IL TRIBUNALE

    Nel  procedimento penale n. 309/04 r.g. trib., a carico di Urrata
Ciro  e  Sanfilippo  Francesca,  difesi di fiducia dall'avv. Fernando
Bello,   imputati  del  reato  di  detenzione  illecita  di  sostanza
stupefacente consumato in Biella il 21 marzo 1991;
    Sciogliendo  la  riserva  assunta  all'udienza dibattimentale del
10 gennaio  2006  ha  pronunciato  la  seguente  ordinanza  avente ad
oggetto   il   rilievo  d'ufficio  della  questione  di  legittimita'
costituzionale     dell'art. 238-bis     c.p.p.,    per    violazione
dell'art. 111, commi quarto e quinto Cost.;
    In  punto  di  fatto e secondo la specifica contestazione operata
dall'accusa   nel   capo   di  imputazione  (art. 521  c.p.p.),  deve
preliminarmente   evidenziarsi   come  agli  odierni  imputati  venga
addebitato  di  avere  illecitamente  detenuto «50 grammi di sostanza
stupefacente del tipo eroina, ricevuti da Guerriero Egidio».
    All'udienza del 10 gennaio 2006 (nella contumacia di entrambi gli
imputati   e   previa   formale   dichiarazione   di   apertura   del
dibattimento),  il  p.m. esponeva i fatti oggetto di prova e, in sede
di  richieste ex art. 493 c.p.p., avanzava istanza di esame dei testi
indicati  nella lista ritualmente depositata, ivi compreso l'esame di
Guerriero  Egidio  da  espletarsi  con  le  modalita'  e  le garanzie
difensive  previste  dall'art. 197-bis, comma 1, c.p.p. (in relazione
all'art. 371,  comma  2,  lett. b)  avendo  il  Guerriero definito la
propria posizione processuale di imputato di reato collegato a quello
contestato agli odierni imputati con sentenza di condanna pronunciata
in  data  11 marzo  1992  nei  suoi  confronti dal g.i.p. di Biella a
seguito  di  giudizio  abbreviato, divenuta irrevocabile il 27 aprile
1992 (sentenza che, pertanto, veniva inizialmente esibita dal p.m. ai
soli fini' processuali in parola, ex art. 187, comma 2 c.p.p.).
    Espletato  l'esame  del  teste/assistito  Guerriero  e  del teste
Gervini  Luciano,  il  p.m.  - previa rinuncia, con il consenso della
difesa  (art. 495  comma 4-bis c.p.p.), all'esame del teste Tartaglia
Daniele  (con  consequenziale revoca da parte di questo giudice della
relativa  ordinanza  di  ammissione,  stante  la  ravvisata effettiva
irrilevanza del predetto mezzo di prova) - avanzava, quale conclusiva
richiesta  istruttoria,  formale  istanza  di  acquisizione,  a norma
dell'art. 238-bis   c.p.p.,   della   citata   sentenza  di  condanna
pronunciata  nei  confronti del Guerriero, e cio' al palesato fine di
una  sua  utilizzazione «diretta», in chiave probatoria, nel presente
processo.
    A  fronte  di detta richiesta - rispetto alla quale, comunque, la
difesa  degli  imputati/contumaci non manifestava il proprio consenso
(come,  del  resto, confermato all'odierna udienza) - questo giudice,
con  riferimento  alla  concreta fattispecie sottoposta al suo vaglio
giurisdizionale,  ritiene  di  sollevare  d'ufficio  la  questione di
costituzionalita' dell'art. 238-bis c.p.p., ravvisando una violazione
del  principio  del  contraddittorio  nella  formazione  della  prova
desumibile   dal   combinato-disposto   dei  commi  quarto  e  quinto
dell'art. 111 Cost.
