LA CORTE DI APPELLO

    Nel  proc.  a  carico  di  Bonora  Enrico, giudicato con sentenza
emessa  il 20 ottobre 2004 dal Tribunale di Torino, sez. Moncalieri e
in  tale  sede assolto dal reato ascrittogli per non aver commesso il
fatto.
    Preso  atto  che  avverso  tale sentenza ha presentato tempestivo
appello  il  Procuratore  della  Repubblica  di Torino, chiedendo che
l'imputato  sia dichiarato colpevole e condannato alle pene di legge,
non  richiedendo  la  riassunzione  di  prove  ex art. 603 c.p.p., ha
emesso la seguente ordinanza.
    La  Corte  si  trova a dare applicazione alla recente legge n. 46
del  20  febbraio  2006,  entrata  in  vigore  il 9 marzo 2006 che ha
modificato l'art. 593. 1, c.p.p. nel senso di precludere in ogni caso
al p.m. l'appello avverso sentenze di proscioglimento.
    La  norma  transitoria  di  cui  all'art. 10 della predetta legge
impone al giudice, innanzi al quale pende l'appello proposto dal p.m.
prima dell'entrata in vigore della novella, di emettere ordinanza non
impugnabile con la quale dichiara l'inammissibilita' dell'appello.
    Pertanto  la  normativa  in  questione  e' direttamente rilevante
nella  presente  fase  che  vede  l'imputata assolta in primo grado a
seguito  di  giudizio abbreviato e citata a giudizio innanzi a questa
Corte a seguito di appello presentato dal p.m.
    Appare  del  tutto  evidente  la non manifesta infondatezza della
normativa in questione per violazione dell'art. 111 Cost.
    La  Costituzione enuncia i principi generali cui deve conformarsi
la  normativa  che  disciplina  il  processo in Italia, stabilendo al
comma  2 dell'art. 111, che il processo si svolge nel contraddittorio
delle  parti,  in  condizioni  di parita', davanti a giudice terzo ed
imparziale e che la legge ne assicura la ragionevole durata.
    La  condizione di parita' che deve essere riconosciuta alle parti
dalla  legge  processuale  non  puo'  intendersi  limitata  alla mera
istruzione probatoria (parita' nel contraddittorio), giacche' sarebbe
allora  ridondante la previsione specifica di cui al quarto comma del
medesimo  art. 111, e deve essere dunque intesa in senso piu' ampio e
lato.
    Per  processo  la  Costituzione intende l'intero iter che conduce
dalla  domanda  iniziale  (civile)  o dalla notizia di reato (penale)
fino  alla sentenza definitiva che appunto chiude la controversia (si
veda testualmente l'art. 24.2).
    Poiche'  nel  processo agiscono parti fisiologicamente portatrici
di interessi contrapposti, l'art. 111 Cost. disciplina dunque come la
legge  ordinaria  deve  regolamentare l'attribuzione alle parti delle
facolta'  per  far valere ed eventualmente farsi vedere accogliere le
loro pretese.
    Nel  processo  penale  il p.m. esercita, fra le altre, la pretesa
punitiva    che    e'   ricollegata   al   principio   costituzionale
dell'obbligatorieta'  dell'azione  penale,  pretesa  che consiste nel
vedere  affermata  la  responsabilita'  penale  di  chi, sottoposto a
regolare processo, sia riconosciuto colpevole. Nell'esercizio di tale
pretesa  e'  stata  riconosciuta al p.m. la funzione di organo teso a
realizzare  gli  interessi  generali  della  giustizia  (sent.  Corte
costituzionale n. 280/1995).
    L'imputato   esercita   invece   la  pretesa,  costituzionalmente
garantita  dal principio di personalita' nella responsabilita' penale
e  da  quello  di  irretroattivita'  della  legge  penale, di vedersi
riconosciuto   innocente,   attraverso   gli  strumenti  -  anch'essi
rafforzati  dalla previsione della Carta - della difesa assicurata in
ogni  stato  e  grado del procedimento anche ai non abbienti, fino al
riconoscimento del diritto alla riparazione degli errori giudiziari.
    La  legge  n. 46/2006  ha  abolito  le facolta' di appello per le
parti  a fronte delle sentenze di proscioglimento emesse a seguito di
giudizio ordinario o abbreviato: cio' significa per il p.m. non poter
piu'  impugnare decisioni che lo vedono soccombente rispetto alla sua
fondamentale  pretesa  nel  processo,  cioe' quella di vedere punito,
quale   finale  conseguenza  dell'esercizio  dell'azione  penale,  il
responsabile di un reato, tale ritenuto secondo un regolare processo.
