento  penale nei confronti del
deputato Umberto Bossi, la Corte d'appello di Milano, seconda sezione
penale,  ha  sollevato  -  con  atto  depositato il 7 febbraio 2002 -
conflitto  di attribuzione tra poteri dello Stato nei confronti della
Camera   dei  deputati,  in  relazione  alla  deliberazione,  assunta
dall'Assemblea  in data 23 gennaio 2002 (documento IV-quater, n. 18),
con  la  quale  e'  stato dichiarato che i fatti oggetto del processo
concernono   opinioni   espresse   da   un   membro   del  Parlamento
nell'esercizio  delle  sue  funzioni,  ai  sensi  dell'art. 68, primo
comma, della Costituzione.
    In  punto  di  fatto, la ricorrente riferisce di essere investita
del  giudizio  di  appello promosso avverso la sentenza del 23 maggio
2001  del  Tribunale  di  Como,  sezione distaccata di Cantu', con la
quale  il  deputato  Bossi e' stato dichiarato colpevole del reato di
cui all'art. 292 del codice penale per avere, in data 25 luglio 1997,
nel  corso  di  una manifestazione indetta dalla Lega Nord e svoltasi
nei  pressi  del  Palazzetto  dello  sport di Cabiate, pronunziato le
seguenti  parole:  «quando  io  vedo  il  tricolore,  mi  incazzo; il
tricolore  lo  uso soltanto per pulirmi il culo» e poi, criticando le
disposizioni  in materia di esposizione della bandiera italiana, «con
il tricolore, ci si possono pulire il culo».
    La Corte d'appello di Milano, richiamata in premessa la richiesta
di  improcedibilita' avanzata dal Procuratore generale e dalla difesa
dell'imputato a seguito della suddetta delibera parlamentare, afferma
di non condividere le conclusioni e le argomentazioni contenute nella
delibera  stessa, secondo cui l'episodio oggetto di giudizio andrebbe
inquadrato  nel  contesto dell'azione politica all'epoca condotta dal
partito  del  quale il deputato Bossi era segretario nazionale, ed in
particolare  nella  lotta  intrapresa  dai  deputati  di tale partito
avverso  la  proposta  di  legge  volta  ad  introdurre  l'obbligo di
esposizione   negli   edifici  pubblici  della  bandiera  italiana  e
dell'Unione europea.
    L'asserita riconducibilita' delle affermazioni del deputato Bossi
alla sua funzione parlamentare e' contestata dalla Corte d'appello di
Milano,  la  quale, richiamandosi alla giurisprudenza di questa Corte
sul  c.d. «nesso funzionale» (in particolare alle sentenze n. 375 del
1997  e n. 10 del 2000), rileva, anzitutto, come non risulti in alcun
modo,  e  neppure  e'  affermato  nella delibera parlamentare, che il
deputato  Bossi  abbia  personalmente  utilizzato  all'interno  della
Camera le espressioni incriminate.
    Secondo  la  ricorrente,  poi,  non potrebbe rilevare il richiamo
alla  «condotta  tenuta  da imprecisati deputati leghisti» in sede di
discussione   della   proposta  di  legge  riguardante  l'obbligo  di
esposizione  della bandiera nazionale, non essendo specificato, nella
relazione  della  Giunta per le autorizzazioni a procedere, ne' se si
sia trattato di espressioni pronunziate dal deputato Bossi, ne' quale
sia stato nel dettaglio il tenore di tali dichiarazioni.
    La  Corte  d'appello  rileva,  ancora,  che  la impossibilita' di
ricondurre   le   espressioni  utilizzate  dal  deputato  Bossi  alla
previsione  dell'art. 68,  primo comma, Cost. discenderebbe dal fatto
che,  come  affermato da questa Corte nella sentenza n. 137 del 2001,
la   prerogativa   parlamentare   non  puo'  essere  estesa  «sino  a
comprendere   gli  insulti  -  di  cui  e'  comunque  discutibile  la
qualificazione   come  opinioni  -  solo  perche'  collegati  con  le
«battaglie»  condotte  da esponenti parlamentari in favore delle loro
tesi politiche».