    Ed  invero, in punto di rilevanza della questione deve osservarsi
come   la  indubbia  «pertinenza  probatoria»  -  rispetto  al  thema
decidendum  del  presente  processo  (secondo  il  generale parametro
previsto  dall'art. 187  comma  1  c.p.p.)  - dell'acquisizione della
citata  sentenza  irrevocabile  si  ricolleghi,  in primo luogo, alla
riscontrata    sussistenza    di    un    effettivo   «collegamento»,
processualmente  rilevante  ai sensi dell'art. 371, comma 2, lett. b)
c.p.p.,  tra il fatto-reato contestato agli odierni imputati e quello
«autonomamente»  e  definitivamente accertato a carico del Guerriero:
collegamento     nella     specie     ulteriormente     «qualificato»
dall'applicabilita'  -  quale  criterio  di valutazione del risultato
probatorio  rappresentato  dall'espletato  esame  dibattimentale  del
Guerriero  -  del  disposto  di cui all'art. 197-bis, comma 6 c.p.p.;
prospettandosi   il   «fatto   accertato»   nella  predetta  sentenza
irrevocabile  (v.  in  particolare,  il  reato contestato al capo 10)
quale  elemento  «esterno»  di conferma della (emersa) attendibilita'
intrinseca delle dichiarazioni contra se 1) ed eteroaccusatorie rese,
appunto,   dal   Guerriero  nel  contraddittorio  dibattimentale  nel
presente  processo:  e cio' con particolare riferimento all'accertata
effettiva  disponibilita'  da parte del Guerriero del quantitativo di
sostanza  stupefacente  (50 grammi di eroina) corrispondente a quello
oggetto  della  successiva  cessione illecita operata in favore degli
odierni  imputati, correlativamente accusati nel presente processo di
detenzione  a fini di spaccio del medesimo quantitativo di droga; con
inevitabili   ed   evidenti   riflessi   processuali  in  termini  di
«circolarita'  e  complementarita'  probatoria»  anche  per  cio' che
concerne  il  relativo  regime  di  valutazione, ex art. 192, comma 3
c.p.p., espressamente richiamato sia dall'art. 238-bis c.p.p. che dal
citato art. 197-bis, comma 6 c.p.p. 2).
    In   tale   prospettiva   di   inquadramento   processuale  della
fattispecie,  se, da un lato ed a fronte della richiesta avanzata dal
p.m.,  alcuna  questione  si  pone  in  ordine all'individuazione (ex
art. 23,  comma  l,  legge  11 marzo  1953,  n. 87) dell'art. 238-bis
c.p.p. quale «disposizione normativa» applicabile, dall'altro emerge,
a  parere  di  questo  giudice,  un dubbio sulla compatibilita' della
norma  in parola con quanto previsto dall'art. 111 commi 4 e 5 Cost.,
la  cui non manifesta infondatezza investe (e va, quindi, rapportata)
alla  stessa  fase di ammissione (rectius: acquisitiva) del peculiare
«elemento   di   prova»  rappresentato  dalla  sentenza  irrevocabile
pronunciata   in   diverso  procedimento,  risultando  infatti  detta
facolta'  acquisitiva  probatoria  -  nella  struttura  normativa del
citato   art. 238-bis   c.p.p.  -  indissolubilmente  correlata  alla
potenzialita'  gnoseologica rispetto al «fatto» documentato (rectius:
accertato  giudizialmente  con efficacia di giudicato) nella sentenza
oggetto  di  acquisizione:  inequivocabile  il tenore letterale della
norma,  secondo  cui  «Fermo  quanto  previsto  dall'articolo 236, le
sentenze divenute irrevocabili possono essere acquisite ai fini della
prova  di  fatto  in  esse  accertato  e  sono valutate a norma degli
articoli 187 e 192, comma 3».
    Cio'  posto, risulta evidente come la norma in esame, consentendo
al  giudice  di  acquisire  elementi  di prova formati in assenza del
contraddittorio  con  il  soggetto  contro  il  quale  possono essere
utilizzati,   rappresenti   un   insanabile   vulnus   del  principio
(«costituzionalizzato»  dall'art. 111  quarto  comma,  primo  periodo
Cost.)  secondo  cui  nel  processo  penale la formazione della prova
avviene nel contraddittorio delle parti.
    Il   percorso   inteso   a   chiarire   il  predetto  profilo  di
illegittimita'  costituzionale  non puo' non prendere le mosse da una
ricostruzione  della  ratio  e  della reale portata applicativa dell'
art. 238-bis  c.p.p.  incentrata  tanto  sulla  genesi  storica della
norma, quanto sulla sua collocazione sistematica tra i mezzi di prova
documentali  (Libro  III,  Titolo  II,  Capo VII del codice di rito).
