LA CORTE DI APPELLO Riunita in Camera di consiglio ha emesso la seguente ordinanza nel processo a carico di Messinese Michele, nato a Ravanusa il 5 settembre 1950, definito con sentenza emessa dal Tribunale di Agrigento - in composizione monocratica - in data 8 marzo 2005, con la quale il predetto imputato e' stato assolto dal reato di cui all'articolo 388, comma 5, c.p. perche' il fatto non costituisce reato. Preso atto dell'appello ritualmente e tempestivamente interposto avverso la predetta sentenza dal Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Agrigento, che ha richiesto l'affermazione della colpevolezza dell'imputato in ordine al reato a lui contestato e la condanna dello stesso alle pene di legge; Rilevato che all'udienza odierna il procuratore generale ha sollevato eccezione di illegittimita' costituzionale degli artt. 1 e 10 della legge 20 febbraio 2006, n. 46, per violazione degli artt. 3 e 111, secondo comma, Cost.; 3 e 112 Cost. in relazione agli artt. 73 e 74 ord. giud.; 97 Cost.; 3, 111, 101 e 104 Cost.; 111, settimo comma Cost; Sentito il difensore dell'imputato che ha controdedotto opponendosi alle eccezioni sollevate dal p.g. O s s e r v a Questa Corte e' chiamata a pronunciarsi sulla manifesta non infondatezza della questione di compatibilita' costituzionale degli artt. 1 e 10 della legge 20 febbraio 2004 n. 46 che ha, tra le altre, modificato la disposizione di cui all'art. 593 comma 1 c.p.p. prevedendo la possibilita' dell'appello da parte del pubblico ministero e dell'imputato soltanto avverso le sentenze di condanna. Piu' specificamente, le norme che si assumono incostituzionali attengono, quanto alla prima di esse (art. 593 codice di rito), alla limitazione del potere di appello del pubblico ministero, adesso circoscritto alle sole sentenze di condanna; alla residuale possibilita' di esercitare siffatto potere soltanto in presenza di una prova decisiva da articolare ed assumere secondo le modalita' indicate nell'art. 603, comma 2 c.p.p.; alla declaratoria in via preliminare di inammissibilita' dell'appello con ordinanza da parte det giudice, ove non venga disposta la rinnovazione del dibattimento ed alla correlata possibilita' - per le parti - di proporre ricorso per cassazione contro la sentenza di primo grado nel termine di giorni quarantacinque decorrente dalla notificazione della ordinanza di inammissibilita' dell'appello Quanto alla seconda, la norma si riferisce alla disciplina transitoria che prevede l'applicabilita' delle disposizioni di cui sopra ai procedimenti in corso alla data di entrata in vigore della novella modificatrice. Un primo, preliminare esame riguarda la rilevanza delle questioni proposte: rilevanza nel caso in esame pacificamente sussistente, posto che non essendo state dedotte da parte del p.m. appellante prove nuove sopravvenute nei limiti temporali previsti per la proposizione dell'appello e trovando applicazione - per effetto della disciplina transitoria - la previsione normativa di cui all'art. 1 della legge n. 46/2006, ne deriverebbe la necessaria pronuncia di inammissibilita' dell'appello ai sensi dei commi 2 e 3 dell'art. 10, in relazione alla previsione di carattere generale contenuta nell'art. 593, comma 2 c.p.p. La rilevanza della questione appare evidente poiche' si tratta di una diversa disciplina del presente processo conclusosi con una sentenza di assoluzione per l'imputato in virtu' della quale il pubblico ministero appellante, per un verso vedrebbe precluso il proprio potere di appello e, per altro verso, sarebbe costretto in tempi peraltro assai ristretti, a proporre ricorso per cassazione avverso la sentenza di primo grado. Tanto premesso, ritiene la Corte di dovere fare una ulteriore e preliminare puntualizzazione, propedeutica all'esame delle eccezioni sollevate dal procuratore generale. Secondo le indicazioni contenute nell'art. 134 Cost., e' rimessa alla Corte costituzionale la risoluzione delle questioni di legittimita' costituzionale di leggi (o atti ad essa equiparati) che siano state sollevate di ufficio ovvero eccepite da una delle parti nel corso del giudizio, con l'unico, preclusivo limite, della eventuale manifesta infondatezza delle