    L'imputato  con  la riforma, invece, rimane pienamente titolare -
in  virtu' del principio costituzionale del diritto alla difesa - del
potere   di  impugnare  la  decisione  giurisdizionale  che  lo  vede
soccombente   rispetto  alla  sua  pretesa  di  vedersi  riconosciuto
innocente.
    E'  evidente  che la riforma sottrae solo ad una parte (p.m.) uno
strumento  processuale  per  vedere  affermata  nel  giudizio  la sua
fondamentale  pretesa,  che trova legittimazione costituzionale cosi'
come quella dell'imputato.
    Cio'  viola  direttamente  il  principio  sancito dall'art. 111.2
Cost.  che  prevede  che  il  processo  (in  tale  dizione ricompresi
indifferentemente  quello  civile  e  quello  penale)  si  svolga  in
condizione  di  parita' di tutte le parti, cioe' in una condizione di
diritto  che assicuri a ciascun soggetto processuale eguali strumenti
per raggiungere gli obiettivi suoi propri.
    Lo  squilibrio  fra  le  parti  creato  dalla  riforma non appare
ragionevolmente  accettabile  tenendo conto dei criteri che la stessa
Corte costituzionale ha piu' volte ribadito.
    Si  e'  detto  infatti che se e' vero che non esiste una perfetta
simmetria  ed  equivalenza  costituzionale  fra esercizio dell'azione
penale  e  diritto  alla  difesa,  e'  altrettanto  vero  che sarebbe
censurabile  sotto il profilo della ragionevolezza la legge ordinaria
che,  sbilanciando  fra di loro le facolta' attribuite alle parti del
processo,   rendesse   di   fatto   il   potere   del  p.m.  inidoneo
all'assolvimento del compito che gli assegna l'art. 112 Cost.
    Con  la legge n. 46/2006, il legislatore ha di fatto sottratto al
p.m.  il  fondamentale  strumento  del  nuovo  giudizio di merito per
vedere  riconosciuta la fondatezza della sua pretesa punitiva, mentre
ha  lasciato  tale strumento alla difesa ai fini della sua pretesa di
veder riconosciuta l'innocenza dell'imputato.
    Nella nostra Costituzione non e' prevista la indispensabilita' di
un   secondo   giudizio   di   merito;  ma,  si  e'  osservato,  essa
discenderebbe   dall'art.  2  del  VII  Protocollo  addizionale  alla
Convenzione  europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo che al
suo  primo  comma sancisce il diritto di «ogni persona dichiarata rea
da  un tribunale... di far esaminare la dichiarazione di colpevolezza
o  la  condanna  da  un  tribunale  della  giurisdizione  superiore»;
peraltro  e'  quella  stessa  fonte internazionale a prevedere che un
secondo  grado  di merito sia assicurato anche all'Accusa, se e' vero
che  il secondo comma del medesimo articolo prevede esplicitamente la
condizione  di  chi  sia  stato  condannato  «a seguito di un ricorso
avverso il suo proscioglimento».
    E' pur vero che la medesima riforma restringe rispetto al passato
i  casi  di appellabilita' delle sentenze di proscioglimento da parte
dell'imputato  (nel  senso  di  escludere  oggi  l'appellabilita'  di
sentenze di proscioglimento perche' il fatto non costituisce reato, o
perche'  non  e'  punibile  o  perche' non e' procedibile), ma e' del
tutto  evidente  che  tale  restringimento  non  opera  con la stessa
ampiezza  e radicalita' utilizzate per escludere tout court il potere
d'appello del p.m. innanzi a qualunque sentenza di proscioglimento.
    E'  altrettanto  vero  che altre riforme hanno gia' nel corso del
tempo  ristretto  le  facolta' processuali del p.m. rispetto a quelle
riconosciute all'imputato e che tali riforme hanno superato il vaglio
di  costituzionalita'  della  Corte:  e' qui il caso di richiamare la
formulazione  dell'art.  443.3 c.p.p. (che esclude la possibilita' di
appello  da  parte  del p.m. della sentenza di condanna pronunciata a
seguito   di   giudizio  abbreviato  anche  dopo  l'eliminazione  del
presupposto  del  consenso  del  p.m.  al  rito ex legge n. 479/1999)
ritenuta  in  linea con la riforma costituzionale dell'art. 111 dalla
Corte costituzionale con ordinanza n. 421/2001.
    Ma  i  motivi che la Corte aveva posto a fondamento della propria
pronuncia non appaiono estensibili anche alla riforma attuale.