Com'e'  noto,  l'art. 238-bis  c.p.p. e' stato introdotto dalla legge
7 agosto 1992, n. 356 (di conversione del d.l. 8 giugno 1992, n. 306)
con  il  chiaro  intento  (del  legislatore)  di attuare una sorta di
semplificazione   probatoria   (soprattutto   per   i   processi   di
criminalita' organizzata 3) e di economia processuale, dispensando il
giudice  (e  le  parti)  dall'onere di dovere, di volta in volta e in
ogni   successivo   giudizio,   riaffrontare  e  sviluppare  temi  (e
questioni)  probatori  relativi  a fatti gia' oggetto di accertamento
irrevocabile  in altri e precedenti giudizi; limitando, nel contempo,
il  rischio di possibili contrasti di giudicato (e fermo restando, in
ogni  caso,  il  principio  del  libero convincimento del giudice del
processo ad quem). In piena sintonia logica con la predetta finalita'
dell'intervento  legislativo  deve  ritenersi  la consolidata opzione
interpretativa (affermatasi nella giurisprudenza della Suprema Corte)
laddove,  valorizzando  il  tenore  letterale  della  norma in esame,
riconosce  come sia del tutto ininfluente, ai fini della sua concreta
applicabilita',  il  contenuto  degli elementi probatori utilizzati e
valutati  nella  sentenza  irrevocabile, con l'ulteriore precisazione
che  il  materiale  probatorio utilizzabile attraverso l'acquisizione
della  sentenza/documento  4),  ex  art. 238-bis c.p.p., non puo' non
individuarsi   in  tutte  le  risultanze  di  fatto  emergenti  dalla
motivazione  del  provvedimento  giudiziario  acquisito.  Ed  invero,
l'espresso  richiamo  all'art. 236  c.p.p.  -  il quale, com'e' noto,
prevede  l'utilizzabilita' di sentenze irrevocabili «soltanto al fine
di valutare la personalita' dell'imputato, della persona offesa o del
testimone   con   riferimento  alla  sua  credibilita'...»  -  sta  a
significare   che   le  sentenze  irrevocabili  indicate  dal  citato
art. 238-bis  c.p.p.,  sono  acquisibili  per  risultanze processuali
diverse,   e  cioe'  per  le  risultanze  di  fatto  emergenti  dalle
motivazioni di dette sentenze e non gia' dai loro dispositivi (in tal
senso,  fra  le  tante:  Cass., sez. I, 29 luglio 1995, n. 727 Ronch;
Cass.,  sez. I,  17 giugno  1997  n. 5894,  Bottaro  ed altri; Cass.,
sez. 6, 18 marzo 1998, n. 3396, Calisse ed altri).
    Tale  ultimo  rilievo impone, tuttavia, una doverosa precisazione
sul  significato  della locuzione «prova di fatto in esse accertato»,
utilizzata dal legislatore quale limite di utilizzabilita' intrinseca
delle sentenze irrevocabili pronunciate in processi diversi da quello
nell'ambito  del  quale le stesse possono essere acquisite: questione
che,  a  ben vedere, a sua volta involge due snodi interpretativi tra
loro  connessi e, a parere di questo giudice, rilevanti ai fini della
risoluzione  del  presente quesito di legittimita' costituzionale. Da
un  lato, va infatti chiarita l'anomala natura di «prova documentale»
normativamente    (ed   implicitamente)   assegnata   alla   sentenza
irrevocabile, dall'altro emerge in maniera evidente, sulla base della
stessa  formulazione letterale delle due norme 5), l'autonoma portata
applicativa  dell' art. 238-bis  c.p.p.  rispetto all'art. 238 c.p.p.
(norma  quest'ultima  anch'essa  interessata dal citato intervento di
riforma  del  1992  e  disciplinante  un  fenomeno  di  «circolazione
probatoria»  ispirato  al  medesimo principio informatore di economia
processuale  e  di non dispersione di elementi conoscitivi formati in
procedimenti diversi).
    Sotto   tale   profilo   sembra   cogliere  nel  segno  l'ipotesi
ricostruttiva  (maturata  in dottrina) sostanzialmente volta a negare
che  l'art. 238-bis  c.p.p. rientri tra le prove documentali in senso
stretto,  nonostante  l'inserimento  della  norma  nel  capo  ad esse
dedicato;   e   cio'   sull'assorbente   (e   condivisibile)  rilievo
argomentativo che quando un documento scritto descrive un certo fatto
si  hanno  due  livelli  di  rappresentazione:  «quello del documento
rispetto  all'enunciato  descrittivo  e  quello  di  questo enunciato
rispetto al fatto descritto». Il documento, invero, avrebbe valore di
prova  documentale  quando  esso  provi  solo la sua esistenza, e non
quando  cio'  che  rilevi sia la rappresentazione in esso documentata
6); conclusione ermeneutica che applicata al documento-sentenza preso
in   considerazione   dall'   art. 238-bis   c.p.p.   autorizza   una
differenziazione   concettuale   tra  «fatti  documentati»  e  «fatti
documentali»  e  consente  di  ricollegare  la  limitata  e peculiare
efficacia probatoria della sentenza irrevocabile ai primi, essendo il
regime  probatorio  dei  secondi  gia' disciplinato, in via generale,
dagli artt. 234 7) e 236 c.p.p.
