LA CORTE D'ASSISE D'APPELLO Nel procedimento n. 20/2005 contro Scaglia Monica giudicata con sentenza della Corte d'assise di Cuneo in data 14 marzo 2005 ha pronunciato la seguente ordinanza. Contro la sentenza sopra indicata con cui Scaglia monica e' stata assolta dal reato di cui al capo A (omicidio di Collura Alessandro) per non aver commesso il fatto, risulta aver proposto appello il p.m. chiedendone invece l'affermazione della responsabilta'. All'odierna udienza il p.g. preso atto delle limitazioni alla facolta' di appello del p.m. introdotte dalla sopravvenuta modifica dell'art. 593 c.p.p. per effetto della previsione di cui all'art. 1, legge n. 46/2006 e ritenute dette limitazioni operanti per l'impugnazione in discussione nel presente procedimento, ha eccepito l'illeggitimita' costituzionale della norma con riferimento agli artt. 3, 111 e 112 Cost. O s s e r v a Secondo il nuovo contenuto normativo dell'art. 593 c.p.p., come modificato dall'art. 1 della legge 20 febbraio 2006 n. 46, il p.m. e l'imputato possono appellare le sentenze di proscioglimento solo allorche' con i motivi di appello, ai sensi dell'art. 603 comma 2 c.p.p., venga richiesta la rinnovazione dell'istruzione dibattimentale per l'assunzione di prove sopravvenute o scoperte dopo il giudizio di primo grado che risultino decisive. Ove il giudice, in via preliminare, non ammetta la rinnovazione dell'istruttoria, dovra' dichiarare l'inammissibilita' dell'appello ed entro quarantacinque giorni dalla notifica del provvedimento le parti potranno proporre ricorso per cassazione anche contro la sentenza di primo grado. L'art. 10 della nuova legge prevede che la stessa trovi applicazione anche nei procedimenti in corso, disponendo in particolare che l'appello proposto avverso una sentenza di proscioglimento prima dell'entrata in vigore della nuova normativa sia dichiarato inammissibile con ordinanza non impugnabile, potendo essere proposto entro quarantacinque giorni dalla notifica del provvedimento ricorso per cassazione. La corte ritiene che la questione posta dal p.g. sia rilevante e non manifestamente infondata. Sotto il profilo della rilevanza si osserva che, per effetto della norma transitoria, deve applicarsi la nuova disciplina, risultando l'appello proposto dal p.m. soggetto a declaratoria di inammissibilita', anche se rimediabile con la possibilita' di proporre ricorso per cassazione nei termini, peraltro piu' ampi, del rinnovato comma 1 dell'art. 606 c.p.p. Sotto il profilo della non manifesta infondatezza risulta evidente che, per quanto la riforma introduca una limitazione all'appello relativo alle sentenze di proscioglimento sia per l'imputato sia per il p.m., essa incide soprattutto sulla posizione processuale di quest'ultimo, in quanto organo titolare dell'azione penale al cui esercizio egli e', per volonta' della Costituzione (art. 112), obbligatoriamente tenuto. Non deve infatti essere dimenticata la contrapposizione che nel processo penale caratterizza gli interessi perseguiti dalle parti: se da un lato il p.m. e' titolare dell'iniziativa diretta alla realizzazione della pretesa punitiva dell'ordinamento nei confronti di chi sia riconosciuto penalmente responsabile, dall'altro l'imputato e' titolare della pretesa, diametralmente opposta, di conseguire l'affermazione, totale o parziale, della propria innocenza, per cui l'ordinamento ha apprestato fondamentali garanzie difensive (in particolare mediante i principi della personalita' della responsabilta' penale, dell'irretroattivita' della legge penale, del diritto di difesa anche per i non abbienti, della riparazione degli errori giudiziari). E' tenendo conto di tale fisiologica contrapposizione che la carta costituzionale ha inteso enunciare il fondamentale principio della parita' delle parti nel processo (sia civile che penale), cui deve conformarsiz nel nostro ordinamento la disciplina processuale, da cui deve essere pertanto garantito che il giudizio si svolga «nel contraddittorio delle parti in condizioni di parita', davanti a giudice terzo e imparziale» (art. 111 Cost.). E' certo che il legislatore, nell'ambito del processo penale, proprio ispirandosi a tale principio di parita' e tenendo conto delle diverse e contrapposte aspettative delle parti, aveva riconosciuto finora la possibilita' di appello da un lato all'imputato contro le sentenze di condanna e dall'altro al p.m. contro le sentenze di assoluzione. Non si puo' dubitare infatti che il potere d'appello, che prelude ad un secondo ampio giudizio di merito, costituisce per entrambe le parti uno strumento giudiziale fondamentale, diretto alla realizzazione delle finalita' da ciascuna rispettivamente perseguite nel processo ed e' indubbio che ogni limitazione posta a carico dell'una, con conseguente beneficio per l'altra, incide sulla condizione di parita' che ad essere invece assicurata. E' innegabile che