LA CORTE DI CASSAZIONE

    Ha  pronunciato  la  seguente  ordinanza sul ricorso proposto per
Italiano  Antonino,  nato  a  Barcellona  Pozzo di Gotto il 20 maggio
1961,  avverso  la  ordinanza  resa il 4 luglio 2005 dal tribunale di
Messina, sezione del riesame.
    Visto il provvedimento denunciato e il ricorso;
    Udita  la relazione svolta in camera di consiglio dal consigliere
Pierluigi Onorato;
    Udito  il pubblico ministero in persona del sostituto procuratore
generale  Guglielmo  Passacantando,  che  ha  concluso  chiedendo  il
rigetto del ricorso;
    Udito il difensore dell'indagato, avv. Giuseppe Lo Presti, che ha
insistito nel ricorso;

                            O s s e r v a


                      Svolgimento del processo

    1.  - Con ordinanza del 4 luglio 2005 il tribunale di Messina, in
sede  di  riesame,  ha  confermato  il  sequestro  preventivo  di  un
autocarro  Fiat Iveco, trg. ME573983, disposto in data 10 giugno 2005
dal  g.i.p.  del  tribunale di Barcellona Pozzo di Gotto a carico del
proprietario  Antonino  Italiano,  che il 24 maggio dello stesso anno
era  stato  fermato  alla  guida  dell'automezzo  mentre  trasportava
«materiale di risulta proveniente da lavori dell'edilizia».
    Il  g.i.p. aveva ravvisato il fumus del reato di cui all'art. 51,
d.lgs.  n. 22/1997  a  carico del guidatore, per trasporto di rifiuti
senza  le  prescritte autorizzazioni. In particolare, aveva osservato
che  il  trasporto  di  rifiuti  verso  una discarica abusiva rientra
nell'ampio  concetto  di  gestione  della  discarica,  ed e' pertanto
punito  ai  sensi  del  terzo  comma dell'art. 51; e che - comunque -
essendo   l'Italiano   un  imprenditore  edile,  era  ravvisabile  la
contravvenzione  di  cui  al  secondo  comma dell'art. 51 per abusiva
attivita' di smaltimento di rifiuti speciali non pericolosi.
    Nel confermare la misura il tribunale del riesame ha rilevato che
il  trasporto  di  rifiuti,  quale  possibile  fase dell'attivita' di
gestione,  da  chiunque  posto  in  essere,  deve  essere autorizzato
dall'autorita' competente; e che il concetto di gestione di discarica
deve   essere   inteso  in  senso  ampio,  comprensivo  di  qualsiasi
contributo  attivo  o  passivo  diretto  a  realizzare o mantenere la
discarica stessa.
    Indubitabile  era  poi  il  periculum in mora, giacche' la libera
disponibilita'  dell'automezzo  da  parte  di un imprenditore edile -
quale pacificamente era l'Italiano - che produce abitualmente rifiuti
poteva agevolare la commissione di altri reati della stessa specie.
    2.   -   Il  difensore  dell'indagato  ha  proposto  ricorso  per
cassazione, deducendo tre motivi per violazione di legge penale e per
manifesta illogicita' di motivazione.
    Col primo denuncia violazione dell'art. 51, comma 1, in relazione
all'art. 30, comma 4, del d.lgs. n. n. 22/1997, giacche' quest'ultima
norma  assoggetta  all'obbligo  d'iscrizione all'Albo nazionale delle
imprese esercenti servizi di smaltimento solo quegli imprenditori che
svolgono  attivita' di raccolta e trasporto di rifiuti non pericolosi
prodotti  da  terzi  o di rifiuti pericolosi. Per conseguenza non era
obbligato  all'iscrizione  l'Italiano  che trasportava rifiuti propri
non pericolosi.
    Col secondo motivo il difensore denuncia violazione dei commi 2 e
3  dell'art. 51  predetto.  Infatti,  da  una  parte  non  era  stato
minimamente  provato che l'autocarro sequestrato stava trasportando i
rifiuti  in una discarica abusiva (comma 3); dall'altra parte non era
ravvisabile  la  contravvenzione  di  abbandono di rifiuti prevista a
carico  di enti o imprenditori dal comma 2, giacche' l'italiano stava
agendo  quale  privato  e non quali titolare d'impresa, essendo stato
dimostrato  che  il suo autocarro stava trasportando rifiuti speciali
provenienti dal muro di una sua abitazione.