    In  altri  termini,  il  riferimento contenuto nell' art. 238-bis
c.p.p. alla «prova di fatto accertato» non puo' non essere inteso nel
senso  del  riconoscimento  di  una  capacita'  rappresentativa della
sentenza  (anche  laddove  restrittivamente  limitata  al  solo fatto
contestato  nell'imputazione e riportato nel dispositivo) rispetto ad
una  valutazione  di  un  determinato  fatto-reato  compiuta in altro
procedimento   concluso   con   decisione   irrevocabile,  e  la  sua
acquisizione  mira  ad  evitare  che il diverso organo giudicante sia
costretto  a compiere un nuovo accertamento sulla medesima ipotesi di
reato,  pur  dovendosi  escludere  - alla luce dell'espresso richiamo
degli  artt. 187 e 192 comma 3 c.p.p. - che la norma in esame finisca
per  configurare una surrettizia forma di pregiudiziale penale 8). Al
riguardo,    puo'    ritenersi    altrettanto    consolidata   (nella
giurisprudenza  della  Suprema  Corte)  9) l'affermazione secondo cui
«l'art. 238-bis c.p.p. pone una chiara limitazione al principio della
formazione  privilegiata  della  prova  in  sede  dibattimentale  nel
contraddittorio  delle  parti  interessate»  fornendo  al  giudice la
possibilita'  di  scegliere  se  «ripetere operazioni di acquisizione
probatoria  gia' complete ed esaustive [o] servirsi dell'accertamento
di fatto gia' contenuto in altra sentenza».
    Impostata  nei  predetti  termini  la  questione teorica di fondo
sottesa  alla  (autonoma,  rispetto  all'art. 238  c.p.p.) previsione
normativa  contenuta  nell'  art. 238-bis  c.p.p.  -  se  sia, cioe',
corretto  assimilare  il  fatto come ricostruito nella motivazione (o
nel  solo dispositivo) 10) di una sentenza ad una prova (per di piu',
documentale)   -,  appare  insuperabile  il  rilievo  che  l'elemento
probatorio   in   parola   non   e'  stato,  di  regola,  formato  in
contraddittorio  con  il  soggetto  nei  cui  confronti  puo'  essere
utilizzato   e   che   la   sua   acquisizione  prescinde  totalmente
dall'accertamento delle condizioni che, giusta il disposto del quinto
comma  dell'art. 111  Cost.,  consentono di derogarvi. Ed infatti, la
norma  oggetto di censura autorizza il giudice del processo ad quem a
scegliere  tra  due metodi alternativi di accertamento, uno dei quali
rappresentato,  appunto,  dalla  «diretta» acquisizione (e successiva
utilizzazione)    del    documento-sentenza    formato   in   diverso
procedimento:   alternativa   epistemologica   che   -  valutata  con
riferimento  alla  fase  acquisitiva della prova 11) ed in relazione,
altresi',  ai  principi di oralita' ed immediatezza cui indubbiamente
sembra  ispirarsi  l'attuale codice di rito - non sembra, per contro,
consentita  dal  chiaro  tenore letterale e dalla portata sistematica
del  principio  enunciato  nel quarto comma dell'art. 111 Cost. Sotto
tale  profilo,  richiamato  quanto  sopra  evidenziato  riguardo alla
peculiare  natura  di  «documento»  della  sentenza  -  e pur a voler
condividere  la  ricostruzione  teorica patrocinata da certa dottrina
secondo  cui  in relazione alle «prove precostituite» il rispetto del
contraddittorio  postula  esclusivamente  spazi  idonei  al confronto
dialettico delle parti sulla prova e non gia' la partecipazione delle
stesse   nel   momento   formativo   della   stessa   -,  non  appare
ragionevolmente  confutabile  il  rilievo  critico  nel  senso  della
oggettiva impossibilita' per le parti di confrontarsi in relazione ad
una   fonte   probatoria   che   non  fornisce  una  rappresentazione
documentata  del  fatto  oggetto  di accertamento bensi' una semplice
valutazione  dello  stesso.  «La  prova-sentenza, in quanto giudizio,
fornisce - per definizione - un apporto valutativo che e' insensibile
alla sollecitazione di eventuali contraddittori esterni».
