Ha  pronunciato la seguente ordinanza nel processo n. 9041/2005 a
carico   di   Turetta  Giancarlo,  appellanti  il  Procuratore  della
Repubblica  di  Roma e la Parte Civile Ropssi Maria Carmen avverso la
sentenza  di  assoluzione  perche'  il  fatto non sussiste emessa dal
Tribunale di Roma del 18 aprile 2005;
    Preso  atto  dell'eccezione  d'incostituzionalita',  proposta dal
procuratore generale, dell'art. 593 c.p.p. cosi' come novellato dalla
legge  n. 46/2006  e  dell'art. 10,  comma  2  predetta  novella  per
contrasto  con  gli  articoli  3,  111, 112 della Costituzione, nella
parte  in cui esclude contro le sentenze di proscioglimento l'appello
del p.m. nonche' l'appello della Parte Civile, ove in tal senso debba
essere  interpretata la novella sopra indicata, contro le sentenze di
proscioglimento;
    Sentite  la  difesa  della Parte Civile, che si e' associata alle
conclusioni  del p.g. e quella dell'appellato, che si e' rimessa alla
decisione della corte;

                            O s s e r v a

    Ai  sensi  del  dettato del combinato disposto dagli artt. 1 e 10
della    legge   20   febbraio   2006   n. 46   andrebbe   dichiarata
l'inammissibilita'    dell'appello    proposto   dal   p.g.   avverso
l'assoluzione in primo grado dell'imputato.
    Questa  Corte  ritiene  peraltro  che la suindicata normativa sia
sospetta  di  incostituzionalita'  perche'  contrastante  col dettato
degli artt. 111, secondo commm, e 3 della Costituzione.
    Quanto  all'art. 111, secondo comma, Costituzione il contrasto e'
apprezzabile  sotto un duplice profilo: da un lato in quanto la nuova
normativa  viene a violare il principio della parita' delle parti nel
contraddittorio,  sancito  dalla  prima  parte  del  secondo comma, e
d'altro  lato  in  quanto  viene  a contrastare con l'altro principio
della  ragionevole  durata  del processo, fissato nella seconda parte
del predetto comma.
    Non   e'   in   questione   la   facolta'   del   legislatore  di
«salvaguardare»,  sotto  il  profilo  appunto dell'intangibilita' del
giudizio  in  fatto,  la  pronuncia assolutoria emessa dal giudice di
prime  cure  (non  essendo prevista dalla nostra Carta costituzionale
l'obbligatorieta'  del  «doppio grado di giurisdizionale»), ma appare
contrastare coi principi del giusto processo (che implicano che tutte
le  parti  possano portare avanti la loro azione con eguali mezzi) la
formulazione dell'art. 593 c.p.p. novellato, che inibendo sia al p.m.
che   all'imputato   di  proporre  appello  avverso  le  sentenze  di
proscioglimento,  se  viene  ad incidere solo su elementi marginali e
comunque  non  essenziali dell'azione difensiva (nei limiti nei quali
l'imputato  non  puo' appellare avverso sentenze di prescrizione o di
assoluzione  nel  merito con formule diverse dal fatto non sussiste o
non   aver   commesso   il   fatto)   condiziona  invece  l'esercizio
dell'attivita'  principale  dell'organo di accusa pubblica laddove lo
stesso  non  solo,  al  pari  dell'imputato,  non puo' piu' appellare
avverso  le  sentenze  di  prescrizione  o di assoluzione con formula
diversa  da quella da lui sollecitata, ma altresi' e' impossibilitato
ad  ottenere  un  nuovo  giudizio  di fatto avverso l'assoluzione nel
merito,   giudizio   di   fatto   invece  riconosciuto  dalla  difesa
nell'ipotesi speculare di condanna dell'imputato.