    Col  terzo motivo il ricorrente lamenta violazione degli artt. 12
e  15 d.lgs. n. 22/1997. Confuta l'argomento del giudice del riesame,
secondo  cui  ai  sensi  delle norme predette un regolare impianto di
discarica   non   avrebbe   potuto  ricevere  i  rifiuti  trasportati
dall'indagato senza il prescritto formulario d'identificazione.
    Aggiunge  che  il formulario non e' obbligatorio per il trasporto
di  rifiuti  non  eccedenti  i trenta chilogrammi o i trenta litri al
giorno;  e  che,  nel  caso  di  specie,  non  era  stato  provato il
superamento di tale soglia.

                       Motivi della decisione

    3.   -  Dalla  lettura  del  decreto  dispositivo  del  sequestro
preventivo  e  dalla  impugnata  ordinanza del tribunale del riesame,
risulta  in  linea  di  fatto che l'autocarro sequestrato trasportava
rifiuti speciali provenienti da attivita' di demolizione edilizia, ma
non  risulta  che  tali  rifiuti  fossero sicuramente destinati a una
discarica.
    In linea di diritto, inoltre, l'attivita' di trasporto e deposito
di  rifiuti  in  una  discarica  da  parte  di  terzi  estranei  alla
titolarita'  della discarica stessa configurerebbe solo un'operazione
di  smaltimento  (compresa  nella  categoria D1  dell'Allegato B) del
d.lgs.  n. 22/1997),  e  non  gia'  una  operazione di gestione della
discarica,  che  invece  e'  stata  ipotizzata  in via alternativa da
entrambi i giudici di merito.
    Sotto  entrambi i profili, quindi, non puo' configurarsi il fumus
del  reato di cui all'art. 51, comma 3, del d.lgs. n. 22/1997 ma solo
quello  del  reato di cui all'art. 51, comma 1, dello stesso decreto,
per  trasporto  di rifiuti da parte di soggetto non abilitato, che e'
del  resto  il  reato  che il g.i.p. aveva ravvisato, sia pure in via
subordinata, nella sua ordinanza del 10 giugno 2005.
    Neppure  puo'  configurarsi  il fumus del reato di cui al secondo
comma del medesimo art. 51, per abbandono o deposito incontrollato di
rifiuti da parte di un titolare d'impresa, non perche' l'indagato non
agisce  nella  sua  qualita'  di  imprenditore, bensi' perche' la sua
attivita' si era limitata al trasporto senza arrivare all'abbandono o
al deposito incontrollato dei rifiuti trasportati.
    4.  -  In conclusione, il sequestro preventivo dell'autocarro col
carico  di  rifiuti  speciali,  guidato da Antonino Italiano, sarebbe
legittimo  ai  sensi  dell'art. 321  c.p.p.  perche' ricorrerebbe sia
l'astratta  configurabilita'  del  reato di cui all'art. 51. comma 1,
d.lgs.  n. 22/1997,  sia  il  pericolo  che  la libera disponibilita'
dell'autocarro  potesse facilitare la reiterazione del reato da parte
del suo proprietario.
    Non  c'e'  dubbio,  infatti,  che  Antonino  Italiano,  quando fu
sorpreso  mentre  trasportava  materiali  derivanti  da  attivita' di
demolizione,  era  nell'esercizio  della  sua qualita' d'imprenditore
edile.  Sul  punto,  la  tesi  del ricorrente, secondo cui egli agiva
invece  come  privato  perche'  trasportava rifiuti provenienti dalla
demolizione  di  un muro della sua abitazione, e' una mera asserzione
fattuale inammissibile in sede di legittimita'.
    Piu'  in  particolare,  il  predetto  reato sarebbe integrato dal
fatto  che  l'indagato  trasportava  rifiuti  speciali non pericolosi
senza  essere  iscritto  nell'Albo  nazionale  delle imprese previsto
dall'art. 30  del  d.lgs.  n. 22/1997.  Va  quindi esaminato il primo
motivo di ricorso.
