LA CORTE DI APPELLO

    Riunita  in  Camera di consiglio ha emesso la seguente ordinanza,
nel processo a carico di Aversa Rosario, nato a Palermo il 27 ottobre
1953,  definito  con  sentenza  emessa  dal  Tribunale  di Palermo in
composizione  monocratica,  in  data 23 febbraio 2005 con la quale il
predetto  imputato e' stato assolto dall'imputazione ascritta per non
avere commesso il fatto.
    Preso  atto dell'appello ritualmente e tempestivamente interposto
avverso  la predetta sentenza dal Procuratore della Repubblica presso
il  Tribunale di Palermo, che ha richiesto, previa affermazione della
colpevolezza  dell'imputato in ordine al reato di detenzione illecita
a  fini di spaccio di sostanze stupefacenti, la condanna dello stesso
alle pene di legge;
    Rilevato  che  all'udienza  odierna  il  Procuratore  Generale ha
richiesto  dichiararsi  l'inammissibilita'  dell'appello  ai sensi di
quanto   previsto   dall'art. 593  comma  2  c.p.p.,  come  novellato
dall'art. 1 della legge n. 46/2006 e che il difensore si e' associato
alla detta richiesta;
    Ritenuto  di  sollevare di ufficio la questione di illegittimita'
costituzionale  degli  artt. 1  e  10  della  legge 20 febbraio 2006,
n. 46,  per  violazione degli artt. 3 e 111, secondo comma Cost.; 3 e
112  Cost.  in  relazione agli artt. 73 e 74 ord. giud.; 97 Cost.; 3,
111, 101 e 104 Cost.; 111, settimo comma Cost.

                            O s s e r v a

    Questa  Corte  ritiene di doversi pronunciare sulla manifesta non
infondatezza  della  questione di compatibilita' costituzionale degli
artt. 1  e  10  della  legge  20 febbraio 2006, n. 46, che ha, tra le
altre,  modificato la disposizione di cui all'art. 593 comma 1 c.p.p.
prevedendo   la  possibilita'  dell'appello  da  parte  del  pubblico
ministero e dell'imputato soltanto avverso le sentenze di condanna.
    Piu'  specificamente,  le  norme che si assumono incostituzionali
attengono,  quanto alla prima di esse (art. 593 codice di rito), alla
limitazione  del  potere  di  appello  del pubblico ministero, adesso
circoscritto   alle   sole   sentenze  di  condanna;  alla  residuale
possibilita'  di  esercitare  siffatto potere soltanto in presenza di
una  prova  decisiva  da  articolare ed assumere secondo le modalita'
indicate  nell'art. 603,  comma  2  c.p.p.;  alla declaratoria in via
preliminare  di  inammissibilita' dell'appello con ordinanza da parte
del  giudice, ove non venga disposta la rinnovazione del dibattimento
ed  alla  correlata possibilita' - per le parti - di proporre ricorso
per  cassazione  contro  la  sentenza  di  primo grado nel termine di
giorni  quarantacinque decorrente dalla notificazione della ordinanza
di inammissibilita' dell'appello.
    Quanto  alla  seconda,  la  norma  si  riferisce  alla disciplina
transitoria  che  prevede  l'applicabilita' delle disposizioni di cui
sopra  ai  procedimenti in corso alla data di entrata in vigore della
novella modificatrice.
    Il  primo,  preliminare  esame  che questa Corte ritiene di dover
effettuare, concerne la rilevanza delle questioni: rilevanza nel caso
in  esame  pacificamente  sussistente,  posto  che  essendosi il p.g.
limitato  a  richiedere l'inammissibilita' dell'appello senza dedurre
prove  nuove  sopravvenute  nei  limiti  temporali  previsti  per  la
proposizione dell'appello e trovando applicazione - per effetto della
disciplina  transitoria  -  la previsione normativa di cui all'art. 1
della   legge   n. 46/2006,  ne  dovrebbe  conseguire  la  necessaria
pronuncia  di  inammissibilita' dell'appello ai sensi dei commi 2 e 3
dell'art. 10,  in  relazione  alla  previsione  di carattere generale
contenuta nell'art. 593, comma 2 c.p.p.
