LA CORTE DI APPELLO

    Nel  processo  d'appello  promosso  dal  p.m.  contro la sentenza
pronunciata   dal   g.u.p.   presso  il  Tribunale  di  Pinerolo,  di
assoluzione   di   Barotto   Giuseppe,  imputato  del  reato  di  cui
all'art. 600-quater   c.p.,  a  scioglimento  della  riserva  assunta
all'udienza camerale del 14 marzo 2006, emette la seguente ordinanza.
    Va  premesso  che  il  p.m.  ebbe a interporre appello avverso la
sentenza  suindicata  di  assoluzione dell'imputato Barotto Giuseppe,
appello  la  cui  discussione  era stata fissata in data odierna; che
all'udienza   il  procuratore  generale,  a  fronte  dell'intervenuta
entrata  in  vigore della nuova normativa sull'inappellabilita' delle
sentenze  di  proscioglimento,  introdotta con la legge n. 46, del 20
febbraio  2006,  ha chiesto a questa Corte di valutare la conformita'
alle  norme  costituzionali  degli  artt. 1 e 10 in particolare della
normativa di nuova formulazione, prima di emettere, cosi' come impone
l'art. 10, ordinanza di inammissibilita' dell'appello.
    L'organo accusatorio ha in particolare sollecitato questa Corte a
valutare  la compatibilita' delle nuove disposizioni con gli artt. 3,
111,  112  della Costituzione, laddove la fortissima limitazione, per
non  dire  l'ablazione  del  diritto  del p.m. a sollecitare un nuovo
giudizio  (tra  l'altro  avanti ad organo sempre collegiale), sarebbe
lesivo sia del principio della parita' delle parti, sia del parametro
costituzionale  della  ragionevolezza.  Ha  argomentato sottolineando
come  il  nuovo  sistema  limiterebbe  il p.m. ad esercitare l'azione
penale, con scarso potere pero' di incidere nella vicenda processuale
quando  questa volga alla negazione dell'accusa, cosi' comprimendo in
modo  ingiustificato  il  ruolo  di  organo di giustizia assegnato al
p.m.,  organo  di  giustizia  che  dive  concorrere, per la sua parte
ovviamente,  alla finalita' di ricerca della verita' che e' obiettivo
primario  ed  ineludibile  del  processo  penale. Dette finalita' non
possono risultare frustrate, se non addirittura rinnegate dalla nuova
impostazione,  solo  che  si  consideri  come il p.m. si riduce ad un
simulacro,  potendo il giudice disattendere la tesi dell'accusa senza
neppure esporsi a censure, se non nel limitato caso di sopravvenienza
di  nuove  prove e a quelle del ricorso per Cassazione, mentre nessun
limite  trova  l'appello  dell'imputato  quando la sentenza sia a lui
sfavorevole.  Senza  contare  i profili di irrazionalita' palesemente
palpabili,  laddove  il  nuovo sistema riconosce al p.m. il potere di
appellare  contro le sentenze di condanna, ritenute troppo miti nelle
conseguenze  sanzionatorie.  Il nuovo sistema in sostanza consente di
reagire agli errori veniali, ma preclude la reazione agli errori piu'
gravi,  in  una  logica  di  paradosso che mal si confa' ai parametri
della ragionevolezza.
    Ma  ancora, secondo il p.g., anche l'art. 112 Cost. sarebbe stato
offeso  dalle  nuove  disposizioni  di legge, atteso che a fronte del
conclamato  principio  dell'obbligatorieta'  dell'azione  penale,  il
proporre  appello  avverso  le  sentenze ritenute ingiustificatamente
assolutorie, altro non e' che espressione dell'adempimento del dovere
di  promuovere la repressione dei reati e di vegliare sull'osservanza
delle  leggi, il che significa, una volta che il diritto di appellare
e'  precluso,  limitare  alquanto l'ambito di operativita' del dovere
costituzionalmente garantito.
    La rilevanza della questione proposta e' incontestabile in questa
esatta  fase processuale, atteso che l'art. 10 impone la declaratoria
di  inammissibilita'  dell'appello  legittimamente  proposto dal solo
p.m., sotto il previgente sistema delle impugnazioni. Ne consegue che
questa  Corte  deve  entrare  nella  valutazione  sulla non manifesta
infondatezza della questione.