la nuova disciplina abbia introdotto una disparita' di trattamento a carico del p.m., in quanto la sua possibilita' di esercitare il potere d'appello e' subordinata a due condizioni: che siano emerse nuove decisive dal giudice d'appello. Poiche' tale ipotesi, com'e' noto, si verifica raramente, ne consegue che nella stragrande maggioranza dei casi al p.m. viene negato uno strumento processuale essenziale per l'affermazione della fondamentale pretesa istituzionale di cui egli e' portatore, risultando riservata al solo imputato la possibilita' incondizionata di un secondo giudizio di merito a tutela delle proprie aspettative, disattese in esito al giudizio di primo grado. Occorre tuttavia tener presente che, come ripetutamente affermato dalla Corte costituzionale, il principio di parita' non comporta una necessaria identita' di poteri processuali per le parti ne' una perfetta simmetria o equivalenza costituzionale fra esercizio dell'azione penale da un lato e diritto alla difesa dall'altro, non potendo escludersi a priori nel nostro ordinamento eventuali disparita'. Si rammentino in particolare, per quanto strettamente riguarda l'argomento trattato in questa sede, i limiti all'appello contro le sentenze pronunciate in esito al giudizio abbreviato gia' previsti dall'art. 443 c.p.p. sia per l'imputato sia per il p.m. In particolare si e' fatto cenno all'esclusione, prevista dall'art. 443 comma 3 c.p.p., dell'appello per il p.m. contro le sentenze di condanna pronunciate a seguito di giudizio abbreviato, su cui la Corte costituzionale aveva avuto occasione di pronunciarsi, precisando che la disparita' risultava giustificata dalla peculiare posizione istituzionale del p.m. e dalle esigenze connesse alla corretta amministrazione della giustizia, fra le quali soprattutto quella costituzionalmente prevista della ragionevole durata del processo. Trovando quest'ultima sicura attuazione nel rito abbreviato, caratterizzato in particolare dall'utilizzo di tutto il materiale probatorio raccolto dal p.m. senza contraddittorio nel corso delle indagini e dalla corrispondente rinuncia dell'imputato, si e' individuato un bilanciamento dei contrapposti interessi delle parti nell'esclusione per il p.m. di appellare le sentenze di condanna. Su tale argomento occorre considerare ancora che tale limitazione risulta pur sempre contemperata dall'intervenuta pronuncia di una sentenza di condanna, con cui ha trovato attuazione l'aspettativa accusatoria rappresentata dal p.m. e dalla sicura riduzione dei tempi del processo per effetto dell'esclusione, in tali ipotesi, del giudizio d'appello. La generale esclusione, nei termini gia' precisati, dell'appello del p.m. contro le sentenze di proscioglimento, introdotta dalla nuova legge n. 46/2006, rappresenta invece una pesante compressione dei suoi poteri processuali, che non trova alcuna ragionevole giustificazione sul piano sistematico. Innanzitutto si deve considerare che, contrariamente all'ipotesi teste' citata del rito abbreviato, il giudizio e' stato definito con una sentenza assolutoria e cio' vuol dire che ogni aspettativa dell'organo dell'accusa e' stata disattesa. Nel caso in cui poi si sia trattato di giudizio ordinario l'assunzione delle prove e' avvenuta nel contraddittorio delle parti e il p.m. non si e' neppure giovato, come nel rito abbreviato, della piena utilizzabilita', a fronte dell'acquiescenza dell'imputato, di tutto il materiale probatorio raccolto nelle indagini senza il contraddittorio delle parti. E' noto e' che certa dottrina ha auspicato il superamento del principio della perfetta parita' delle parti nel processo, ritenendo che la pretesa punitiva dell'ordinamento deve arrestarsi, anche in linea con il principio della ragionevole durata del processo, davanti alla sentenza di primo grado, in quanto pronunciata dal giudice che ha direttamente raccolto le prove nel contraddittorio delle parti, costituendone il giudizio d'appello una mera verifica critica. Si e' anche osservato che una sentenza di proscioglimento in primo grado costituirebbe di per se' un ragionevole dubbio che ne impedirebbe il ribaltamento in secondo grado, in conformita' al principio di non colpevolezza fino alla sentenza definitiva. L'inconsistenza di tali argomenti e' dimostrata da una pluralita' di opposte considerazioni. Innanzitutto deve rilevarsi che l'attuale formulazione dell'art. 111 Cost. impone di considerare anche il p.m. quale «parte» del processo, cui devono essere assicurate condizioni di parita', anche nell'esercizio del potere d'appello, quale strumento essenziale, nei termini gia' riferiti, offerto dall'ordinamento alle parti per la realizzazione dei rispettivi obiettivi processuali. Si e' precisato peraltro che l'eventuale possibile disparita' che il legislatore voglia introdurre con la nuova disciplina deve trovare, secondo l'orientamento indicato dalla Corte