    Nel confermare che la Costituzione, prevedendo la parita' di p.m.
e  imputato nel processo, non intende attribuire loro necessariamente
identita'  di  poteri  processuali,  la  Corte  ha pero' ribadito che
un'eventuale  disparita'  di  trattamento  si  giustifica  e discende
ragionevolmente  dalla  peculiare  posizione istituzionale del p.m. e
dalle   esigenze   connesse   alla   corretta  amministrazione  della
giustizia,  prima  fra tutte quella costituzionalmente prevista della
ragionevole durata del processo che, proprio nel giudizio abbreviato,
trova   attuazione   nel  senso  di  semplificare  l'istruttoria  con
l'utilizzo  immediato  di  tutto il materiale probatorio raccolto dal
p.m. senza il contraddittorio cui esplicitamente l'imputato rinuncia.
Ed  e'  allora proprio la rinuncia da parte dell'imputato ad un altro
dei  principi  cardine  del giusto processo (il contraddittorio nella
raccolta  delle  prove)  a giustificare l'asimmetria che l'art. 443.3
c.p.p.  produce  nel  sottrarre  al  p.m. la facolta' di appellare la
sentenza di condanna a seguito di abbreviato.
    Alle  considerazioni gia' svolte dalla Corte puo' aggiungersi poi
la  constatazione che il restringimento delle facolta' di appello per
il  p.m.  in  caso  di  abbreviato  aveva pur sempre come presupposto
l'avvenuta  pronuncia  di  una  sentenza di condanna, che comunque e'
realizzazione del principio dell'obbligatorieta' dell'azione penale.
    Totalmente  differente e' la situazione di diritto in cui si cala
la riforma di cui alla legge n. 46/2006.
    Innanzi  tutto  qui  al  p.m.  e'  sottratta  la  possibilita' di
appellare contro sentenze di proscioglimento dell'imputato, decisioni
che costituiscono la radicale negazione della pretesa punitiva da lui
impersonata per conto dello Stato. Nell'ipotesi di cui all'art. 443.3
c.p.p.,  egli  si  era  invece  solo visto frustrare nella pretesa di
vedere  accolta  la  sua  richiesta  di quantificazione della pena da
comminare  al  reo,  che non e' pretesa di rango costituzionale e che
dunque  puo'  ben  soccombere  innanzi all'esigenza costituzionale di
brevita' del processo.
    In  secondo luogo la riforma si applica indifferentemente a tutti
i tipi di giudizio (abbreviato o ordinario che siano e persino contro
le  sentenze  emesse  ex  art.  428  c.p.p.,  laddove  il  patrimonio
probatorio  valutabile non e' neppure definitivamente stabilizzato ed
e' solo prospetticamente valutato).
    Non  vi e' alcuna giustificazione della nuova asimmetria, dunque,
riconnessa   a  istituti  deflattivi  in  cui  rinunce  dell'imputato
comportino il risultato apprezzabile della definizione piu' sollecita
del processo.
    E' anche vero che una parte della dottrina processual-penalistica
ha  da  tempo  auspicato  il  superamento  del  principio di perfetta
parita'   delle   parti   nel   processo,  riconoscendo  all'imputato
condannato  in primo grado sempre il diritto a veder la sua posizione
rivalutata  da un tribunale di seconda istanza e ritenendo invece che
la  pretesa  punitiva  dello  Stato,  esercitata con l'azione penale,
possa  arrestarsi  davanti  alla sentenza di primo grado; lo ha fatto
sottolineando  come  la  sentenza  di  primo grado sia ordinariamente
frutto  della  diretta  raccolta  da parte del giudice delle prove in
contraddittorio  mentre  quella d'appello e' il risultato di una mera
verifica critica degli atti gia' raccolti e tenendo anche in conto il
nuovo  precetto costituzionale della ragionevole durata del processo.
Tale   orientamento  troverebbe  giustificazione  nel  diverso  ruolo
esercitato nel processo dal pubblico ministero (parte pubblica dotata
di  potere)  rispetto  all'imputato  (soggetto privato che subisce il
processo),   secondo   quella  stessa  sottolineatura  che  la  Corte
costituzionale aveva fatto nella sua ordinanza n. 421/2001 citata.
    Senonche'  tale  auspicata  riforma  non  pare  trovare copertura
costituzionale      nell'attuale     formulazione     dell'art. 111.2
Costituzione:  non  vi  e'  dubbio,  infatti,  che qui il legislatore
costituzionale  abbia ricompreso nella dizione di parti del processo,
cui va riconosciuta in generale condizione di parita', anche il p.m.,
organo  cui  spetta  fisiologicamente  nel processo penale l'onere di
provare  il  thema decidendum; aver contestualmente previsto da parte
dello  stesso  legislatore costituzionale, nei commi 3 e 4, una serie
di   regole   di   garanzia   riguardanti   unicamente  la  posizione
dell'imputato (ragionevole durata del processo, informativa sollecita
delle  indagini,  effettivo esercizio del diritto di difesa che trova
oggi   attuazione   anche   nel   potere   di   indagine   difensiva,
inutilizzabilita'  di accuse non confermate nel contraddittorio) pare
dare  gia'  risposta  adeguata,  nel presente assetto costituzionale,
alle allegate esigenze di riequilibrio fra i diversi poteri posseduti
nel processo da p.m. e imputato.