    Per  queste  ragioni,  la  ricorrente,  «dissentendo  [...] dalla
deliberazione  con  cui  la  Camera  ha  dichiarato  insindacabile ex
art. 68,  primo  comma, della Costituzione le espressioni oggetto del
capo di    imputazione,    in    quanto   invasiva   delle   funzioni
giurisdizionali»,    ritiene    «necessario    investire   la   Corte
costituzionale,   elevando  il  conflitto  di  attribuzioni  previsto
dall'art. 134 della Costituzione».
    2.  -  Il conflitto e' stato dichiarato ammissibile con ordinanza
di questa Corte n. 156 del 2003, depositata il 9 maggio 2003.
    3. - La Corte d'appello di Milano ha provveduto a notificare tale
ordinanza  ed  il  ricorso  introduttivo  alla Camera dei deputati il
20 maggio 2003, e li ha poi depositati nella stessa data.
    4.  -  La  Camera  dei  deputati si e' costituita in giudizio con
memoria  depositata il 9 giugno 2003, eccependo l'inammissibilita' e,
in   subordine,   l'irricevibilita'   del  ricorso,  prospettando  in
ulteriore  subordine,  quanto  al merito, l'infondatezza dello stesso
ricorso,  con  conseguente riconoscimento della spettanza alla Camera
di dichiarare l'insindacabilita' delle opinioni espresse dal deputato
Bossi.
    4.1.  -  La difesa della Camera, pur riservandosi di identificare
tutte  le  ragioni  di  irricevibilita',  di  inammissibilita'  e  di
improcedibilita'  del  ricorso «solo dopo aver esaminato gli atti e i
documenti  depositati  dalla Corte di appello di Milano», ritiene che
il conflitto debba essere dichiarato inammissibile.
    Una  prima ragione di inammissibilita' consisterebbe nell'essere,
l'atto  introduttivo,  carente  dei  contenuti  e  della sostanza del
ricorso.  Richiamata  la  giurisprudenza  di  questa Corte, la difesa
della  Camera evidenzia come l'atto in parola sia privo dei requisiti
specificamente   previsti,   ed  in  particolare  di  «uno  specifico
petitum»,  poiche'  l'autorita'  giudiziaria  si  sarebbe  limitata a
ordinare  la  trasmissione  degli  atti  alla  Corte  costituzionale,
«sollevando  conflitto di attribuzione con la Camera dei deputati con
riferimento  alla  delibera  della stessa [...] del 23 gennaio 2002»,
senza  espressamente  chiedere  a questa Corte di annullare l'atto in
questione,  ne' di pronunciarsi «sulla spettanza o sull'esercizio del
potere contestato».
    In  secondo luogo, a parere della resistente, l'atto introduttivo
non  conterrebbe «alcuna indicazione delle "ragioni del conflitto"» e
pertanto  nel  presente  giudizio si dovrebbe pervenire alle medesime
conclusioni  cui  questa  Corte  e' giunta con la sentenza n. 363 del
2001,  con  la  quale  e'  stata  dichiarata l'inammissibilita' di un
conflitto  di  attribuzione  a causa della lacunosa esposizione delle
ragioni del conflitto.
    La  Camera  dei  deputati,  citando le sentenze n. 15 e n. 31 del
2002  di  questa  Corte, ribadisce, ulteriormente, l'inammissibilita'
del  conflitto  in  esame, «anche e soprattutto perche' la ricorrente
non chiarisce minimamente i confini e la direzione della sua pretesa,
omettendo  di  richiedere  la  declaratoria  della  spettanza  (a se'
medesima) del potere, nonche' l'annullamento dell'atto censurato».
    La  difesa  della  resistente  evidenzia, inoltre, come nell'atto
introduttivo  non  siano  menzionati  i  parametri costituzionali nei
quali   si  radicherebbero  le  attribuzioni  della  Corte  d'appello
ricorrente,  essendosi  quest'ultima limitata a citare solo l'art. 68
Cost.,  norma  sulla  quale,  invece,  si fondano le attribuzioni del
potere  confliggente.  Cio'  costituirebbe  un'ulteriore  ragione  di
inammissibilita',  «poiche'  sono  state  almeno  in  parte omesse le
«norme costituzionali che regolano la materia», la cui indicazione e'
imposta dall'art. 26, comma 1, N.I.».