    Al  riguardo bisogna osservare che il comma 4 dell'art. 30, cosi'
come  modificato  dall'art. 1, comma 19, della legge 9 dicembre 1993,
n. 426,  impone  l'obbligo  dell'iscrizione  solo per «le imprese che
svolgono  attivita' di raccolta e trasporto di rifiuti non pericolosi
prodotti  da  terzi e le imprese che raccolgono e trasportano rifiuti
pericolosi»  (escluse  per  queste ultime i trasporti inferiori a una
determinata soglia quantitativa giornaliera).
    Poiche'  non  risulta  che Antonino Italiano trasportasse rifiuti
prodotti  da terzi, ma risulta anzi che trasportava rifiuti derivanti
dalla  sua  stessa  attivita'  d'imprenditore edile, egli non sarebbe
obbligato  alla  iscrizione all'Albo nazionale e non avrebbe commesso
il  reato  di  cui  al  piu'  volte  citato  art. 51, comma 1, d.lgs.
n. 22/1997.
    5.   -   Sennonche'   la   predetta   disposizione  del  comma  4
dell'art. 30,  cosi'  come  modificato  dalla  citata legge 426/1998,
appare in contrasto con la direttiva 91/156/CEE che, nel suo art. 12,
stabilisce  che  «gli  stabilimenti  o le imprese che provvedono alla
raccolta  o  al  trasporto  di  rifiuti a titolo professionale, o che
provvedono  allo  smaltimento  o  al recupero di rifiuti per conto di
terzi  (commercianti o intermediari) devono essere iscritti presso le
competenti  autorita'  qualora non siano soggetti ad autorizzazione».
Invero,  le  imprese che provvedono professionalmente al trasporto di
rifiuti,  contemplate  dalla  direttiva, comprendono anche quelle che
professionalmente  trasportano  rifiuti  da esse stesse prodotte, che
invece la disposizione di legge italiana esclude.
    Nel  dare  attuazione  a  questa direttiva comunitaria col d.lgs.
n. 22/1997,  il  legislatore  nazionale  in  un  primo  tempo  si era
perfettamente   adeguato   all'art. 12  della  direttiva,  stabilendo
testualmente  che  «le  imprese  che  svolgono a titolo professionale
attivita'  di  raccolta  e  trasporto  di  rifiuti  e  le imprese che
raccolgono  e  trasportano  rifiuti  pericolosi,  anche  se  da  esse
prodotti  (..)  devono  essere  iscritte  all'Albo». Ma in un secondo
tempo,  novellando la disposizione mediante l'art. 1, comma 19, legge
426/1998,  ha  violato  l'art. 12,  laddove  ha  escluso dall'obbligo
d'iscrizione   all'Albo   nazionale   l'imprenditore   che  a  titolo
professionale  trasporti  rifiuti (non pericolosi) per conto proprio,
cioe' rifiuti da lui stesso prodotti.
    Questa  conclusione e' ora consacrata, con effetti vincolanti per
l'ordinamento  italiano,  dalla  recente sentenza 9 giugno 2005 della
Corte  di  Giustizia  europea  (Terza  Sezione), che, pronunciando ex
art. 226  (gia'  169)  Trattato  CE  in  una  procedura  d'infrazione
promossa  dalla  Commissione  della  comunita'  contro  la Repubblica
italiana,  ha  testualmente  statuito  che  «la  Repubblica italiana,
permettendo alle imprese, in forza dell'art. 30, comma 4, del decreto
legislativo  5  febbraio 1997 n. 22 (..) come modificato dall'art, 1,
comma  19,  della legge 9 dicembre 1998 n. 426, (.,) di esercitare la
raccolta  e  il  trasporto  dei  propri  rifiuti  non pericolosi come
attivita'  ordinaria  e  regolare  senza  obbligo  di essere iscritte
all'Albo  nazionale  delle  imprese  esercenti servizi di smaltimento
rifiuti...  e'  venuta meno agli obblighi ad essa incombenti ai sensi
dell'art. 12   della   direttiva   del   Consiglio  15  luglio  1975,
75/442/CEE,  relativa ai rifiuti, come modificata dalla direttiva del
Consiglio 18 marzo 1991, 91/156/CEE».
