IL TRIBUNALE Nel processo nei confronti di Diaconu Valentin, nato in Romania, a Caras Severin, il 29 giugno 1980, ha emesso la seguente ordinanza. 1. - In data 24 febbraio 2006 Diaconu Valentin all'esito di un controllo da parte di personale appartenente al Comando Provinciale di Trieste, risultava inottemperante all'ordine del Questore di Gorizia, notificatogli il 30 ottobre 2004 che gli imponeva di lasciare il territorio nazionale entro i successivi cinque giorni. Il predetto veniva quindi tratto in arresto in base al disposto dell'art. 14, comma 5-quinques, d.lgs. n. 286/1998 ed indagato in ordine al reato di cui all'art. 14, comma 5-ter stesso d.lgs. All'udienza del 27 febbraio 2006 veniva convalidato l'arresto del Diaconu e rimesso in liberta' il medesimo, che chiedeva termine ex art. 558, comma 7, c.p.p. per il giudizio direttissimo. Alla successiva udienza odierna, assente l'imputato, dichiarato aperto il dibattimento, il p.m. ed il difensore chiedevano l'acquisizione, ai fini della piena utilizzabilita', degli atti del fascicolo delle indagini preliminari, oltre che di quanto gia' acquisito all'udienza di convalida, senza formulare alcuna richiesta istruttoria orale. Senza l'espletamento di alcun incombente testimoniale, quindi, le parti concludevano come in epigrafe. Orbene, alla luce della richiesta di pena formulata dal rappresentante dell'accusa, conformemente, peraltro, alle attuali previsioni normative attinenti al reato per cui si procede, si impone, preliminarmente, la valutazione dovuta in ordine alla conformita' alla carta costituzionale delle previsioni edittali stabilite per il reato in esame, peraltro nei limiti in cui tale valutazione e' consentita dall'art. 1 della legge costituzionale 9 febbrao 1948, n. 1 e dall'art. 23, comma 3 della legge 11 marzo 1953, n. 87. In relazione ad identica fattispecie, tra gli altri, anche il Tribunale di Trieste, in altra composizione monocratica, ha proposto questione di legittimita' costituzionale, il cui contenuto questo tribunale condivide appieno e che qui si riporta, facendolo proprio; 2. - Il testo originario dell'art. 14 non prevedeva alcuna sanzione penale per lo straniero che non avesse ottemperato all'ordine emesso dal questore in esecuzione del decreto di espulsione del Prefetto. La fattispecie penale di cui trattasi e' stata introdotta dalla legge n. 189/2002, come reato contravvenzionale punibile con l'arresto da sei mesio a un anno prevedendo per tale reato l'arresto obbligatorio; Con la sentenza n. 223 del 15 luglio 2004 la Corte costituzionale ha dichiarato l'illeggitimita' costituzionale dell'art. 14, comma 5-quinquies per contrasto con l'artt. 3 e 13 Cost. «nella parte in cui stabilisce che per il reato previsto dal comma 5-ter del medesimo art. 14 e' abbrogato l'arresto dell'autore del fatto», per la manifesta irragionevolezza della previsione di misura precautelare non suscettibile di sfociare in alcuna misura cautelare in base al vigente ordinamento processuale; E' quindi intervenuto il d.l. 14 settembre 2004, n. 241, che modificava per la fattispecie in esame la pena prevista dalla legge 189/2002, ma riformulava il testo dell'art. 14, comma 5-quinquies limitando l'arresto obbigatorio all'ipotesi di cui al comma 5-quater (reingresso nel territorio dello Stato dello straniero espulso), gia' prevista come delitto punibile con la reclusione da uno a quattro anni; In sede di conversione del d.l. citato il reato di cui all'art. 14, comma 5-ter veniva previsto come delitto punibile con la reclusione da uno a quattro anni (ad eccezione dell'ipotesi di espulsione motivata dall'essere scaduto il permesso di soggiorno, ipotesi per la quale veniva mantenuta la pena dell'arresto da sei mesi a un anno); veniva nuovamente stabilito l'arresto obbligatorio. 3. - E' dunque intervenuto un notevole inasprimento della pena, della cui proporzionalita' e ragionevolezza si dubita. Deve essere qui richiamato il criterio costantemente adottato dalla Carte costituzionale, che, pur riservando alla «discrezionalita' del legislatore stabilire quali comportamenti debbano essere puniti, determinare quali debbano essere la qualita' e la misura della pena ed apprezzare parita' e disparita' di situazioni», ha pero' affermto che «l'esercizio di tale discrezionalita' puo' essere censurato quando esso non rispetti il limite della ragionevolezza e dia quindi luogo ad una disparita' di trattamento palese e ingiustificata» (sentenza 25 del 1994; il principio e' richiamato anche nella sentenza 333 del 1992, nell'ordinanza 220 del 1996, nella sentenza 84 del 1997). Ancora, e' stato chiarito (sentenza 409 del 1989) «che il principio di uguaglianza, di cui all'art. 3, primo