questioni, ritenuta dal giudice. E' dunque evidente che nel caso della proposizione della questione di legittimita' costituzionale competa al giudice che ne sia investito da una delle parti, effettuare una prima valutazione della rilevanza della questione e della sua eventuale manifesta infondatezza in stretta sequenza temporale e logica, nel senso che, una volta positivamente risolto il problema concernente la rilevanza della questione, dovra' essere affrontato il problema relativo alla eventuale manifesta infondatezza di essa. Tale ultimo esame non implica, tuttavia, ad avviso di questa Corte, un'analisi approfondita e particolareggiata dei vari profili di illegittimita' prospettati, nel caso in esame, peraltro, non solo numerosi, ma soprattutto complessi ed estremamente articolati: se cosi' operasse, la Corte finirebbe con il travalicare i propn compiti, interferendo sui compiti propri della Corte costituzionale, unico giudice deputato - per legge costituzionale (art. 134 cit.) - ad esprimere il richiesto giudizio di legittimita' costituzionale di quelle norme che si assumono violate. Siffatta soluzione attribuisce al giudice chiamato ad operare una valutazione per cosi' dire «preliminare», il doveroso compito di rimettere alla Corte costituzionale unicamente la risoluzione di quelle questioni che, oltre ad essere rilevanti, non siano manifestamente infondate, intendendosi con tale ultima espressione, l'insussistenza, o la mera apparenza, dei dubbi di costituzionalita' prospettati dalle parti. Nel caso in esame, questa Corte, attesi i profili, invero complessi e tra loro intimamente collegati, delle questioni proposte dal procuratore generale; ritiene le stesse non manifestamente infondate alla luce delle seguenti considerazioni. Una prima questione concerne la presunta illegittimita' costituzionale dell'art. 1 della legge in esame rispetto all'art. 111, secondo comma, della Costituzione, a tenore del quale, il processo si svolge nel contraddittorio delle parti, in condizioni di parita', davanti ad un giudice terzo e imparziale, con una ragionevole durata assicurata dalla legge. Ritiene la Corte che i rilievi prospettati dal procuratore generale non solo con riferimento all'art. 111 sopra richiamato, ma anche con riguardo all'art. 3 Cost., siano meritevoli di considerazione, profilandosi - per un verso - una ingiustificata compressione della parita' delle parti nel processo, che va inteso in una accezione ampia, comprensiva anche delle fasi successive alle indagini preliminari, sino alla sua completa definizione; per altro verso, profilandosi una irragionevole disparita' tra la posizione del p.m. e quella dell'imputato, solo apparentemente superata dal nuovo testo normativo. Infatti, quanto al significato da attribuire alla parola «processo», e' evidente che la Costituzione intende riferirsi all'intero percorso che dalla notitia criminis perviene alla sentenza definitiva, in armonia con quanto previsto all'art. 24, secondo comma Cost. Ora, a fronte del legittimo potere riconosciuto all'imputato e costituzionalmente tutelato ex art. 24 Cost., di esercizio del proprio diritto di difesa in ogni stato e grado del procedimento, non vi e' dubbio che anche il p.m. e' chiamato a esercitare la propria pretesa punitiva in ossequio al principio della obbligatorieta' dell'azione penale (garantita attraverso l'art. 112 Cost.), al fine di vedere affermata la responsabilita' penale di colui che e' stato assoggetto al processo. Trattasi di una pretesa punitiva di rango costituzionale, riconoscendosi in capo al p.m. la funzione di organo preposto alla realizzazione degli interessi generali della giustizia, come del resto, previsto dagli artt. 73 e 74 ord. giud. Ora, se e' indubitabile che la previsione di limiti al potere di impugnazione del p.m. non e', di per se', in contrasto con la Carta fondamentale (tanto e' vero che, in tema di sentenze di proscioglimento a seguito di giudizio abbreviato, tali limiti sono stati ritenuti compatibili con il dettato costituzionale - da ultimo, ord. Corte cost. n. 421/2001), e' tuttavia da rilevare come tra la speciale disciplina prevista in materia di giudizio abbreviato (dettata anche da evidenti ragioni di