    Poiche'  non  v'e'  dubbio  che  la  direttiva  91/156/CEE,  e in
particolare il suo art. 12, non ha efficacia diretta nell'ordinamento
italiano, e poiche' la sentenza dichiarativa della Corte di giustizia
europea   ha   la   stessa  immediata  efficacia  della  disposizione
comunitaria  interpretata  (v.  per  tutte  Corte  costituzionale, 11
luglio  1989,  n. 389), il giudice italiano, che e' soggetto soltanto
alla   legge  (art. 101.  comma  2,  Cost.),  dovendo  applicare  una
disposizione  legislativa nazionale chiaramente incompatibile con una
norma di diritto comunitario non self executing, non ha altro rimedio
che   sollevare   questione   di  legittimita'  costituzionale  della
disposizione  nazionale con riferimento agli artt. 11 e 117, comma 1,
Cost., al fine di sentirne dichiarare l'abrogazione.
    Nell'inerzia      del      legislatore,      la     dichiarazione
d'incostituzionalita'  da  parte  del giudice delle leggi e' il mezzo
attraverso cui lo Stato italiano puo' dare esecuzione alla menzionata
sentenza della Corte di giustizia europea.
    6.  -  La  non  manifesta  infondatezza  della  questione risulta
chiaramente  dalle considerazioni precedenti, essendo indiscutibile -
dopo  la  sentenza  9 giugno 2005 della Corte lussemburghese - che lo
Stato  italiano,  novellando  il  comma  4 dell'art. 30 con l'art. 1,
comma 19 della legge n. 426/1998, non ha rispettato i vincoli che gli
derivavano  dall'ordinamento  comunitario  attraverso  il  piu' volte
menzionato  art. 12  della direttiva 91/156/CEE, contravvenendo cosi'
agli artt. 11 e 117 della Carta fondamentale.
    Altrettanto  evidente e' la rilevanza della questione, essendo la
norma  denunciata  chiaramente  inerente  alla  regiudicanda  dedotta
davanti  a  questo giudice di legittimita'. Per valutare il fumus del
reato  di  cui  alIart. 51,  comma  1, d.lgs. n. 22/1997, infatti, e'
necessario  applicare  l'art. 30,  comma 4. cosi come novellato dalla
predetta norma della legge 426/1998, a meno che questa sia dichiarata
incostituzionale.
    La  rilevanza  diventa  piu'  problematica se si considera che la
norma  denunciata  (nuovo  testo  dell'art. 30,  comma 4), escludendo
l'obbligo  d'iscrizione  all'Albo  nazionale per gli imprenditori che
esercitano  la  raccolta  e il trasporto di rifiuti non pericolosi da
essi  stessi  prodotti,  ha  modificato in senso favorevole al reo la
precedente  disposizione  (testo  originario  dell'art. 30, comma 4).
depenalizzando  per  i suddetti imprenditori non iscritti all'Albo il
reato di cui all'art. 51, comma 1.
    Emerge  cosi' il noto problema del sindacato di costituzionalita'
sulle  norme penali di favore, cioe' delle norme che, per determinati
soggetti  o ipotesi, abrogano o modificano in senso favorevole al reo
precedenti norme incriminatrici.
    7.   -   Com'e'   ben   noto  a  codesta  Corte,  muovendo  dalla
considerazione   che   l'eventuale   accoglimento   della   eccezione
d'illegittimita'  costituzionale  della  norma penale piu' favorevole
non  potrebbe influire sull'esito del giudizio a quo per il principio
d'irretroattivita'  di  cui all'art. 25, comma 2. Cost. e all'art. 2,
comma  1,  cod.  pen.,  si e' tratta in passato la conclusione che le
eccezioni  d'incostituzionalita'  delle  norme  penali di favore sono
«tipicamente» irrilevanti, con la conseguenza che dette norme restano
sottratte al controllo costituzionale.