    I  rilievi  del p.g. sono condivisibili in punto violazione degli
artt. 3, 111,112 Cost.
    E' sicuramente utile ripercorrere l'excursus motivazionale che la
Corte   costituzionale  ebbe  ripetutamente  a  seguire,  negli  anni
novanta,  per  risolvere  le  molteplici  questioni di illegittimita'
costituzionale  dell'art. 443  c.p.p.,  che vennero sottoposte al suo
esame,  visto che da queste motivazioni e' dato cogliere la rilevanza
e  la  portata del principio della parita' delle parti, fin dai tempi
antecedenti  alla sua esplicitazione nel secondo comma dell'art. 111,
a  seguito  della  revisione apportata con legge cost. 2/1999. Ebbene
codesta  Corte  ebbe ripetutamente a ribadire come il principio della
parita'  tra accusa e difesa non comporta necessariamente l'identita'
dei  poteri  processuali del p.m., dell'imputato e del suo difensore,
ma  che  la  diversita'  di  trattamento  rispetto a tali poteri deve
risultare  giustificata  sia  dalla peculiare posizione istituzionale
del  p.m.,  sia  dalla funzione allo stesso affidata, sia da esigenze
connesse  alla corretta amministrazione della giustizia. In sostanza,
il  diverso  trattamento  riservato  al  p.m.,  per essere conforme a
Costituzione,  deve  trovare  una  ragionevole motivazione proprio in
quella  peculiare  posizione,  o in quelle esigenze appena richiamate
(cfr. sent. Corte cost. 363 del 23 luglio 1991) . Non solo, ma ancora
veniva sottolineato, sempre da codesta Corte, come il principio della
parita'  delle  parti,  assolutamente  incontestabile quale principio
conduttore  della  filosofia  ispirante  la  struttura  del  processo
penale,  anche prima della riforma costituzionale dell'art. 111 Cost.
non  fosse vulnerato dal divieto di appellare - si badi - sentenze di
condanna  emesse  all'esito di giudizio abbreviato da parte del p.m.,
poiche'  in  casi  siffatti la sentenza di condanna segna comunque la
realizzazione  della  pretesa  punitiva  fatta  valere  nel processo,
attraverso l'azione intrapresa dal p.m.
    L'esatto  contrario  si  verifica con il nuovo assetto normativo,
dove  la  pretesa  del  p.m.,  ancorche' frustrata, deve restare tale
irrimediabilmente, senza possibilita' di adire un giudice collegiale,
di  maggiore  esperienza  e  si  presume,  in  quanto  collegiale, di
maggiore  inaccessibilita',  chiamato  ad operare la invocata revisio
prioris instantiae.
    Detto  questo,  occorre aggiungere che il principio della parita'
delle  parti  e'  stato  esplicitato  nel  1999,  con  la  previsione
nell'art. 111  Cost.  che  Ā«il processo si svolge nel contraddittorio
delle  parti,  in  condizioni  di parita', davanti a giudice terzo ed
imparzialeĀ».  Condizione  di parita' che deve essere riconosciuta non
limitata  alla  istruttoria  dibattimentale,  ma  che  non  puo'  non
riguardare  qualsiasi  fase  processuale,  in  quanto le disposizioni
contenute  nei  commi  4  e  5  del  medesimo articolo, regolano piu'
specificatamente  l'applicazione  del  principio  del contraddittorio
alle  sole fasi in cui viene assunta la prova. Orbene e' evidente che
se   da  un  lato  l'imputato,  portatore  dell'interesse  a  vedersi
riconosciuto   innocente   attraverso   gli  strumenti  della  difesa
assicurata  in ogni stato e grado del giudizio, conserva con la legge
n. 46/2006 il suo diritto ad impugnare la decisione giurisprudenziale
che  lo  vede soccombente, dall'altro il p.m., titolare della pretesa
punitiva  collegata  al principio costituzionale dell'obbligatorieta'
dell'azione  penale  (pretesa  che  consiste  nel vedere affermata la
responsabilita'  penale  di  chi,  sottoposto a regolare processo sia