    La  Camera  dei  deputati  aggiunge  che  le  anzidette  cause di
inammissibilita'  del  conflitto  non possono essere superate nemmeno
improntando    l'esame    dell'atto    introduttivo    al    criterio
«sostanzialistico»,  che  -  secondo  la  difesa  della  resistente -
sarebbe stato seguito da questa Corte nella sentenza n. 421 del 2002.
In   particolare,  a  parere  della  Camera,  nell'odierno  conflitto
risulterebbero  carenti sia «la richiesta di annullamento dell'atto»,
sia «la richiesta di declaratoria della spettanza del potere», con la
conseguenza  che l'atto introduttivo si risolverebbe «in una sorta di
astratta  richiesta  di  parere  al  Giudice  costituzionale [...] in
violazione  delle piu' elementari norme di procedura, che (per quanto
possa  contare  la  «sostanza» della controversia al di la' della sua
«forma»)  vanno rispettate onde garantire i diritti costituzionali di
difesa del potere confliggente».
    4.2.  -  In  via subordinata, la difesa della Camera dei deputati
ritiene  che  il  ricorso  debba  essere  dichiarato irricevibile. Al
riguardo,  la  stessa  resistente  ricorda  come  questa  Corte, «con
numerose,   recenti   pronunce»,  abbia  rigettato  le  eccezioni  di
irricevibilita'  e  di  inammissibilita'  proposte  dalla  Camera dei
deputati,  con  riferimento all'asserita infungibilita' del ricorso e
dell'ordinanza  quali  strumenti  utili  a  promuovere  conflitto  di
attribuzione   tra   poteri  dello  Stato,  e  tuttavia  insiste  nel
prospettare la medesima eccezione, sottolineando come l'utilizzazione
della  forma  dell'ordinanza  comporti la violazione del principio di
parita' delle armi tra le parti del giudizio.
    In  particolare,  secondo la difesa della resistente, l'autorita'
giudiziaria   che  si  avvalga  dello  strumento  dell'ordinanza  per
promuovere  il  conflitto,  eluderebbe  il disposto dell'art. 6 delle
norme  integrative  per  i giudizi davanti alla Corte costituzionale,
che,  nel  comma 1, pone a carico della parte ricorrente l'obbligo di
depositare i propri documenti in tante copie quanti sono i componenti
della  Corte  e  le  parti del processo e, al comma 2, prevede che il
cancelliere  non  possa ricevere gli atti e i documenti che non siano
corredati del necessario numero di copie.
    La  Camera dei deputati ricorda come questa Corte, nella sentenza
n. 10  del  2000,  abbia ritenuto sufficiente che l'atto introduttivo
del  conflitto  pervenga  in  una  forma  che  possa  assimilarsi  al
deposito, e tuttavia precisa che «tale assimilabilita' di forme vi e'
solo   a   condizione   che   del  deposito  si  rispetti  l'essenza,
trasmettendo  tutto  cio'  che  le regole (ch'Essa stessa si e' data)
impongono di trasmettere».
    A   detta   della  resistente,  la  difficolta'  materiale  nella
predisposizione  dei fascicoli in un cospicuo numero di copie - «alla
quale  l'autorita' giudiziaria si sottrae» - inciderebbe direttamente
sul  diritto  di  difesa, con la conseguenza che «il mancato rispetto
delle  regole  processuali (in violazione del principio della parita'
delle armi) deve essere rigorosamente sanzionato».
    4.3.  -  In  ulteriore  subordine,  la  difesa  della  Camera dei
deputati ritiene che il ricorso debba essere rigettato.
    Al  riguardo,  la  resistente  ricorda  come  la «questione della
bandiera italiana [sia] stata oggetto di ripetuta attenzione da parte
dei  parlamentari della Lega Nord, che hanno costantemente avversato,
anche  con  durezza,  le  norme  sulla  sua  esposizione  e sulla sua
celebrazione». A conferma di cio' e' riportato il contenuto di alcune
dichiarazioni  rese,  nel corso dei lavori parlamentari, dai senatori
leghisti Speroni e Brignone.