costituzionale in tema di giudizio abbreviato, di cui si e' detto, una ragionevole giustificazione sistematica. Non pare tuttavia che la grave limitazione del potere d'appello del p.m. introdotta dalla riforma possa in tale prospettiva trovare spiegazione ne' sotto il profilo della ragionevole durata del processo ne' sotto quello del ragionevole dubbio rappresentato dalla pronuncia assolutoria del primo giudice. Innanzitutto si rileva che la nuova disciplina non garantisce affatto un'abbreviazione della durata del processo, in quanto il ricorso per cassazione proposto dal p.m., in sostituzione dell'appello, secondo la nuova disciplina di cui alla lettera e) dell'art. 606 c.p.p., promuove un giudizio sulla sussistenza del vizio (mancanza, contraddittorieta' o manifesta illogicita) della motivazione della pronuncia assolutoria del primo giudice, quando esso risulti non solo «dal testo del provvedimento impugnato», ma anche «da altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame». Si tratta di un'innovazione che, comportando l'onere di un diretto esame degli atti, non soltanto stravolge la funzione della Corte di legittimita' ma pure comporta necessariamente, come pare innegabile, un allungamento dei tempi del giudizio. Inoltre occorre considerare che ove il ricorso trovi accoglimento, la Corte, non potendo definire il giudizio nel merito con una pronuncia di condanna, dovra' annullare la sentenza del primo giudice e rinviare al giudice di appello, la cui pronuncia sara' suscettibile di un altro giudizio di legittimita'. Pare pertanto evidente sotto tale profilo che la nuova disciplina non garantisce affatto una definizione piu' rapida del processo, come invece assicurato dalle limitazioni dell'appello introdotte dall'art. 443 c.p.p., ove in particolare l'esclusione per il p.m. di appellare le sentenze di condanna comporta la sola possibilita' del ricorso per cassazione, non spettando pero' alla corte di legittimita' alcun onere di esame degli atti. Non si vede poi per quale ragione la sentenza del giudice di primo grado debba rappresentare, in caso di assoluzione, un «ragionevole dubbio», insuperabile per l'accusa, nonostante che esso verta sulle prove e la verifica delle stesse costituisca l'oggetto essenziale di un giudizio sul merito. Vero e' che l'alta possibilita' di errata o insufficiente o mancata valutazione di prove da parte del primo giudice ha indotto il legislatore ad apprestare, per tutte le parti, la possibilita' di un secondo giudizio di merito, destinato ad una verifica «a tutto campo» rispetto a quello precedente, con la possibilita' per le parti di ottenere la riassunzione di prove gia' acquisite o l'assunzione di nuove prove (ex art. 603 comma 1 c.p.p.) e con il potere per il giudice di disporre d'ufficio la rinnovazione dell'istruzione dibattimentale (ex art. 603 comma 3 c.p.p.). L'esigenza di un controllo della pronuncia del primo giudice anche nel merito, con la rinnovazione potenziale di tutte le prove, e' stata avvertita dal legislatore anche in occasione della recente riforma, avendo imposto in sede di legittimita', secondo la nuova previsione, come gia' ricordata, di cui alla lettera e) dell'art. 606 c.p.p., la verifica del vizio di motivazione mediante l'esame non solo del «testo del provvedimento impugnato», ma anche di «altri atti del processo specificamente indicati nei motivi di gravame». E' tuttavia evidente che in tali termini il controllo del primo giudizio risulta soltanto parziale oltre che limitato alla sola valutazione della correttezza della motivazione del provvedimento impugnato, essendo inspiegabilmente preclusa la possibilita' di ampia verifica ed eventuale ampliamento delle risultanze probatorie che soltanto il giudizio d'appello garantisce alle parti, cio' comportando gravi conseguenze soprattutto, per quanto gia' detto, a carico delle aspettative rappresentate dal p.m. Altro profilo di irragionevolezza si coglie infine nella disparita' di trattamento determinata dalla nuova disciplina ove per un verso limita al p.m. la possibilita' di appello contro sentenze di proscioglimento e per un altro gliela mantiene a fronte di sentenze di condanna, garantendo un interesse che indubbiamente e' di minore consistenza. Le considerazioni che precedono inducono pertanto a ritenere rilevante e non manistamente infondata la questione proposta dal p.g. sulla legittimita' costituzionale dell'art. 593 c.p.p., come modificato dall art. 1 della legge 20 febbraio 2006 n. 46, per contrasto con gli artt. 3, 111 e 112 Cost. Quanto alle osservazioni formulate dal difensore delle parti civili nella memoria acquisita in data odierna e che riflettono un'asserita riduzione anche dei poteri d'impugnazione della parte civile, non pare a questa corte che gli stessi siano menomati dal nuovo testo dell'art. 576 c.p.p. come modificato dall'art. 6 della legge 20 febbraio 2006 n. 46.