    Altro  argomento  che rafforza il convincimento della Corte circa
l'incostituzionalita' della nuova disciplina sta nella ingiustificata
disparita'  di  trattamento  che penalizzerebbe il p.m. nei confronti
della parte civile impedendogli il mezzo di impugnazione dell'appello
quando  invece  questo  e'  conservato  dalla  novella  per  la parte
privata:  la  riforma,  al  suo art. 6, ha soppresso l'inciso «con il
mezzo  previsto  per  il pubblico ministero» gia' contenuto nel testo
dell'art.  576  c.p.p., e cio' non esclude la parte civile dal potere
di  appello,  se e' vero che la stessa riforma non modifica l'art. 75
c.p.p.  che stabilisce il principio del trasferimento dell'azione dal
processo  civile  a  quello  penale  (conservando dunque gli istituti
processuali  civilistici  fra  cui  appunto l'appello) e non modifica
neppure  l'art.  600  c.p.p.  che  consente  alla parte civile di far
valere  davanti  alla  Corte d'appello un subprocedimento che e' mera
anticipazione del giudizio di merito.
    D'altra  parte  la  riforma,  sopprimendo  l'inciso «con il mezzo
previsto  per  il pubblico ministero» ha inteso cosi' rispondere alla
osservazione  critica  formulata  dal Presidente della Repubblica nel
suo  rinvio  alle Camere del testo originario; e dunque va senz'altro
riconosciuto  che  il  Legislatore abbia inteso conservare alla parte
civile il potere di impugnare nel merito le sentenze di primo grado.
    Dunque: secondo la riforma, l'organo privato d'accusa si vedrebbe
riconoscere   poteri  di  impugnazione  maggiori  rispetto  a  quelli
assegnati    all'organo   pubblico   di   accusa.   Cio'   lede   per
irragionevolezza  il  criterio  di  parita'  delle parti nel processo
giacche'   non   e'   dato   comprendere  perche'  dovrebbero  essere
maggiormente  garantiti  i  diritti  al risarcimento dei danni di una
parte   privata   rispetto   a  quelli  vantati  dalla  collettivita'
attraverso la pretesa punitiva dello Stato.
    Infine,   e'  stato  detto  che  la  medesima  legge  n. 46/2006,
modificando la formula di condanna con l'introduzione del presupposto
del  non  travalicamento  del  ragionevole  dubbio,  avrebbe di fatto
spostato  la  prospettiva  di azione costituzionale del p.m. il quale
oggi,  in  base  al  principio di non colpevolezza dell'imputato fino
alla  sentenza definitiva di condanna, dovrebbe prendere atto che una
sentenza  di proscioglimento pronunciata in primo grado e' di per se'
rappresentativa  di  quel  ragionevole  dubbio  che  ne  impedisce un
ribaltamento in forma di condanna.
    La  Corte non condivide tale impostazione: la stessa Costituzione
all'art.  111  stabilisce  che  tutti  i  provvedimenti devono essere
motivati,  e  in  cio'  il  nostro sistema processuale si differenzia
nettamente da quello anglosassone. Cio' comporta che la portata delle
decisioni   giurisdizionali   non   possa  essere  limitata  al  mero
dispositivo,  ma  che  esso  valga  in  quanto supportato da adeguata
motivazione.  Sicche'  il  significato  del  concetto  di ragionevole
dubbio  non puo' discendere automaticamente dal semplice dictum della
sentenza  di  primo  grado  ma  deve  necessariamente  articolarsi  e
confrontarsi  con  l'apparato  argomentativo  che  a sorregge. Il che
significa  proprio riconoscere piena ed attuale dignita' alla pretesa
del  p.m.  di  vedere  quell'apparato  argomentativo sottoposto ad un
nuovo   esame  di  merito  da  parte  di  un  giudice  superiore.  La
presunzione  di non colpevolezza dell'imputato e' infine concetto che
non  confligge  affatto  con tale impostazione giacche' la pretesa di
essere  ritenuto  innocente  fino  a giudicato non sottrae di per se'
alla  verifica  circa  la  condivisibilita'  o  meno  della decisione
assunta dal giudice di primo grado.