    Ma  in  seguito  il  problema  e'  stato  diversamente risolto, a
partire  dalla  sentenza  148/1983, che ha argomentato la rilevanza e
l'ammissibilita'   delle  questioni  d'illegittimita'  costituzionale
sulle norme penali di favore in base al duplice argomento secondo cui
l'accoglimento della questione: a) verrebbe comunque a incidere sulle
formule  di proscioglimento o sui dispositivi della sentenza penale e
si   rifletterebbe   sullo   schema   argomentativo   della  relativa
motivazione;  b)  avrebbe  comunque  un  «effetto  di sistema» la cui
valutazione spetta ai giudici comuni e non al giudice costituzionale.
E  cio'  perche',  senza  vanificare  la garanzia dell'art. 25 Cost.,
anche  le  norme  penali  di favore devono sottostare al sindacato di
costituzionalita',  «a  pena  di  istituire  zone  franche  del tutto
impreviste   dalla   Costituzione,   all'interno   delle   quali   la
legislazione ordinaria diverrebbe incontrollabile».
    Nel  caso  di  specie,  poi,  va aggiunto un ulteriore, decisivo,
argomento.   L'eventuale   sentenza   di   accoglimento  cagionerebbe
l'abrogazione  della  norma denunciata con effetto ex nunc, e quindi,
in  forza  dell'art. 25,  comma  2,  Cost., non potrebbe portare alla
condanna  dell'indagato  Antonino Italiano per il fatto anteriormente
commesso..  E  tuttavia  potrebbe portare alla conferma del sequestro
preventivo  dell'autocarro  da  lui  utilizzato  per il trasporto dei
rifiuti,  in  forza  della  consolidata giurisprudenza secondo cui la
misura  cautelare  di  cui all'art. 321 c.p.p. ha carattere reale, in
quanto   prescinde  dalla  personale  responsabilita'  della  persona
sottoposta  alle  indagini  (v.  fra le sentenze massimate Cass. Sez.
III, n. 1428 del 21 giugno 1994, Menietti, rv. 198175; Cass. Sez. II,
n. 5472  del  21  dicembre  1999,  P.M. in proc. Coppola, rv. 215089;
Cass.  Sez. III, n. 11290 del 20 marzo 2002, P.M. in proc. Di Falco).
Per  conseguenza, la dichiarazione di incostituzionalita' della norma
denunciata  avrebbe  effetto  immediato  nel giudizio cautelare a quo
senza che cio' costituisse violazione dell'art. 25, comma 2. Cost.
    8.  -  Questo  approdo ermeneutico non e' scalfito dalle numerose
statuizioni  di  codesta  Corte che hanno ribadito l'inammissibilita'
del le sentenze additive contra reum per rispetto dell'art. 25, comma
2, Cost., stante la strutturale diversita' delle due ipotesi.
    Infatti,  quando  e' dedotta la questione di costituzionalita' di
una  norma penale di favore, la sentenza di accoglimento ha carattere
ablativo   della   deroga  oggettiva  o  soggettiva  introdotta,  con
l'effetto  di  ripristinare  la  piena portata normativa di una norma
incriminatrice  preesistente.  Al  contrario, la sentenza additiva di
accoglimento  (che  dichiara  incostituzionale  la  norma  sospettata
«nella parte in cui non prevede» etc.) ha l'effetto di creare ex novo
una  norma incriminatrice o di ampliare la portata di una fattispecie
penale  esistente,  usurpando  in  entrambi  i  casi  una prerogativa
spettante   alla  discrezionalita'  del  legislatore  e  violando  il
principio d'irretroattivita' dei reati e delle pene.
    (Diverso  sembra  il caso della sentenza 440/1995, in cui, con un
meccanismo  di  tipo  ablatorio, il Giudice delle leggi, in forze del
principio  di  uguaglianza,  ha  esteso  il  reato di bestemmia della
divinita'  anche  a  tutela  delle  religioni non cattoliche, creando
cosi'  una  nuova  figura  di reato, che pero' non era applicabile al
fatto contestato nel processo a quo).