    La  difesa della Camera sottolinea, altresi', come «gli apri toni
usati  dall'on.  Bossi»  siano  gia'  rinvenibili  negli  emendamenti
presentati  da vari parlamentari della Lega Nord, sia alla Camera che
al  Senato,  in occasione del dibattito parlamentare che ha preceduto
l'approvazione  della  legge  5 febbraio  1998,  n. 22  (Disposizioni
generali  sull'uso  della  bandiera  della  Repubblica  italiana e di
quella dell'Unione europea).
    Si   tratterebbe,   pertanto,   di  atti  tipici  della  funzione
parlamentare che «manifestano la stessa opinione esposta extra moenia
dall'on. Bossi».
    A  tal proposito, la difesa della Camera, pur riconoscendo che le
parole  con  le quali e' stata espressa dai parlamentari leghisti «la
disistima  nei confronti della bandiera nazionale» non coincidono con
quelle  usate dall'on. Bossi, ritiene che «la diversita' delle parole
[...]  non  sposta  minimamente  i termini del problema». Sostiene la
resistente,  infatti,  che  «il  controllo  sulla c.d. corrispondenza
sostanziale  non  puo'  trasformarsi in puntiglioso (e inammissibile)
controllo sulla corrispondenza «formale» delle espressioni usate».
    Piu'  in generale, secondo la Camera, la questione della bandiera
sarebbe  «connessa  inestricabilmente  a  quella dell'iniziativa (non
solo  politica,  ma anche) parlamentare della Lega per l'indipendenza
della  Padania  e  comunque per la sua differenziazione dal resto del
Paese».  Viene  citata,  al  riguardo, una serie di atti parlamentari
(proposte di legge, interventi in dibattiti, denominazione del gruppo
parlamentare ecc.), dai quali si evincerebbe il senso dell'iniziativa
parlamentare condotta dalla Lega Nord.
    A   parere   della   resistente,   le   opinioni  dell'on.  Bossi
riprodurrebbero  all'esterno, sia pure «in estrema sintesi» - secondo
quanto  affermato  anche  dalla  Giunta  per  le autorizzazioni -, il
contenuto di alcuni atti parlamentari tipici.
    La   Camera   dei   deputati  assume,  inoltre,  che  la  mancata
coincidenza  tra  gli  autori  degli  atti  parlamentari  tipici e il
responsabile  delle  dichiarazioni  extra  moenia  «non puo' avere la
minima influenza sulla copertura garantita dall'art. 68, primo comma,
Cost.»,   in   quanto  un  sindacato  sulle  dichiarazioni  «esterne»
determinerebbe  comunque,  un'interferenza  con  quelle  «interne», a
prescindere dalla paternita' delle une e delle altre, con conseguente
«compromissione  dell'esercizio  del  mandato  del parlamentare», che
deve invece essere libero (art. 67 Cost.).
    In   via   ancor  piu'  generale,  la  difesa  della  resistente,
richiamando  le sentenze numeri 10 e 11 del 2000 e n. 417 del 1999 di
questa   Corte,  distingue  tre  tipi  di  opinioni  di  parlamentari
manifestate  extra  moenia:  a)  quelle del tutto estranee alla sfera
della   politica   e,   come   tali,   prive  di  qualunque  garanzia
costituzionale;  b)  quelle  connesse  alla  sfera della politica, ma
estranee  alla politica parlamentare, assoggettate pertanto al regime
ordinario;  c)  quelle  connesse  alla politica parlamentare, coperte
dalla insindacabilita' di cui all'art. 68 Cost.