politica giudiziaria sottese alla premialita' del rito) e quella oggi prevista dal nuovo art. 593 c.p.p., vi siano sensibili differenze. Manca, infatti, in quest'ultimo caso qualsiasi ragione giustificativa per una limitazione del potere di appello, avvertita dallo stesso Presidente della Repubblica nel suo messaggio del 20 gennaio 2006 con il quale era stata rinviata alle Camere la prima stesura della legge. Il Presidente della Repubblica aveva, infatti, segnalato che «la soppressione dell'appello, delle sentenze di proscioglimento, a causa della disorganicita' della riforma, fa si' che la stessa posizione delle parti nel processo venga ad assumere una condizione di disparita' che supera quella compatibile con la diversita' delle funzioni svolte dalle parti stesse nel processo». Ne' - come rilevato dal p.g. nella propria memoria - l'inconveniente risulta eliminato attraverso la formulazione del comma 2 dell'art. 593 c.p.p. che prevede la possibilita' di appello per il p.m. a condizione che venga indicata una prova sopravvenuta rispetto alla fase precedente: trattasi, infatti, di una ipotesi del tutto residuale e marginale che di fatto rende la norma sostanzialmente identica a quella gia' oggetto dei rilievi formulati dal Presidente della Repubblica. L'irragionevolezza della norma, peraltro, si coglie appieno la' dove si consideri che, partendo dalla premessa che l'appello rappresenta una forma di garanzia contro gli errori contenuti nel giudizio di primo grado, la limitazione di esso ad una sola delle parti impedisce di pervenire al risultato della decisione giusta cui mira qualsiasi processo. Senza dire che apparirebbero sostanzialmente vanificate le funzioni di rilievo costituzionale del p.m. come risultano delineate dagli artt. 73 e 74 ord. giud. Ritiene, ancora, la Corte di poter condividere le perpiessita' espresse dal p.g. con riferimento alla violazione del principio di ragionevolezza, dal momento che non e' dato comprendere in base a quale criterio al p.m. e' dato appellare sentenze di condanna, se ritenute troppo miti rispetto alla gravita' del fatto e non e' dato appellare avverso sentenze di assoluzione del tutto incoerenti rispetto alle risultanze processuali. Pur dovendosi ribadire che, a differenza di quanto previsto per l'imputato, il diritto del p.m. ad una revisione di merito della decisione non trovi una diretta copertura costituzionale, e' innegabile che un sistema che preveda lo svolgimento di un processo giusto - come tale previsto dalla Costituzione all'art. 111 nella sua interezza - contempli la possibilita' che anche il p.m., nell'interesse superiore della giustizia, veda riconosciuto il suo potere di interloquire sempre nel processo fino alla sua conclusione, passando attraverso una revisione critica degli errori contenuti nella sentenza, non necessariamente circoscritti ai vizi di legittimita' indicati nell'art. 606 c.p.p. Questione di non poco momento e' poi quella afferente il rapporto - che si assume violato - tra l'art. 1 della legge in argomento e l'art. 111 primo, sesto e settimo comma Cost. In conseguenza delle modifiche apportate con tale legge, risulta notevolmente ed irragionevolmente estesa l'area del giudizio di merito della Cassazione, trasformata quindi da giudice di legittimita', (anche) a giudice di merito. A norma dell'art. 111, settimo comma Cost. e' sempre ammesso ricorso avverso le sentenze ed i provvedimenti adottati in tema di liberta' personale, davanti la Corte di cassazione per violazione di legge: e' dunque evidente che l'intero sistema processuale si e' fino a questo momento poggiato sul c.d. «doppio giudizio di merito» da parte di un giudice di primo grado e, di seguito, di un giudice di secondo grado, mentre alla Corte di cassazione e' rimesso il delicatissimo compito di riesaminare il processo solo nei casi, tassativamente determinati, di violazione di legge. Tale compito, correlato all'obbligo di motivazione di tutti in provvedimenti giurisdizionali contemplato nel sesto comma dell'art. 111 Cost., finisce con l'essere vanificato per effetto di una riforma che introduce tra i vizi ricorribili per cassazione il travisamento del fatto non piu' ancorato al testo della