comma, Cost. esige che la pena sia proporzionata al disvalore del fatto illecito commesso, in modo che il sistema sanzionatorio adempia nel contempo alla funzione di difesa sociale ed a quella di tutela delle posizioni individuali». Tale funzione non verrebbe adempiuta qualora non venisse rispettato il limite della ragionevolezza. A cio' si aggiunge (sempre nella sentenza citata) che il principio di proporzionalita' porta a negare legittimita' alle «incriminazioni che, anche se presumibilmente idonee a raggiungere finalita' statuali di prevenzione, producono, attraverso la pena, danni all'individuo (ai suoi diritti fondamentali) ed alla societa' sproporzionatamente maggiori dei vantaggi ottenuti (o da ottenere) da quest'ultima con la tutela dei beni e dei valori offesi dalle predette incriminazioni». Questo principio e' ora recepito anche dalla Costituzione europea («le pene inflitte non devono essere sproporzionate rispetto al reato», art. II-109). Inoltre, la Corte ha ripetutamente affermato (sentenza 313 del 1995 e 343 del 1993) che la manifesta mancanza di proporzionalita' rispetto ai fatti reato vanifica il fine rieducativo della pena sancito dell'art. 27, comma 3 Cost. 4. - In primo luogo, poiche' il dubbio di costituzionalita' riguarda un inasprimento della pena, non puo' omettersi di ricordare quanto affermato dalla Corte costituzionale su un'eccezione concernente l'elevazione nel 1991 del minimo edittale per il reato di cui all'art. 629 c.p. Nel dichiarare manifestamente infondata l'eccezione, la Corte (ordinanza 368 del 1995) ritenne rispettato il limite della ragionevolezza rilevando che l'inasprimento in quel caso non dava luogo «a macroscopiche differenze rispetto al trattamento sanzionatorio previsto per il reato di rapina - fattispecie peraltro non del tutto assimilabile a quella della estorsione». La questione oggi in esame e' totalmente diversa per due ordini di ragioni. Innanzitutto, l'inasprimento e', in questo caso, certamente macroscopico, il massimo edittale della pena detentiva in precedenza prevista per lo stesso fatto, qualificato come contravvenzione, corrisponde ora al minimo edittale previsto per il delitto. In secondo luogo, l'aumento di pena per il delitto di estorsione, come rileva tra le righe la Corte con il riferimento alla «difficile individuazione in concreto dell'aggravante di far parte dell'associazione di tipo mafioso», costituitiva la risposta al fenomeno del «pizzo» emerso con particolare gravita' in alcune regioni nel corso degli anni ottanta e, quindi, a decenni di distanza (e quindi in un contesto sociale certamente diverso) da quando vennero scritte le sanzioni per la rapina e l'estorsione. Una simile ragione non e' invece dato rinvenire per l'inasprimento di pena per lo straniero che non ottempera all'ordine del questore. Nei soli due anni che intercorrono tra legge 189 e la legge 271, il fenomeno dell'immigrazione clandestina (per contrastare il quale vennero scritte le norme della legge 189 del 2002) non ha subito variazioni tali da giustificare la conversione in delitto dell'inottemperanza dello straniero all'ordine di allontanamento del questore e l'elevazione macroscopica di pena introdotta in sede di conversione in legge del d.l. n. 241/2002. Ne' una tale giustificazione si rinviene nella relazione all'emendamento del d.l. n. 241/2004 che ha introdotto una sanzione cosi' elevata, posto che i relatori fanno riferimento soltanto alla necessita' di adeguarsi alla sentenza 223 del 2004 della Corte costituzionale, intendendo tale adeguamento come un inasprimento della pena, cosi' da consentire l'arresto obbligatorio per coloro che non ottemperino all'ordine del questore. Che questo fosse l'unico fine per il quale e' stata elevata in misura cosi' rilevante la sanzione e' confermato dall'essere la stessa pena prevista per il fatto di chi rientra nel territorio nazionale dopo un'espulsione disposta dal giudice (fatto evidentemente ben piu' grave, in quanto presuppone la commissione di un reato o quantomeno la pendenza di un procedimento penale). E' evidente che la trasposizione di un'esigenza processuale nel diritto penale sostanziale non integra il criterio della ragionevolezza e si pone in contrasto con i principi costituzionali posti dagli artt. 3 e 27, comma 3 Cost. Per valutare se l'inasprimento di pena introdotta dalla legge n. 271/2004 sia compatibile con l'art. 3 Cost. si deve poi fare riferimento a norme incriminatrici poste a tutela degli stessi interessi (individuati nell'ordine pubblico e nella sicurezza pubblica) con previsione di analoghe modalita' di condotta. Tale comparazione e' stata effettuata dalla Corte costituzionale al fine di valutare