    Su   questa   premessa,  secondo  la  Camera,  il  fatto  che  le
dichiarazioni  oggetto dell'odierno conflitto siano state manifestate
extra  anziche'  intra moenia sarebbe «meramente accidentale», mentre
il  discrimine  tra cio' che deve e cio' che non puo' essere tutelato
risiederebbe  «nella  oggettiva  connessione  delle  opinioni  con il
"complessivo  contesto  parlamentare",  e  cioe'  con i contenuti (di
volta  in  volta  modificantisi)  della  "politica parlamentare"». La
stessa  difesa  della resistente, per vero, ricorda che questa Corte,
con  le  sentenze numeri 10 e 11 del 2000, e' pervenuta a conclusioni
di   segno   diverso,   ma,   nondimeno,   «auspica  che  l'indirizzo
giurisprudenziale piu' recente sia oggetto [...] di un ripensamento».
    La  Camera  dei  deputati  contesta, infine, l'affermazione della
ricorrente  secondo  cui  le  espressioni  impiegate  dall'on.  Bossi
costituirebbero  meri insulti, segnalando come si tratti nella specie
non  di  insulti,  ma  «tutt'al piu» di vilipendio. La giurisprudenza
costituzionale  citata  dalla  Corte  d'appello  (sentenza n. 137 del
2001)  non  conterrebbe,  d'altra  parte,  «affermazioni drastiche in
ordine  all'esclusione  delle espressioni insultanti dal novero delle
opinioni [garantite] dall'art. 68, primo comma, della Costituzione».
    5.  -  In  prossimita'  dell'udienza  la  difesa della Camera dei
deputati  ha  depositato una memoria integrativa con la quale insiste
per  l'inammissibilita'  e,  in  subordine,  per  l'infondatezza  del
ricorso.
    5.1.  -  In  primo  luogo, la resistente ribadisce l'eccezione di
inammissibilita'  del conflitto per l'«evidente carenza del petitum».
Si   sottolinea,   inoltre,   come  nell'atto  introduttivo  non  sia
rinvenibile   «alcuna   richiesta  di  annullamento  della  censurata
deliberazione  della  Camera»,  ne'  «la  richiesta  che  la Corte si
pronunci sulla spettanza o sull'esercizio del potere contestato».
    In  proposito,  la  Camera  dei  deputati aggiunge che la lettura
della  parte  motiva  del  ricorso  «aggrava  il vizio», posto che la
ricorrente  si  sarebbe  limitata  a  dissentire  dalla deliberazione
camerale   e  ad  affermare  la  necessita'  di  investire  la  Corte
costituzionale  proponendo  il  conflitto,  in  assenza  del «benche'
minimo  accenno ad un qualche petitum». Si ribadisce, inoltre, che il
conflitto  dovrebbe essere dichiarato inammissibile «in quanto l'atto
introduttivo  non indica soddisfacentemente le ragioni» dello stesso.
Si  afferma,  in  particolare,  che  la ricorrente avrebbe richiamato
alcuni  precedenti giurisprudenziali «senza vero riferimento "al caso
concreto"»  e  senza  indicare una ragione di diritto o di fatto «che
corrobori la tesi della mancanza del nesso funzionale con atti tipici
del mandato parlamentare».
    5.2.  -  Nel  merito,  secondo la difesa della Camera, le censure
della ricorrente sarebbero infondate.
    La   resistente,   riprendendo  le  argomentazioni  gia'  esposte
nell'atto   di  costituzione,  ribadisce  come  «la  questione  della
bandiera»  costituisca  «un  punto  centrale  e  qualificante»  della
battaglia  politica  e  parlamentare  della  Lega  Nord, ed evidenzia
l'identita'  di  «sostanza»  tra l'opinione espressa dai parlamentari
leghisti   in   occasione   dei   vari  atti  indicati  nell'atto  di
costituzione  e  quella  manifestata  extra  moenia  dall'on.  Bossi.
Aggiunge  come  non  ci  si debba «fare ingannare dalla diversa forma
espressiva, che potrebbe definirsi colorita, usata dal parlamentare»,
poiche'  «quel  che conta e' l'espressione di disistima nei confronti
della bandiera nazionale».