    Per  diversa  ragione  l'approdo  della  sentenza n. 148/1983 non
appare intaccato neppure dalla recente sent. n. 161/2004 Corte cost.,
la  quale  ha  escluso  la  possibilita'  di  estendere  l'ambito  di
applicazione  della  norma  incriminatrice  di cui all'art. 2621 cod.
civ.  (false  comunicazioni  sociali),  come  sostituito  dall'art. 1
d.lgs.  11  aprile  2002  n. 61, attraverso la rimozione delle soglie
minime di punibilita' ivi previste. Qui, infatti, la Corte ha escluso
la  possibilita'  di  ampliare o aggravare la figura di un reato gia'
esistente  attraverso  la  «demolizione» delle soglie di punibilita',
sul  rilievo  che  queste  soglie  integrano  requisiti essenziali di
tipicita'  del  fatto  ovvero condizioni di punibilita', e cioe' sono
comunque  «un  elemento  che  "delimita"  l'area  d'intervento  della
sanzione  prevista  dalla  norma incriminatrice, e non gia' "sottrae"
determinati  fatti  all'ambito  di  applicazione di altra norma, piu'
generale».
    Tale  essendo  la ratio decidendi, essa non puo' essere applicata
ai  casi  -  come  quello  presente  - in cui la norma denunciata per
incostituzionalita' e' una norma penale di favore, la quale «sottrae»
determinate  ipotesi (nel caso specifico, il trasporto di rifiuti non
pericolosi  effettuato  da  un  imprenditore per conto proprio) a una
norma incriminatrice generale (derivante dal combinato disposto degli
artt. 30 e 51, comma 1, d.lgs. n. 22/1997 nel loro testo originario).
In  altri termini, facendo cadere per incostituzionalita' la modifica
che  l'art. 1,  comma  19.  della  legge  9  dicembre  1998 n. 426 ha
apportato all'art. 30, comma 4, d.lgs. n. 22/1997, si ripristinerebbe
la  portata  originaria  di  una  norma  incriminatrice gia' presente
nell'ordinamento,  che  la novella del 1998 ha parzialmente derogato;
facendo  cadere le soglie di punibilita' previste nell'art. 2621 cod.
civ.,  invece, si amplierebbe la portata penale della stessa norma al
di la' dei limiti in cui il legislatore l'aveva configurata.
    9.  -  Analogo  problema si e' presentato alla Corte di giustizia
europea,   chiamata   ex  art. 234  (gia'  177)  del  Trattato  CE  a
interpretare  la  nozione  comunitaria  di  rifiuto, e a saggiarne la
compatibilita'   con   quella  ridefinita  dal  legislatore  italiano
attraverso  l'art. 14  del  d.l.  8 luglio 2002 n. 138, convertito in
legge  8  agosto 2002, n. 178, posto che la ricostruzione ermeneutica
operata  dalla  Corte  stessa poteva avere effetti tali da entrare in
rotta  di collisione con il principio di legalita' e irretroattivita'
dei  reati  e  delle pene, che e' ritenuto parte integrante anche del
diritto  comunitario  (C.  giustizia, Sez. II, dell'11 novembre 2004,
causa C457/02, Niselli).
    Al riguardo, la sentenza Niselli, premesso che «una direttiva non
puo'  avere  l'effetto,  di  per se' e indipendentemente da una norma
giuridica  di  uno  Stato  membro  adottata per la sua attuazione, di
determinare  o  di  aggravare la responsabilita' penale di coloro che
agiscono  in  violazione  delle  sue disposizioni», preso atto che il
fatto  contestato  all'  imputato  era stato commesso sotto il vigore
delle disposizioni incriminatrici di cui al d.lgs n. 22/1997, e prima
dell'entrata in vigore dell'art. 14 d.l. n. 138/2002, ha concluso che
non  vi  era  «motivo  di  esaminare  le  conseguenze  che potrebbero
discendere  dal  principio di legalita' delle pene per l'applicazione
della direttiva 75/442» (parr. 29 e 30).
    Diverso  e' il caso affrontato piu' di recente dalla stessa Corte
europea, Grande Sezione, chiamata a risolvere in via pregiudiziale la
questione  se  il  trattamento sanzionatorio piu' favorevole previsto
dai  novellati artt. 2621 (false comunicazioni sociali) e 2622 (false
comunicazioni  sociali  in  danno  dei soci o dei creditori) cod.civ.
fosse  o  meno adeguato in relazione all'art. 6 della prima direttiva
comunitaria  sul diritto societario (sentenza 3.5.2005, Cause riunite
C-387/02, C-391/02 e C-403/02, Berlusconi e altri).