    Ne'  tale  palese  vulnus  (ricollegabile,  non  appare superfluo
ribadirlo,  alla  stessa  possibilita' di acquisizione della sentenza
irrevocabile   intervenuta   inter   alios)   del  principio  di  cui
all'art. 111,  quarto comma, primo periodo Cost. («Il processo penale
e'  regolato dal principio del contraddittorio nella formazione della
prova.»)  -  inteso nella sua dimensione «oggettiva», quale metodo di
accertamento  giudiziale  dei fatti (cfr. Corte cost. ord. n. 440 del
2000;  ord.  n. 453  del 2002; ord. n. 137 del 2005) - puo' ritenersi
«sanato» (o comunque bilanciato) valorizzando la ratio della espressa
previsione  del  criterio di valutazione di cui all'art. 192, comma 3
c.p.p.  Al riguardo, non puo' revocarsi in dubbio (in sintonia con la
sopra richiamata consolidata opzione interpretativa sia della suprema
Corte  che  del giudice delle leggi 12) che il significato e la reale
portata  applicativa  del  citato  criterio di valutazione probatoria
vanno intesi nel senso della (mera) esclusione in capo al giudice del
procedimento  ad  quem - una volta operato positivamente il vaglio di
concreta  rilevanza,  ex  art. 187  c.p.p.,  dell'acquisizione  della
sentenza  -  di  sentirsi vincolato al risultato probatorio raggiunto
nella   sentenza   irrevocabile   pronunciata   in   altro  processo,
conservando  infatti  tale  giudice integra l'autonomia e la liberta'
delle operazioni logiche di accertamento e formulazione di giudizio a
lui  istituzionalmente  riservate (anche nel caso in cui la pronuncia
emessa  nell'altro processo abbia avuto un contenuto assolutorio). In
tale  prospettiva  argomentiva,  deve ancora evidenziarsi come alcuna
efficacia  «sanante»,  sotto  il  connesso  profilo  del rispetto del
principio  del contraddittorio in senso «soggettivo» (art. 111, terzo
comma  Cost.) possa riconoscersi al fatto che, in definitiva, nessuna
lesione  del "diritto di difendersi provando" (garantito all'imputato
dalla  citata  norma  costituzionale)  sarebbe  ricollegabile, in via
diretta,  all'applicazione  dell'  art. 238-bis  c.p.p.;  e  cio' sul
rilievo che all'imputato sarebbe in ogni caso riconosciuto il diritto
di  contestare  i  risultati probatori a lui (in ipotesi) sfavorevoli
raggiunti   nel   diverso  processo,  provando  il  contrario  ovvero
allegando  l'assenza  di  elementi  confermativi, ex art. 192 comma 3
c.p.p.
    La  scarsa  tenuta  logica  (prima  ancora che giuridica) di tale
argomentazione   emerge   evidente   sol   che   si   consideri   che
l'espletamento   della  predetta  iniziativa  processuale  probatoria
riconosciuta  all'imputato  (ma, parallelamente, anche al p.m., nelle
ipotesi   in  cui  l'acquisizione  della  sentenza  irrevocabile  sia
sollecitata  dall'imputato al fine di utilizzarne l'epilogo decisorio
ritenuto   a  lui  favorevole)  -  lungi  dal  prevenire  un  effetto
pregiudizievole rilevante sul piano probatorio nel processo ad quem e
derivante  dalla  avvenuta  acquisizione  degli accertamenti fattuali
oggetto  di  valutazione nella sentenza irrevocabile resa inter alios
-si   colloca  processualmente  (e  necessariamente)  dopo  che  tale
pregiudizio,   eziologicamente   ricollegabile  alla  violazione  del
fondamentale    principio    della    formazione   della   prova   in
contraddittorio  delle  parti  (art. 111,  quarto comma Cost.), si e'
ormai  gia'  in  concreto  verificato:  essendo,  infatti, il giudice
comunque  obbligato  a confrontarsi (sia pure con i limiti valutativi
indicati  dall'art. 192,  comma  3  c.p.p.)  con un «dato probatorio»
ritualmente  acquisito  e,  quindi,  pienamente  utilizzabile  per la
decisione 13)
    La  stretta  correlazione  tra  il  momento  acquisitivo e quello
valutativo  -  resa  evidente dal chiaro tenore letterale della norma
(«le  sentenze divenute irrevocabili possono essere acquisite ai fini
della  prova  di  fatto  in  esse  accertato  e  sono  valutate..») -
ancorche'  dotata  di  suggestiva  «autoreferenzialita' normativa», a
parere  di  questo giudice neppure puo' essere valorizzata, sul piano
ermeneutico   ed  ai  fini  del  riscontro  della  conformita'  dell'
art. 238-bis    c.p.p.    al    parametro    costituzionale   sancito
nell'art. 111,  quarto  comma  Cost.,  fino  al  punto di «indurre» e
legittimare  una (speculare) lettura "incrociata" dei due periodi del
citato quarto comma, dell'art. 111 Cost., finalizzata, in definitiva,
ad  evidenziare  la  sussistenza  di  una  sorta di bilanciamento tra
l'aspetto  «negativo» della dimensione «soggettiva» del principio del
contraddittorio   (quest'ultima  distintamente  affermata  nel  terzo
comma,  dell'art. 111  Cost., quale diretto corollario del diritto di
difesa   dell'imputato)   e   l'accezione  «oggettiva»  del  medesimo
principio:  operazione ermeneutica che non sembra trovare ragionevole
aggancio  ne'  nella lettera della norma costituzionale ne' nella sua
genesi storica.