    La rilevanza della questione appare evidente poiche' si tratta di
una  diversa  disciplina  del  presente  processo  conclusosi con una
sentenza  di  assoluzione  per  l'imputato  in  virtu' della quale il
pubblico  ministero  appellante,  per  un  verso vedrebbe precluso il
proprio  potere  di  appello e, per altro verso, sarebbe costretto in
tempi  peraltro  assai  ristretti,  a proporre ricorso per cassazione
avverso la sentenza di primo grado.
    Tanto  premesso,  ritiene la Corte di dovere fare una ulteriore e
preliminare  puntualizzazione, propedeutica all'esame delle questioni
suddette.
    Secondo  le indicazioni contenute nell'art. 134 Cost., e' rimessa
alla   Corte   costituzionale   la  risoluzione  delle  questioni  di
legittimita'  costituzionale di leggi (o atti ad essa equiparati) che
siano  state  sollevate di ufficio ovvero eccepite da una delle parti
nel   corso   del   giudizio,  con  l'unico,  preclusivo  limite,  in
quest'ultima  ipotesi,  della  eventuale manifesta infondatezza delle
questioni, ritenuta dal giudice.
    E'  dunque  evidente  che  nel  caso in cui il giudice ritenga di
sollevare  di  ufficio la questione di legittimita' costituzionale di
una  (o  piu)  determinata  norma  competa allo stesso effettuare una
prima  valutazione  della  rilevanza  della  questione  e  della  sua
eventuale  manifesta  infondatezza  in  stretta  sequenza temporale e
logica,  nel  senso  che, una volta positivamente risolto il problema
concernente la rilevanza della questione, dovra' essere affrontato il
problema relativo alla eventuale manifesta infondatezza di essa.
    Tale  ultimo  esame  non  implica,  tuttavia, ad avviso di questa
Corte,  un'analisi  approfondita e particolareggiata dei vari profili
di  illegittimita' prospettati, nel caso in esame, peraltro, non solo
numerosi,  ma  soprattutto  complessi  ed estremamente articolati: se
cosi'  operasse,  la  Corte  finirebbe  con  il  travalicare i propri
compiti,  interferendo sui compiti propri della Corte costituzionale,
unico  Giudice  deputato - per legge costituzionale (art. 134 cit.) -
ad  esprimere il richiesto giudizio di legittimita' costituzionale di
quelle norme che si assumono violate.
    Siffatta soluzione attribuisce al giudice chiamato ad operare una
valutazione  per  cosi'  dire  «preliminare»,  il doveroso compito di
rimettere  alla  Corte  costituzionale  unicamente  la risoluzione di
quelle   questioni   che,   oltre  ad  essere  rilevanti,  non  siano
manifestamente  infondate,  intendendosi con tale ultima espressione,
l'insussistenza  o  la  mera apparenza dei dubbi di costituzionalita'
prospettati dalle parti.
    Nel  caso  in  esame,  questa  Corte,  attesi  i  profili, invero
complessi  e tra loro intimamente collegati, delle questioni, ritiene
le  stesse  non  manifestamente  infondate  alla  luce delle seguenti
considerazioni.
    Una  prima  questione  concerne  il  sospetto  di  illegittimita'
costituzionale    dell'art. 1   della   legge   in   esame   rispetto
all'art. 111,  secondo  comma della Costituzione, a tenore del quale,
il  processo si svolge nel contraddittorio delle parti, in condizioni
di  parita',  davanti  ad  un  giudice  terzo  e  imparziale, con una
ragionevole durata assicurata dalla legge.