    La  difesa  della  Camera  replica, poi, alla censura della Corte
d'appello  secondo  cui  le opinioni manifestate in atti parlamentari
non  avrebbero  rilevanza  nel  presente  conflitto,  in  quanto  non
«personalmente  ascrivibili  all'on.  Bossi». La resistente assume, a
tale  proposito,  che la paternita' delle dichiarazioni rese intra ed
extra  moenia non ha alcuna importanza al fine dell'attivazione della
garanzia  di cui all'art. 68, primo comma, Cost. A suo dire, infatti,
se  il  contenuto  sostanziale  delle  dichiarazioni  e'  lo  stesso,
ammettere   il   sindacato   su   quelle   «esterne»   determinerebbe
un'interferenza   su  quelle  «interne»  (a  prescindere  dalla  loro
paternita),  con  conseguente  violazione  degli artt. 67 e 68, primo
comma,   Cost.   Al   riguardo,   si   ricorda   come   la   funzione
dell'insindacabilita'   parlamentare   sia  quella  di  «tutelare  le
istituzioni rappresentative (le Camere) e non i loro membri».
    A  maggior  ragione, si osserva, cio' dovrebbe valere nel caso di
specie,  in  cui  le  opinioni provengono da appartenenti allo stesso
gruppo  parlamentare  dell'on. Bossi. Secondo la resistente, infatti,
«la  consentaneita'  ideologica  tra  appartenenti al medesimo gruppo
(«sociologicamente»  corrispondente  a  un partito) fa si' che non si
possa   immaginare   una   separazione  netta  fra  le  attivita'  di
parlamentari diversi, ma appartenenti al medesimo gruppo».
    Infine,  la  Camera, dopo aver ribadito la differenza tra insulti
personali  e  vilipendio,  sottolinea  come non sia possibile evitare
l'utilizzo  di  «espressioni  forti»  quando  si  intenda  «criticare
radicalmente   il   simboleggiato   attraverso  il  simbolo,  tenendo
quest'ultimo a "vile"».

                       Considerato in diritto

    1.  -  La  Corte  d'appello di Milano, seconda sezione penale, ha
sollevato  -  con  atto  depositato il 7 febbraio 2002 - conflitto di
attribuzione  tra  poteri  dello Stato nei confronti della Camera dei
deputati,  in relazione alla deliberazione, assunta dall'Assemblea in
data  23 gennaio  2002,  con la quale e' stato dichiarato che i fatti
per  i  quali l'on. Umberto Bossi e' stato ritenuto, dal Tribunale di
Como,  sezione  distaccata  di  Cantu',  colpevole del reato previsto
dall'art. 292  del  codice penale, concernono opinioni espresse da un
membro  del  Parlamento  nell'esercizio  delle sue funzioni, ai sensi
dell'art. 68,  primo comma, della Costituzione. Le espressioni per le
quali  l'on.  Bossi  e' stato condannato sono le seguenti: «quando io
vedo  il  tricolore  mi  incazzo;  il  tricolore  lo uso soltanto per
pulirmi il culo» e «con il tricolore ci si possono pulire il culo».
    Il  conflitto  e'  stato  dichiarato ammissibile con ordinanza di
questa Corte n. 156 del 2003.
    2.  -  Occorre  preliminarmente verificare, in via definitiva, la
sussistenza dei requisiti, indicati nell'art. 37 della legge 11 marzo
1953,  n. 87 (Norme sulla costituzione e il funzionamento della Corte
costituzionale),  per l'ammissibilita' del conflitto, gia' oggetto di
un  primo  e  sommario  giudizio  delibativo conclusosi con la citata
ordinanza n. 156 del 2003.
    2.1. - Il conflitto e' ammissibile.
    Non  si  puo' accogliere in proposito l'eccezione, avanzata dalla
difesa  della  Camera  dei  deputati,  basata  sul rilievo che l'atto
introduttivo  del  presente  giudizio  sarebbe  privo  dei  necessari
requisiti formali e sostanziali.