    La  sentenza  ha  osservato  che  il  principio dell'applicazione
retroattiva della pena piu' mite fa parte integrante delle tradizioni
costituzionali  comuni degli Stati membri e dei principi generali del
diritto  comunitario  (parr.  68  e  69); e ha concluso che «la prima
direttiva  sul  diritto societario non puo' essere invocata in quanto
tale  dalle  autorita'  di uno Stato membro nei confronti di imputati
nell'ambito  di  procedimenti  penali, poiche' una direttiva non puo'
avere  come  effetto,  di  per  se'  e indipendentemente da una legge
interna  di  uno  Stato  membro  adottata  per  la sua attuazione, di
determinare  o  aggravare  la  responsabilita' penale degli imputati»
(par. 78 e dispositivo).
    Basti  rilevare  in proposito che, nel caso esaminato dalla corte
europea,   ne'  gli  originari  artt. 2621  e  2622  cod.  civ.,  che
prevedevano  un  trattamento  sanzionatorio  piu'  severo, e sotto la
vigenza  dei  quali  erano  stati  commessi i reati contestati, ne' i
nuovi   artt. 2621   e  2622  cod.  civ.,  che  hanno  introdotto  un
trattamento  penale  piu' mite, costituiscono attuazione di direttive
comunitarie;  sicche'  si  comprende  l'affermazione  secondo cui una
direttiva  comunitaria,  per se stessa e senza la mediazione di leggi
nazionali  di  attuazione,  non  possa  determinare  o  aggravare una
responsabilita'  penale nella soggetta materia. Mentre nel caso della
disciplina  sui  rifiuti, la direttiva comunitaria e' stata trasposta
nell'ordinamento  nazionale  attraverso  il d.lgs. n. 22/1997, che ha
previsto  in  aggiunta  un  sistema  sanzionatorio  a  presidio della
disciplina  stessa,  sicche'  ne' la previsione della responsabilita'
penale,  ne' la sua limitazione derivano direttamente dalla direttiva
comunitaria, essendo, invece, state introdotte, la prima dall'art. 51
del  d.lgs.  n. 22/1997,  e  la  seconda dall'art. 1, comma 19, della
legge  n. 426/1998.  Nella  presente vicenda processuale, quindi, non
puo'  farsi  ricorso  al  principio  statuito nella suddetta sentenza
comunitaria  del  3.5.2005.  proprio  perche'  presupposto  di questo
principio e' la mancanza di norme nazionali attuative della direttiva
comunitaria.
    10.  -  Infine,  la rilevanza e ammissibilita' della questione di
legittimita'  costituzionale  del testo novellato dell'art. 34. comma
4,  d.lgs.  n. 22/1997 trova conforto in numerose sentenze di codesta
Corte,  che,  proprio  in  materia  di  rifiuti,  hanno dichiarato la
illegittimita'  costituzionale  di  varie leggi regionali che avevano
depenalizzato lo stoccaggio provvisorio non espressamente autorizzato
di rifiuti tossici e nocivi (n. 306/1992; n. 437/1992; n. 194/1993) o
l'accumulo temporaneo di rifiuti tossici e nocivi (sent. 213/1991), o
che  avevano  escluso  dagli  impianti  di smaltimento di rifiuti gli
impianti  di  depurazione  per  conto terzi di rifiuti liquidi, cosi'
esonerando  la  loro  gestione  dall'obbligo di autorizzazione (sent.
173/1998).
    In  questi  casi la caducazione delle norme legislative regionali
per   contrasto   con   fonti  normative  gerarchicamente  superiori,
costituzionali  e  comunitarie,  e' perfettamente sovrapponibile alla
richiesta  caducazione del testo novellato del richiamato art. 30 per
contrasto  col  diritto  comunitario;  ed  ha  gli stessi effetti sul
trattamento   penale   degli   imputati   nell'ambito   dei  processi
principali.
    Per  tutte  queste  ragioni  non  sembra  potersi  dubitare della
rilevanza della questione.