    Ritiene  la Corte che non solo con riferimento all'art. 111 sopra
richiamato, ma anche con riguardo all'art. 3 Cost., si profilerebbe -
per  un  verso  - una ingiustificata compressione della parita' delle
parti nel processo, da intendersi in una accezione ampia, comprensiva
anche  delle fasi successive alle indagini preliminari, sino alla sua
completa   definizione;   per   altro   verso,  si  profilerebbe  una
irragionevole   disparita'   tra  la  posizione  del  p.m.  e  quella
dell'imputato,   solo   apparentemente   superata   dal  nuovo  testo
normativo.
    Infatti,   quanto   al  significato  da  attribuire  alla  parola
«processo»,   e'  evidente  che  la  Costituzione  intende  riferirsi
all'intero percorso che dalla notitia criminis perviene alla sentenza
definitiva, in armonia con quanto previsto all'art. 24, secondo comma
Cost.
    Ora,  a  fronte  del legittimo potere riconosciuto all'imputato e
costituzionalmente  tutelato  ex  art. 24,  Cost.,  di  esercizio del
proprio diritto di difesa in ogni stato e grado del procedimento, non
vi  e'  dubbio che anche il p.m. sia chiamato a esercitare la propria
pretesa  punitiva  in  ossequio  al  principio  della obbligatorieta'
dell'azione  penale  (garantita attraverso l'art. 112 Cost.), al fine
di   vedere   affermata  la  responsabilita'  penale  di  colui  che,
assoggetto al processo, venga riconosciuto colpevole.
    Trattasi   di  una  pretesa  punitiva  di  rango  costituzionale,
riconoscendosi  in  capo  al p.m. la funzione di Organo preposto alla
realizzazione  degli  interessi  generali  della  giustizia, come del
resto, previsto dagli artt. 73 e 74 ord. giud.
    Ora,  se e' indubitabile che la previsione di limiti al potere di
impugnazione  del  p.m. non e', di per se', in contrasto con la Carta
fondamentale   (tanto   e'   vero   che,   in  tema  di  sentenze  di
proscioglimento  a  seguito  di giudizio abbreviato, tali limiti sono
stati ritenuti compatibili con il dettato costituzionale - da ultimo,
ord.  Corte  cost.  n. 421/2001), e' tuttavia da rilevare come tra la
speciale  disciplina  prevista  in  materia  di  giudizio  abbreviato
(dettata  anche  da  evidenti ragioni di politica giudiziaria sottese
alla  premialita' del rito) e quella oggi prevista dal nuovo art. 593
c.p.p., vi siano sensibili differenze.
    Manca,   infatti,   in   quest'ultimo   caso   qualsiasi  ragione
giustificativa  per  una limitazione del potere di appello, avvertita
dallo  stesso  Presidente  della  Repubblica  nel  suo messaggio alle
Camere  del  20  gennaio  2006  con  il quale era stata rinviata alle
Camere la prima stesura della legge.
    Il  Presidente della Repubblica aveva, infatti, segnalato che «la
soppressione  dell'appello delle sentenze di proscioglimento, a causa
della  disorganicita'  della  riforma, fa si' che la stessa posizione
delle  parti  nel  processo  venga  ad  assumere  una  condizione  di
disparita'  che  supera  quella  compatibile  con la diversita' delle
funzioni svolte dalle parti stesse nel processo».
    Ne'  l'inconveniente risulta eliminato attraverso la formulazione
del  comma  2  dell'art. 593  c.p.p.  che  prevede la possibilita' di
appello  per  il  p.m.  a  condizione  che  venga  indicata una prova
sopravvenuta rispetto alla fase precedente: trattasi, infatti, di una
ipotesi  del  tutto residuale e marginale che di fatto rende la norma
sostanzialmente  identica a quella gia' oggetto dei rilievi formulati
dal Presidente della Repubblica.
    L'irragionevolezza  della  norma, peraltro, si coglie appieno la'
dove   si  consideri  che,  partendo  dalla  premessa  che  l'appello
rappresenta  una  forma  di  garanzia contro gli errori contenuti nel
giudizio  di  primo  grado,  la limitazione di esso ad una sola delle
parti  impedisce di pervenire al risultato della decisione giusta cui
mira qualsiasi processo.