    Quanto   alla  asserita  mancanza  di  uno  specifico  petitum  -
essendosi limitata la Corte d'appello di Milano a sollevare conflitto
di  attribuzione  in relazione alla deliberazione del 23 gennaio 2002
della  Camera  dei  deputati,  senza  espressamente chiedere a questa
Corte  di  pronunciarsi  sulla  spettanza e sull'esercizio del potere
contestato  e  senza chiedere di conseguenza l'annullamento dell'atto
prima  citato  -  si  deve  rilevare che, con l'atto introduttivo, la
ricorrente  nega  che la delibera di insindacabilita' sia fondata sui
presupposti    richiesti   dall'art. 68,   primo   comma,   Cost.   e
conseguentemente    denuncia    un'illegittima   interferenza   nelle
attribuzioni,     costituzionalmente     tutelate,     dell'autorita'
giudiziaria.  Cio'  e'  sufficiente «ad esplicitare la sostanza della
«pretesa»  che  il giudice confliggente introduce nel [...] giudizio,
ponendo  questa  Corte  in  condizione  di  deliberare sul merito del
conflitto  (art. 38 della legge n. 87 del 1953)» (sentenza n. 246 del
2004).
    In  via  generale,  si  deve  ritenere  necessaria  e sufficiente
«qualsiasi  espressione  idonea a palesare, in modo univoco e chiaro,
la  volonta' del ricorrente di richiedere la decisione della Corte su
un  determinato  conflitto  di  attribuzione  tra poteri dello Stato»
(sentenza n. 28 del 2005).
        Che  la  volonta' della Corte d'appello ricorrente sia quella
di  sollevare un conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato non
e'  dubitabile.  Ne'  la  motivazione  ne'  il  dispositivo dell'atto
introduttivo possono indurre questa Corte a ritenere che si tratti di
«una   sorta   di   astratta   richiesta   di   parere   al   Giudice
costituzionale», come sostenuto dalla difesa della resistente.
    Va,  inoltre, precisato che l'art. 26 delle norme integrative per
i  giudizi  davanti alla Corte costituzionale si limita a prescrivere
che  il  ricorso  contenga  «l'esposizione sommaria delle ragioni del
conflitto  e l'indicazione delle norme costituzionali che regolano la
materia».  Entrambe  le  prescrizioni  vengono  soddisfatte dall'atto
introduttivo,  in  cui, come prima precisato, sono esposte le ragioni
di  fatto  e  di  diritto  che  inducono la ricorrente a non ritenere
invocabile,  nel caso di specie, l'art. 68, primo comma, Cost., posto
a  base  del  potere  confliggente,  e  a denunciare la lesione delle
attribuzioni  dell'autorita' giudiziaria, poste a base del potere che
solleva il conflitto.
    Non  assume  rilievo,  ai  fini  dell'ammissibilita',  la mancata
indicazione,  sottolineata  dalla  resistente,  delle  singole  norme
costituzionali  poste  a presidio dell'integrita' e dell'indipendenza
della  giurisdizione,  giacche'  la  doglianza relativa all'invasione
delle  attribuzioni proprie dell'autorita' giudiziaria rimanda, senza
possibilita' di equivoci, alle norme costituzionali che tutelano tali
attribuzioni  (artt. 101,  secondo  comma,  102,  primo comma, e 104,
primo comma, Cost.).
    2.2.   -   Quanto   all'eccezione  di  irricevibilita'  dell'atto
introduttivo,  basata  sulla  pretesa  infungibilita' delle forme del
ricorso  e dell'ordinanza ai fini dell'instaurazione del giudizio per
conflitto di attribuzione tra poteri dello Stato, si deve ribadire la
copiosa  giurisprudenza  di  questa  Corte  sulla insussistenza di un
simile    principio,   in   quanto   «l'utilizzazione   della   forma
dell'ordinanza   non   implica,  di  per  se',  l'inosservanza  delle
prescrizioni  di cui all'art. 6 delle norme integrative per i giudizi
davanti  alla  Corte  costituzionale»  (sentenza  n. 193 del 2005; in
senso  conforme  gia'  sentenza  n. 298  del  2004).  Il principio di
«parita'  delle  armi»,  la  cui  violazione  e'  lamentata  a  causa
dell'adozione della forma dell'ordinanza, «e' male invocato quando si
sostiene  che  la  difesa  della  Camera,  se ricorrente, si sobbarca
all'onere  di produrre numerose copie del ricorso laddove l'autorita'
giudiziaria,  quando  e'  ricorrente,  si sottrae a tale «difficolta'
materiale».  La  par  condicio  non  ha  nulla  a  che vedere con una
fattispecie  che  richiederebbe,  nell'auspicio  della  difesa  della
Camera,  una  applicazione  (non  tanto rigorosa, quanto) rigidamente
letterale  del  citato  art. 6 da parte della cancelleria della Corte
nel   sanzionare   una   irregolarita'  formale,  pur  non  idonea  a
pregiudicare  in  qualsiasi modo la controparte» (sentenza n. 193 del
2005 citata).