riconosciuto  colpevole),  e' oggi impedito a proporre reclamo contro
decisioni  che  frustrano  la  sua  pretesa.  Dunque la differenza di
trattamento  e' fin troppo evidente. Non solo, ma nessuna ragionevole
motivazione  sembra  giustificare  - come dovrebbe - la disparita' di
trattamento.  Non  soccorrono  ragioni  di speditezza, poiche' queste
possono  essere  invocate  solo  a  fronte di una realizzazione della
pretesa  punitiva  in  punto  affermazione  di colpevolezza, non gia'
quando,  come  nel  caso  cui  si  ha  riguardo sia stata pronunciata
sentenza di assoluzione; non soccorrono ragioni di sistema, visto che
il sistema mal tollera in termini di ragionevolezza che il p.m. possa
appellare  contro una sentenza di condanna per chiedere anche solo un
leggero  aggravamento  della  pena  e  non  invece  lo possa fare per
chiedere la rivisitazione di una valutazione che ha negato fondatezza
alla pretesa punitiva. Ne' ricorrono, a giustificare la disparita' di
trattamento  tra  le  parti,  ragioni  legate  alla  funzione  o alla
posizione  del  p.m., atteso che a contrario e' difficile pensare che
nel processo, il cui fine primario ed ineludibile e' la ricerca della
verita',  il  p.m.  chiamato  a  concorrere a tale fine, possa essere
limitato  nel suo percorso a fronte di un primo censurabile verdetto.
Questa  Corte  conviene con quanto ripetutamente statuito dai giudici
costituzionali,  secondo  cui le funzioni del p.m. non sono assistite
da  garanzie  di  intensita' pari a quelle assicurate all'imputato ex
art. 24  Cost.,  ma  cio' non toglie che la configurazione dei poteri
del   p.m.   non  possa  essere  considerata  irragionevole,  laddove
risultino,  come  avviene  a seguito della recente modifica, inidonei
all'assolvimento  dei  compiti  previsti dall'art. 112 Cost. In poche
parole,  a  fronte  di  una  sentenza  assolutoria  censurabile,  per
valutazione  errata  sulla  ricostruzione dei fatti, il p.m. dovrebbe
nel nuovo sistema restare silente, cosi' eludendo il fine proprio del
processo  penale  della ricerca e dell'affermazione della verita'. La
irragionevolezza  della scelta legislativa si coglie con immediatezza
solo  che  si pensi a situazioni patologiche, peraltro ricorrenti, in
cui  il  giudice di primo grado abbia mal operato nella ricostruzione
dei  fatti, vuoi per incapacita', vuoi per scarsa terzieta', vuoi per
slealta'.  E  in  scenari  cosi'  lontani  dal  raggiungimento  della
verita',   perche'  togliere  al  p.m.  il  potere  di  chiedere  una
rivisitazione del fatto?
    La  logica  che  si dice aver ispirato detta riforma, secondo cui
l'intervenuta  pronuncia  assolutoria sarebbe tale da infondere anche
solo  un  minimo  ragionevole  dubbio,  ostativo  ad  una  successiva
affermazione  di colpevolezza, suona del tutto inconsistente a fronte
di   situazioni  di  errore,  di  insufficienza  valutativa,  se  non
addirittura  di condotta illecita da parte del giudicante, situazioni
a fronte delle quali il sistema non puo' negare rimedio.
    Dunque  la  violazione  del  principio  della parita' delle parti
operata  dalla  nuova  legislazione  e' fin troppo evidente e nessuna
ragionevole   spiegazione  e'  ravvisabile  a  fondamento.  Ne'  puo'
fondatamente  sostenersi  che  possa  fungere quale presidio per fare
fronte  alle  patologie  suindicate, la apertura disposta dal secondo
comma  dell'art. 593 c.p.p., tenuto conto della limitatissima portata
applicativa  della  stessa  (raccolta  di  nuove  prove  nei  termini
ridottissimi intercorrenti tra la pronuncia ed il deposito dei motivi
di gravame).