    Senza   dire  che  apparirebbero  sostanzialmente  vanificate  le
funzioni  di rilievo costituzionale del p.m. come risultano delineate
dagli artt. 73 e 74 ord. giud.
    Ritiene,   ancora,  la  Corte  di  poter  intravedere  rebus  sic
stantibus una violazione del principio di ragionevolezza, dal momento
che  non e' dato comprendere in base a quale criterio al p.m. e' dato
appellare sentenze di condanna, se ritenute troppo miti rispetto alla
gravita'  del  fatto  e  non  e'  dato  appellare avverso sentenze di
assoluzione   del   tutto   incoerenti   rispetto   alle   risultanze
processuali.
    Ben  conosce  questa  Corte  l'orientamento  secondo  il quale, a
differenza  di quanto previsto per l'imputato, il diritto del p.m. ad
una  revisione  di  merito  della  decisione  non  trova  una diretta
copertura costituzionale.
    E'  tuttavia innegabile che un sistema che preveda lo svolgimento
di  un  processo  giusto  -  come  tale  previsto  dalla Costituzione
all'art. 111  nella sua interezza - debba contemplare la possibilita'
che  anche  il  p.m.,  nell'interesse superiore della giustizia, veda
riconosciuto  il  suo potere di interloquire sempre nel processo fino
alla sua conclusione, passando attraverso una revisione critica degli
errori  contenuti nella sentenza, non necessariamente circoscritti ai
vizi di legittimita' indicati nell'art. 606 c.p.p.
    Questione di non poco momento e' poi quella afferente il rapporto
intercorrente  tra  l'art. 1  della  legge in argomento e l'art. 111,
primo, sesto e settimo comma Cost.
    In  conseguenza delle modifiche apportate con tale legge, risulta
notevolmente  ed  irragionevolmente  estesa  l'area  del  giudizio di
merito   della   Cassazione,   trasformata   quindi   da  giudice  di
legittimita', (anche) a giudice di merito.
    A  norma  dell'art. 111,  settimo  comma  Cost. e' sempre ammesso
ricorso  avverso  le  sentenze ed i provvedimenti adottati in tema di
liberta'  personale, davanti la Corte di cassazione per violazione di
legge: e' dunque evidente che l'intero sistema processuale si e' fino
a  questo  momento  poggiato  sul c.d. «doppio giudizio di merito» da
parte  di  un  giudice di primo grado e, di seguito, di un giudice di
secondo  grado,  mentre  alla  Corte  di  cassazione  e'  rimesso  il
delicatissimo  compito  di  riesaminare  il  processo  solo  nei casi
tassativamente determinati di violazione di legge.
    Tale  compito,  correlato  all'obbligo di motivazione di tutti in
provvedimenti    giurisdizionali    contemplato   nel   sesto   comma
dell'art. 111  Cost.,  finisce con l'essere vanificato per effetto di
una  riforma  che  introduce tra i vizi ricorribili per cassazione il
travisamento del fatto non piu' ancorato al testo della decisione, ma
riferito a tutti i dati processuali.
    E'  da  escludere comunque un controllo di merito in via generale
per  le  sentenze  di proscioglimento, posto che non tutti gli errori
contenuti  nella  sentenza  potranno  rientrare  in una delle ipotesi
enunciate nell'art. 606 c.p.p.
    Non  e'  chi  non  veda  in  un  sistema  di tal fatta una palese
irragionevolezza  rappresentata,  oltre  che  da una ingiustificabile
estensione  dei  poteri  valutativi  della  Cassazione  con correlata
indeterminatezza  dei  criteri cui dovra' essere informato il ricorso
per  cassazione,  rimessi  esclusivamente al giudice di legittimita',
anche  da un possibile, quanto ingiustificato, allungamento dei tempi
di definizione del processo.
    Del  resto  proprio  su  tali  punti  si  e',  ancora  una volta,
incentrato  il messaggio del Capo dello Stato in sede di rinvio della
legge  alle  Camere  che,  tuttavia,  pare  essere stato ignorato dal
Legislatore.