    3. - Nel merito il ricorso e' fondato.
    3.1. - Si deve osservare che le espressioni usate dall'on. Bossi,
per  le  quali e' stato instaurato il procedimento penale all'origine
del  presente  conflitto,  non trovano corrispondenza in alcun atto o
intervento parlamentare dello stesso deputato.
    Questa   Corte  ha  gia'  chiarito  che  la  verifica  del  nesso
funzionale   tra   dichiarazioni   rese  extra  moenia  ed  attivita'
tipicamente  parlamentari,  nonche'  il  controllo  sulla sostanziale
corrispondenza  tra  le  prime e le seconde, devono essere effettuati
con  riferimento  alla  stessa  persona, mentre «sono irrilevanti gli
atti  di  altri  parlamentari» (sentenze n. 146 del 2005 e n. 347 del
2004).
    La  circostanza  che  gli  altri  parlamentari,  ai  cui  atti si
collegherebbero   le   dichiarazioni  oggetto  del  giudizio  penale,
appartengono allo stesso gruppo parlamentare dell'on. Bossi, non puo'
influire  sull'estensione della garanzia a soggetti diversi da quello
cui si riferisce la delibera di insindacabilita'.
    E' vero che le guarentigie previste dall'art. 68 Cost. sono poste
a  tutela  delle istituzioni parlamentari nel loro complesso e non si
risolvono  in  privilegi  personali  dei  deputati e dei senatori. Da
questa   esatta   rilevazione   non  si  puo'  trarre,  tuttavia,  la
conseguenza  che,  come  afferma la difesa della Camera dei deputati,
esista  una tale fungibilita' tra i parlamentari iscritti allo stesso
gruppo da produrre effetti giuridici sostanziali nel campo della loro
responsabilita'  civile e penale per le opinioni espresse al di fuori
delle  Camere:  l'art. 68, primo comma, Cost. non configura una sorta
di   insindacabilita'  di  gruppo,  per  cui  un  atto  o  intervento
parlamentare  di  un  appartenente  ad un gruppo fornirebbe copertura
costituzionale per tutti gli altri iscritti al gruppo medesimo.
    D'altra  parte,  gli stessi regolamenti parlamentari, in coerenza
con l'art. 67 Cost., consentono al singolo parlamentare di dissentire
dalle   posizioni   del   gruppo  cui  appartiene  e  di  manifestare
pubblicamente  tale  dissenso.  Accogliendo  la  tesi difensiva sopra
esposta   si   andrebbe   incontro  in  definitiva  all'irragionevole
conseguenza  che  l'insindacabilita'  «trasferita»  opererebbe solo a
favore degli appartenenti allo stesso gruppo e non invece a favore di
altri  parlamentari, che, al di fuori della disciplina di gruppo e di
partito, condividessero le medesime opinioni.
    3.2.  -  Si  deve  pure aggiungere che i regolamenti parlamentari
negano   ingresso  nei  lavori  delle  Camere  agli  scritti  o  alle
espressioni «sconvenienti».
    L'uso  del  turpiloquio  non fa parte del modo di esercizio delle
funzioni  parlamentari  ammesso  dalle  norme  che dall'art. 64 Cost.
traggono la competenza a disciplinare in modo esclusivo l'ordinamento
interno   delle   Camere   del  Parlamento.  A  fortiori,  le  stesse
espressioni  non  possono  essere  ritenute  esercizio della funzione
parlamentare quando usate al di fuori delle Camere stesse.