    Questa  corte  non  condivide  la  tesi, sostenuta da parte della
dottrina, secondo la quale il dettato del secondo comma dell'art. 111
della  Carta  costituzionale  farebbe riferimento solo al processo di
primo  grado, assicurando la parita' delle parti nella formazione, in
contraddittorio  della prova; e cio' non soltanto in quanto anche nel
giudizio  d'appello  e' possibile la formazione della prova, nei casi
di  rinnovo,  totale  o  parziale, dell'istruzione dibattimentale, ma
anche poiche' il dettato del secondo comma dell'art 111 non autorizza
siffatta interpretazione «riduttiva»; da un lato, infatti, il cennato
comma  parla  di  «ogni  processo» e non soltanto del dibattimento di
primo  grado  e  d'altro lato la parita' del contraddittorio implica,
concettualmente,  anche la possibilita' di poter impugnare con eguali
mezzi   (appunto  contraddicendole)  le  decisioni  sfavorevoli  alla
propria   parte   e   favorevoli  all'altra.  E  se  puo'  senz'altro
condividersi   la  tesi  dottrinale  secondo  la  quale  la  facolta'
d'appello  da  parte  del  p.m. non costituisce esercizio dell'azione
penale  e,  quindi,  non  e',  in  se  stessa  attinente al principio
costituzionale  dell'obbligatorieta'  dell'azione  penale,  non  puo'
neanche  affermarsi  che, al contrario, il riconoscimento alla «sola»
difesa  della  possibilita'  di  appellare pronunzie nel merito a lei
sfavorevoli sia un corollario del diritto di difesa sancito dall'art.
24  della Costituzione, poiche', per quanto esposto in precedenza, la
nostra  Carta  costituzionale  non  garantisce  il  doppio  grado  di
giurisdizione».
    E'  si vero che sono compatibili con l'ordinamento costituzionale
come  sostenuto  in  pregresse  pronunce  della  Corte costituzionale
(antecedenti   comunque   la   novella   costituzionale  sul  «giusto
processo»)  talune  limitazioni  dei  poteri d'impugnazione del p.m.,
quali  si  rinvengono,  in  particolare,  nella  disciplina  del rito
abbreviato,  ma,  a  parte il rilievo che detta disciplina, nella sua
formulazione   precedente  alla  novella  n. 46/2006,  non  intaccava
comunque  il  fondamentale  potere  del  p.m. di appellare avverso le
sentenze  di  proscioglimento,  va osservato che siffatte limitazioni
trovano  una  giustificazione  razionale nell'esigenza di compensare,
con  una  riduzione  dei  poteri  d'impugnazione, il vantaggio che in
detto  rito  alla parte pubblica derivava dalla piena utilizzabilita'
degli  atti  d'indagine;  giustificazione  razionale che appare arduo
individuare  nel  divieto generalizzato per il p.m., quale che sia il
rito adottato, di appellare le sentenze di proscioglimento nel merito
ne'  alla  prospettata  violazione  della  parita' delle parti, quale
sancita   dall'art. 111,  secondo  comma,  Costituzione,  puo'  porre
rimedio   la   facolta',  riconosciuta  al  p.m.  dal  secondo  comma
dell'art. 593  c.p.p. novellato, di proporre appello nelle ipotesi ex
art. 603  comma  2,  se  la nuova prova e' decisiva; infatti, anche a
prescindere da ulteriori sospetti di costituzionalita' che potrebbero
muoversi,  in via subordinata a tale previsione, (laddove in sostanza
ancora  la  durata  dei  «tempi»  in  cui  ricercare  la  nuova prova
all'arbitrio  del giudice di primo grado nella fissazione dei termini
di  deposito della sentenza di primo grado e nel rispetto di essi) e'
agevole  replicare che trattasi di ipotesi marginale che non intacca,
nella  sostanza,  la possibilita' del p.m. di ottenere, al pari della
difesa, una nuova valutazione in fatto su una pronuncia nel merito.
    Sotto   altro   profilo  l'abolizione  dell'appellabilita'  delle
sentenze  di  proscioglimento nel merito da parte del p.m., lungi dal
favorire  la durata ragionevole del processo, ne determina un abnorme
allungamento  dei  tempi  di  svolgimento  in contrasto col principio
costituzionale;  e'  di  tutta  evidenza,  infatti,  che  nel diritto
previgente,  ove  la doglianza del p.m. fosse fondata potevano essere
sufficienti  tre gradi di giudizio per definire il processo (sentenza
d'assoluzione  in  primo  grado, sentenza di condanna, su appello del
p.m., in secondo grado, rigetto da parte della Cassazione del ricorso
dell'imputato  avverso  la  sentenza  d'appello),  mentre  col  nuovo
sistema  normativo  saranno  necessari  non  meno  di cinque gradi di
giudizio  (sentenza  d'assoluzione  in  primo  grado, annullamento da
parte  della  Cassazione  sul  ricorso  del  p.m. con rinvio al primo
grado,  sentenza di condanna del giudice di rinvio, conferma condanna
da  parte  del  giudice  di  secondo  grado su appello dell'imputato,
definitivo    rigetto   della   Cassazione   del   ricorso   proposto
dall'appellante).