    Ed  invero,  anche a non voler affermare che il Costituente abbia
fatto  propria  una  concezione  massimalistica  e  totalizzante  del
principio   del  contraddittorio  "genetico"  della  prova  («..nella
formazione  della  prova»),  non appare implausibile sostenere che il
quarto  comma, primo periodo, dell'art. 111 Cost. debba essere inteso
come  generale regola di «esclusione probatoria» che rinviene l'unico
limite  di  operativita'  estrinseco («costituzionalmente vincolante»
per   il   legislatore  e,  prima  ancora,  per  l'interprete)  nella
previsione  -  nel  successivo  comma 5 -  di  tassative eccezioni al
principio  stesso  (al  riguardo,  non appare casuale la «omogeneita»
semantica  delle  due  disposizioni normative: «..la formazione della
prova   non   ha  luogo  in  contraddittorio..»);  come,  del  resto,
puntualmente  recepito  dal legislatore che, dando attuazione (con la
legge  n. 63  del  2001)  alla  norma  costituzionale  in  esame,  ha
provveduto a riformulare norme-cardine del sistema processuale (v. ad
esempio, le modifiche dell'art. 500 e dell'art. 238 c.p.p.), di guisa
che   risulta   davvero  difficile  ravvisare  con  riferimento  all'
art. 238-bis  c.p.p.  (lasciato,  invece, immutato nella sua versione
originaria)  la  ragionevolezza (rectius: la persistente legittimita)
di una «inerzia normativa» rispetto ai nuovi principi costituzionali.
Restando, pur sempre, «affidato al legislatore ordinario il compito -
ad   esso   proprio  -  di  definire  l'architettura  degli  istituti
processuali  e  di  calibrarne  dinamica e struttura» 14) nel caso di
specie  adottando  eventuali  soluzioni (in astratto differenziabili)
15)  di  «adeguamento»  della  disposizione  codicistica  oggetto  di
censura  alle  «eccezioni»  al contraddittorio nella formazione della
prova  previste  dal  citato  quinto  comma dell'art. 111 Cost., allo
stato  (ed  a  fronte  del chiaro tenore letterale dell' art. 238-bis
c.p.p.)  non  raggiungibili  sul  piano  (meramente)  interpretativo:
qualsiasi  opzione  ermeneutica  - diversa  da  quella di ritenere la
sopravvenuta  illegittimita'  costituzionale tout court della norma a
seguito   dell'introduzione  nella  Costituzione  del  principio  del
contraddittorio   nella   formazione   delle   prova   -  assumerebbe
inevitabilmente  connotati  di carattere manipolativo-additivo in una
materia   riservata,   appunto,   alle   scelte   discrezionali   del
legislatore.
          1)  Quest'ultime,  peraltro, sottoposte al tassativo limite
          «soggettivo»   di  utilizzabilita'  previsto  dal  comma  5
          dell'art. 197-bis c.c.p.