la proporzionalita' e la ragionevolezza della pena prevista per il rato di cui all'art. 8, comma 2, legge 772/1972 (sentenza 409 del 1989) e della pena prevista per il reato di cui all'ar. 341 c.p. (sentenza 341 del 1994). In questo caso, deve essere preso in considerazione l'art. 650 c.p. che punisce con l'arresto fino a tre mesi o con la sola ammenda l'inottemperanza ad un provvedimento legalmente dato dall'autorita' per ragioni di sucurezza pubblica o d'ordine pubblico. Ancora, sempre alla tutela dell'ordine pubblico e della pubblica sicurezza e' ispirata la fattispecie di cui all'art. 2 della legge n. 1423/1956. Anche qui vi e' un ordine della pubblica autorita' (il questore, come nella fattispecie di cui all'art 14, comma 4-ter), concernente persone ritenute «pericolose per la sicurezza pubblica» (si osserva che si tratta non di una pericolosita' «potenziale», quale e' quella dello straniero clandestino, ma di una pericolosita concreta) e anche qui l'inottemperanza configura una contravvenzione, per la quale e' previsto l'arresto da uno a sei mesi. Marginalmente si osserva che completamente diversa e' la fattispecie del delitto previsto dall'art. 9 della legge citata. Si tratta della violazione da parte del sorvegliato speciale dell'obbligo o del divieto di soggiorno impostogli dal tribunale e, sebbene gli interessi tutelati dalla norma siano ancora quelli della sicurezza pubblica e dell'ordine pubblico, non soltanto vi e' una valutazione in concreto della pericolosita' sociale (effettuata dal tribunale e non dall'autorita' amministrativa), ma soprattutto e' prevista una condotta attiva dell'autore, consistente nella violazione di un obbligo o di un divieto (anche questo imposto dal tribunale) al quale e' gia' stata data esecuzione a cura del questore (art. 7, legge cit.) e quindi nell'allontanamento dal luogo di soggiorno obbligato ovvero nel ritorno nel territorio per il quale sussiste il divieto. L'ipotesi in questione porterebbe quindi costituire parametro di riferimento per il delitto previsto dall'art 14, comma 5-quater del d.lgs. n. 286/1998 (reingresso dello straniero espulso nel territorio dello Stato), ma non per la norma oggetto della presente questione, norma che sanziona la mera inosservanza di un ordine dell'autorita' di polizia. Coerentemente con le sanzioni dettate per analoghe violazioni il legislatore del 2002 aveva previsto come contravvenzione l'ipotesi di cui all'art. 14, comma 5-ter, potendo a maggiore pena (da sei mesi a un anno di arresto) dettata per lo straniero (inottemperante, ma non necessariamente pericoloso) trovare giustificazione nell'esigenza di contrastare il fenomeno dell'immigrazione clandestina, inesistente all'epoca della redazione del codice penale e della legge n. 1423/1956. Sussiste invece una rilevante sproporzione tra la pena ora prevista per la stessa ipotesi, configurata conte delitto e le sanzioni penali dettate per le contravvenzioni (ad essa analoghe) di cui agli artt. 650 c.p. e 2, legge n. 1423/1956. L'irragionevolezza sussiste dunque sotto un duplice profilo e cioe' sia con riferimento alla pena che il legislatore solo due anni prima aveva ritenuto congrua per l'ipotesi in esame, sia con riferimento alle pene previste per onaloghe fattispecie. Come si e' visto la Corte ha ripetutamente affermato che l'art. 3 Cost. impone che il bilanciamento tra gli interessi da tutelare e il bene della liberta' personale (che, se si tratta di straniero, non e' per questo di rango inferiore a quello del cittadino) venga effettuata con riferimento alle sanzioni previste per condotte analoghe, che minacciano gli stessi interessi e che solo quando la sanzione penale vine stabilita con la necessaria proporzionalita' la pena puo' avere la funzione rieducativa di cui all'art. 27, comma 3 Cost. Fermo restando che non si intende anticipare in questa sede la valutazione in ordine alla responsabilita' dell'imputato (ovvero in ordine alla congruita' della specifica pena concordata dalle parti), va notato che il presente giudizio non puo' venire definito indipendentemente dalla risoluzione della questione sopra evidenziata, apparendo che - in caso di condanna - necessariamente dovrebbe farsi riferimento alla vigente previsione edittale. Per le ragioni sopra indicate, questo giudice ritiene non manifestamente infondata l'esposta questione di legittimita' costituzionale. Il processo percio' deve venire sospeso e gli atti immediatamente trasmessi alla Corte costituzionale, per la risoluzione della questione. Va ordinata altresi', a cura della cancelleria, la notifica della presente ordinanza al Presidente del Consiglio dei ministri e la sua comunicazione ai Presidenti delle Camere.