    Profili  di  incostituzionalita'  sono,  ancora, rinvenibili, per
quanto  rileva  in  questa  sede,  nell'art. 10 della nuova legge che
regola la disciplina transitoria.
    Premesso  che  con  tale disciplina si e' di fatto verificata una
sostanziale abrogazione ex lege di tutti gli appelli proposti al p.m.
avverso  le  sentenze  di  proscioglimento, relativamente ai processi
pendenti  alla  data  di  entrata  in vigore della legge, la norma in
esame  appare,  anzitutto, confliggere con l'art. 97 Cost., in quanto
il   rispetto   del   principio   di  buon  andamento  dell'attivita'
giudiziaria   avrebbe  dovuto  imporre  la  previsione  di  norme  di
salvaguardia  delle  attivita' processuali compiute dalle parti prima
dell'entrata   in   vigore  della  legge,  per  evitare  il  collasso
dell'intero sistema processuale.
    Ancora piu' grave appare l'inconciliabilita' della norma rispetto
al    principio   costituzionalmente   garantito   all'art. 3   della
ragionevolezza,  essendo  indiscutibile  un effetto retroattivo della
legge processuale.
    E,  seppure  va rimarcata la possibilita' ex art. 25 Cost. di una
retroattivita'  delle  norme processuali, esclusa invece per le norme
di   diritto   penale   sostanziale,   e'   comunque  innegabile  una
interferenza   diretta   delle   leggi   retroattive   sull'attivita'
giurisdizionale,  che  esige  la ragionevolezza della retroattivita',
certamente  non assicurata laddove la scelta legislativa che sta alla
base non abbia alcuna plausibile ragione giustificatrice.
    Se,  d'altra  parte,  non  e'  dato  rinvenire  alcuna plausibile
ragione  alla  base di tale scelta, anche nella materia processuale -
come  affermato nella sentenza n. 525/2000 della Corte costituzionale
- vale la regola della tutela dell'affidamento che esige che le parti
conoscano il momento in cui sorgono oneri con effetti pregiudizievoli
e,  ancor  piu',  confidino nello svolgimento del giudizio secondo le
regole vigenti all'epoca del compimento degli atti processtuali.
    In ultima analisi, il mutamento improvviso della disciplina per i
processi   in   corso,  senza  alcuna  garanzia  di  tipo  intermedio
dell'effetto  conservativo,  anche per consentire un'entrata a regime
della legge, appare del tutto priva di giustificazione logica.
    Si tratta, ancora una volta, di uno scardinamento del sistema che
urta  contro  diversi  principi  di  rango  costituzionale  e  che il
legislatore  ha  mostrato  di  voler evitare anche per la materia del
diritto  penale  sostanziale,  nonostante la copertura costituzionale
dell'art. 25, secondo comma Cost. in materia di mutamento dei termini
di  prescrizione dei reati, prevedendo opportunamente una «moratoria»
per i processi in corso il cui dibattimento sia stato aperto in primo
grado.
    A  conclusioni  non  dissimili  sul  piano  della  compatibilita'
costituzionale   deve   giungersi   con   riferimento   al  contenuto
dell'art. 10,  comma  2 della legge in esame che prevede la pronuncia
di  una  ordinanza  non  impugnabile di inammissibilita' dell'appello
proposto dal p.m. avverso la sentenza di proscioglimento: avendo tale
ordinanza  avente  -  per  il  suo  contenuto definitorio - natura di
sentenza, va riconosciuto il potere di ricorrere per cassazione, pena
la  violazione,  per  un verso, dell'art. 111, comma 7 che prevede la
ricorribilita',  per  violazione di legge, di qualsiasi provvedimento
giurisdizionale e, per altro verso, dell'art. 3 sotto l'aspetto della
irragionevolezza  della  norma  che  sconvolgerebbe  l'intero sistema
delle impugnazioni.