          2)  Sulla reale portata applicativa del criterio valutativo
          sancito  nell'art. 197-bis,  comma  6 c.p.p.: cfr. C. cost.
          ord.  22 luglio 2004, n. 265, nella quale si evidenzia «che
          la  norma  censurata  trova  la  sua  ratio  fondante nella
          considerazione che chi e' stato imputato in un procedimento
          connesso  o  di  reato  collegato  ex  art. 371,  comma  2,
          lett. b)  c.p.p.,  anche dopo che e' divenuta definitiva la
          sentenza  ex  art. 444  c.p.p.,  non  e'  mai completamente
          «terzo»  rispetto alla imputazione cui la pena applicata si
          riferisce;  l'originario  coinvolgimento  nel  fatto lascia
          infatti  residuare  un  margine di «contiguita» rispetto al
          procedimento,  che  si  riflette  sulla  valenza probatoria
          della    dichiarazione;    che   in   questa   prospettiva,
          l'assoggettamento delle dichiarazioni del «teste assistito»
          alla regola della necessaria «corroborazione» con riscontri
          esterni,  di  cui  all'art. 192,  comma 3 c.p.p., lungi dal
          determinare  un  vulnus  del  principio  di uguaglianza, si
          risolve  in  un  esercizio  -  non  irragionevole  -  della
          discrezionalita'   che   al   legislatore   compete   nella
          conformazione degli istituti processuali: e cio' tanto piu'
          a  fronte del fatto che la regola censurata si inserisce in
          un  piu' ampio «corpo» di garanzie - quali quelle delineate
          dallo   stesso   art. 197-bis  c.p.p.  -  che,  riflettendo
          anch'esse  la particolare relazione che lega il dichiarante
          alla  regiudicanda,  fanno  in  via generale del «testimone
          assistito» una figura significativamente differenziata, sul
          piano   del   trattamento  normativo,  rispetto  al  «teste
          ordinario»,  con la importante precisazione, tuttavia, «che
          la  sussistenza  o  meno  di  un  obbligo  di  verita'  del
          dichiarante    potra'    essere   comunque   opportunamente
          valorizzata   dal   giudice,   in  sede  di  determinazione
          dell'entita'  del  riscontro  esterno  idoneo  a confermare
          l'attendibilita' della dichiarazione di cui si tratta».
          3)  Tuttavia,  avendo  prevalso  la  scelta legislativa nel
          senso   della   mancata   espressa   previsione  di  limiti
          applicativi  parametrati sulla tipologia di reati, la norma
          nella   sua   attuale   formulazione   risulta   senz'altro
          applicabile  in  procedimenti  aventi  ad oggetto qualsiasi
          reato.
          4)  Eventualmente  pronunciata  all'esito  di  procedimenti
          celebrati,  come nel caso di specie, con il rito abbreviato
          (cfr. in tale senso: Cass., sez. I, 8 agosto 2000, n. 8881,
          Malcangi ed altro).
          5)    Diversamente    opinando   sarebbe   inevitabile   la
          (inammissibile)  conclusione  nel  senso  della sostanziale
          inutilita' della previsione dell'art. 238-bis c.p.p.
          6)  Al  riguardo,  l'autorevole dottrina che si sta citando
          non   ha  mancato  di  osservare  come  «l'art. 234  c.p.p.
          consenta  l'acquisizione  di  documenti  come prova, ma non
          chiarisce quali siano di limiti li ammissibilita' ela prova
          documentale.  Benche'  la  norma  individui  come possibili
          oggetti  di prova documentale solo "fatti, persone o cose",
          escludendo  cosi  dall'elencazione  gli  "atti",  la  Corte
          costituzionale  (ord.  n. 142  del  1992)  ha sostenuto che
          l'art. 234  c.p.p.  identifica  e definisce il documento in
          ragione   della   sua  attitudine  a  rappresentare,  senza
          discriminare  tra  i diversi mezzi di rappresentazione e le
          differenti  realta'  rappresentate e, in particolare, senza
          operare  una  distinzione  tra  rappresentazione di fatti e
          rappresentazione    di    dichiarazioni».   Con   specifico
          riferimento  agli artt. 238 e 238-bis c.p.p. la stessa tesi
          dottrinaria  ha evidenziato che i dati probatori menzionati
          in   dette  norme  «sono  collocati  all'interno  del  capo
          dedicato  ai  documenti solo perche' si sono formati ftiori
          dall'ambito  processuale nel quale devono essere introdotti
          affinche'  possano acquistare rilevanza probatoria. A parte
          questo  elemento  comune, i verbali di altri procedimento e
          le sentenze irrevocabili sono del tutto eterogenei rispetto
          ai documenti in senso stretto».