decisione, ma riferito a tutti i dati processuali. E' da escludere comunque un controllo di merito in via generale per le sentenze di proscioglimento, posto che non tutti gli errori contenuti nella sentenza potranno rientrare in una delle ipotesi enunciate nell'art. 606 c.p.p. Non e' chi non veda in un sistema di tal fatta una palese irragionevolezza rappresentata, oltre che da una ingiustificabile estensione dei poteri valutativi della Cassazione con correlata indeterminatezza dei criteri cui dovra' essere informato il ricorso per cassazione, rimessi esclusivamente al giudice di legittimita', anche da un possibile, quanto ingiustificato, allungamento dei tempi di definizione del processo. Del resto proprio su tali punti si e', ancora una volta, incentrato il messaggio del Capo dello Stato in sede di rinvio della legge alle Camere che, tuttavia, sembra essere stato ignorato dal Legislatore. Profili di incostituzionalita' sono, ancora, rinvenibili, per quanto rileva in questa sede, nell'art. 10 della nuova legge che regola la disciplina transitoria. Premesso che con tale disciplina si e' di fatto verificata una sostanziale abrogazione ex lege di tutti gli appelli proposti al p.m. avverso le sentenze di proscioglimento deliberate nell'ambito di processi pendenti alla data di entrata in vigore della legge, la norma in esame appare, anzitutto, confliggere con l'art. 97 Cost., in quanto il rispetto del principio di buon andamento dell'attivita' giudiziaria avrebbe dovuto imporre la previsione di norme di salvaguardia delle attivita' processuali compiute dalle parti prima dell'entrata in vigore della legge, per evitare il collasso dell'intero sistema processuale. Ancora piu' grave appare l'inconciliabilita' della norma rispetto al principio costituzionalmente garantito all'art. 3 della ragionevolezza, essendo indiscutibile un effetto retroattivo della legge processuale. E, seppure va rimarcata la possibilita' ex art. 25 Cost. di una retroattivita' delle dette norme, esclusa invece per le norme di diritto penale sostanziale, e' comunque innegabile una interferenza diretta delle leggi retroattive sull'attivita' giurisdizionale, che esige la ragionevolezza della retroattivita', certamente non assicurata laddove la scelta legislativa che sta alla base non abbia alcuna plausibile ragione giustificatrice. Come osservato dal p.g., non solo non e' dato rinvenire alcuna plausibile ragione alla base di tale scelta, ma - come affermato nella sentenza n. 525/2000 della Corte costituzionale - anche nella materia processuale vale la regola della tutela dell'affidamento, la quale esige che le parti conoscano il momento in cui sorgono oneri con effetti pregiudizievoli e, ancor piu', confidino nello svolgimento del giudizio secondo le regole vigenti all'epoca del compimento degli atti processuali. In ultima analisi, il mutamento improvviso della disciplina per i processi in corso, senza alcuna garanzia, di tipo intermedio, dell'effetto conservativo, anche per consentire un'entrata a regime della legge, appare del tutto priva di giustificazione logica. Si tratta, ancora una volta, di uno scardinamento del sistema che urta contro diversi principi di rango costituzionale e che il legislatore ha mostrato di voler evitare anche per la materia del diritto penale sostanziale, nonostante la copertura costituzionale dell'art. 25 comma 2 Cost. in materia di mutamento dei termini di prescrizione dei reati, prevedendo opportunamente una «moratora» per i processi in corso il cui dibattimento sia stato aperto in primo grado. A conclusioni non dissimili sul piano della compatibilita' costituzionale deve giungersi con riferimento al contenuto dell'art. 10, comma 2 della legge in esame che prevede la pronuncia di una ordinanza non impugnabile di inammissibilita' dell'appello proposto dal p.m. avverso la sentenza di proscioglimento: avendo tale ordinanza - per il suo contenuto definitorio - natura di sentenza, va riconosciuto il potere di ricorrere per Cassazione, pena la violazione, per un verso, dell'art. 111, settimo comma Cost. e, per altro verso, dell'art. 3 Cost. sotto l'aspetto della irragionevolezza della norma che sconvolgerebbe l'intero sistema delle impugnazioni.