    Quanto,   infine,   all'   art. 3   della   Costituzione,  appare
contrastare  col  principio di ragionevolezza tutelato da detta norma
la  possibilita' ancora riconosciuta al p.m. di appellare la sentenza
di  condanna  (che  implica  l'assurdo  - cfr. raffronto anche con la
normativa  dell'art. 443  c.p.p.  anche  novellato  -  che il p.m., a
fronte  a  esempio,  di  una  imputazione di omicidio, possa proporre
appello se l'imputato sia condannato per eccesso colposo in legittima
difesa  ma  non  possa  appellare  se  la stessa persona sia, invece,
assolta per legittima difesa).
    Ritiene  la Corte che, ai sensi della vigente normativa, andrebbe
dichiarata  l'inammissibiita' anche dell'appello proposto dalla parte
civile,  ai  sensi  degli  articoli  591  e  592 c.p.p., in quanto la
modifica  dell'art. 576,  primo  comma,  c.p.p., laddove ha eliminato
l'inciso  «con  il  mezzo  previsto  per  il  pubblico ministero», ha
eliminato  per  la  parte  civile  medesima qualsiasi possibilita' di
appellare   avverso   le  sentenze  di  primo  grado  siano  esse  di
assoluzione  siano  esse  di  condanna;  poiche', infatti, nel nostro
sistema processuale vige il principio della tassativita' dei mezzi di
impugnazione,  deve  prendersi  atto  che  l'art. 593  c.p.p.,  anche
nell'attuale   formulazione,   prevede  la  possibilita'  di  appello
soltanto  per  il pubblico ministero e per l'imputato, essendo venuto
meno  con  la caducazione dell'inciso sopra indicato, il collegamento
fra la facolta' generale di impugnazione prevista per la parte civile
dall'art. 576 c.p.p. e l'art. 593 c.p.p.; puo' anche ritenersi che si
tratti  di  un  errore  di  tecnica  legislativa  e  che  altra fosse
l'intenzione  del  legislatore, ma, ad avviso di questa corte, a tale
difetto di tecnica non puo' ovviarsi in via interpretativa.
    Ne  consegue  che  non  appare  manifestamente infondata anche la
questione  di costituzionalita' del combinato disposto dell'art. 576,
primo  comma,  e  593  c.p.p., per violazione degli artt. 3, 24 e 111
della  Carta costituzionale, nella parte in cui precludono alla parte
civile  la  possibilita'  di  proporre,  comunque, appello avverso le
sentenze emesse in primo grado.
    Alla luce delle suesposte considerazioni ritiene questa corte non
manifestamente  infondata, e rilevante ai fini del presente processo,
la  questione  di  costituzionalita'  del  combinato  disposto  dagli
artt. 1  e  10  legge  20  febbraio  2006,  n. 46  nella parte in cui
precludono  al  p.m.  la  possibilita'  di  appellare  nel  merito le
sentenze  di  proscioglimento  e,  nell'ipotesi di processi d'appello
gia'   pendenti   impongono   alla   Corte  d'appello  di  dichiarare
l'inammissibilita'  del  predetto  gravame  nonche'  la  questione di
costituzionalita'  del combinato disposto dell'art. 576, primo comma,
e  593  c.p.p.,  per  violazione  degli artt. 3, 24 e 111 della Carta
costituzionale,  nella  parte  in cui precludono alla parte civile la
possibilita'  di  proporre,  comunque,  appello  avverso  le sentenze
emesse  in primo grado e, per l'effetto, di dichiarare inammissibile,
ai sensi dell'art. 591 c.p.p., l'appello proposto dalla parte civile.