          7)  In  particolare,  l'ammissibiita' dell'acquisizione, ex
          art. 234  c.p.p.,  di  sentenze anche non irrevocabili come
          «documento»  rappresentativo  degli accadimenti processuali
          («fatti  documentali»)  in  esso  descritti  (e  cioe',  ad
          esempio,  che  un  certo  imputato,  in una certa data, sia
          stato  sottoposto  a  procedimento  penale,  e  che  la sua
          posizione processuale sia stata definita in un certo modo),
          senza  che operino le regole di cui all'art. 238-bis c.p.p.
          o   i  profili  connessi  al  rispetto  del  principio  del
          contraddittorio,  risulta  pacificamente riconosciuta dalla
          giurisprudenza di legittimita' (cfr. Cass., 11 giugno 1992,
          Taurino;  Cass,  5 luglio 1999, D'Alessio; da ultimo, Cass.
          sez. un., 20 settembre 2005 n. 33748, Mannino).
          8)  Cfr.  al  riguardo:  Corte  cost., ord. 20 maggio 1996,
          n. 159  laddove  evidenzia  «..che  neppure puo' assegnarsi
          alle  modifiche  legislative  del  1992..  una capacita' di
          alterazione  di  quel  quadro  sistematico, poiche' esse si
          muovono nella direzione di un incremento delle possibilita'
          di  utilizzazione,  in  un  processo, di elementi probatori
          acquisiti  in  altro  processo,  e  dunque presuppongono la
          persistente  validita' dell'opzione di trattazione autonoma
          di  ciascuna res iudicanda, introducendo alcune varianti di
          disciplina in funzione della non-dispersione di elementi di
          prova; che, in particolare, la previsione dell'art. 238-bis
          c.p.p.,  ...... si limita a regolare il modo di valutazione
          della  pronuncia irrevocabile resa in separato giudizio, in
          una  logica  di economia nella raccolta del materiale utile
          alla  decisione che non intacca il basilare principio, gia'
          operante nel vigore dell'art. 18 del precedente codice, per
          cui   ogni   giudice   e'  tenuto  a  formarsi  il  proprio
          convincimento  in base alle prove di cui dispone e che sono
          utilizzabili,  senza  che ad una di tali prove possa essere
          attribuita  efficacia  cogente e risolutiva dell'obbligo di
          apprezzamento e motivazione da parte del giudicante».
          9) Cfr. da ultimo, Cass., sez. I, 28 maggio 2003, n. 23460,
          Rosmini.
          10)  Ma  tale  alternativa  ermeneutica,  ai  fini  che qui
          interessano, non assume concreta rilevanza.
          11)  Illuminanti  sul  punto  le osservazioni di autorevole
          dottrina  laddove  evidenzia  che  «e'  proprio nel momento
          della  costituzione  della  prova che il contraddittorio si
          mostra  essenziale perche' risponde a una triplice esigenza
          di  realta', di genuinita', di scoperta dell'errore e della
          falsita»,  e cio' sul condivisibile rilievo che «ogni forma
          di acquisizione pone un problema di contestualizzazione del
          dato  probatorio,  in  quanto  cio' che circola da una sede
          processuale  all'altra e' un dato cognitivo che rispecchia,
          essendone  la proiezione, il contesto processuale in cui si
          e' formato».
          12) Cfr. sent. n. 159 del 1996 cit.
          13)  Al riguardo, in dottrina si e' efficacemente osservato
          che  «l'ammissibilita'  o meno di una prova non puo' essere
          dedotta  dal  grado  di  attendibilita'  della  fonte  o di
          verosimiglianza  dei  risultati da essa ottenibili, poiche'
          questo   profilo  attiene  esclusivamente  al  piano  della
          critica  e  della  valutazione  della  prova», da ritenersi
          distinto   e   «cronologicamente»   successivo   a   quello
          attinente,  appunto,  alla  legittimita'  dell'acquisizione
          probatoria rilevante ai fini della decisione. In tal senso,
          «se  e'  pur  vero  che  le parti possono, in via differita
          (rispetto  alla  fase acquisitiva), intervenire sulla prova
          offerta  dalla  sentenza  irrevocabile  per  interpretarla,
          dibattendone  il  significato e il valore in relazione alle
          altre   acquisizioni   probatorie,   la   possibilita'   di
          interloquire  sul  significato probatorio di tale scrittura
          non  pare  consentire  alle  stesse  di  fornire  un  reale
          contributo  all'accertamento  dei  fatti  che  da  essa  si
          vogliono desumere».
          14) V. Corte cost., ord. n. 439 del 2000.
          15)   In  ipotesi,  parametrate  su  quanto  gia'  previsto
          dall'art. 238 c.p.p.