LA CORTE DI APPELLO

    Ha pronunciato la seguente ordinanza.
    Decidendo  sull'eccezione,  formulata dal p.g. all'udienza del 21
aprile  2006,  cui  si  e' associato il difensore della parte civile,
concernente  la  legittimita'.  costituzionale  dell'art. 593 c.p.p.,
come  modificato  dall'art. 1, legge n. 46/2006, e dell'art. 10 della
medesima  legge,  in  relazione  agli  artt. 3, 111, comma 2, prima e
seconda  parte, e 112 della Costituzione, per violazione dei principi
di  eguaglianza,  di parita' delle parti nel processo, di ragionevole
durata del processo e di obbligatorieta' della azione penale;
    Sentiti  i  difensori dell'imputato che hanno chiesto dichiararsi
irrilevanti e/o manifestamente infondate le questioni proposte;

                            O s s e r v a

    Con  sentenza del 5 luglio 2001 Mannino Calogero e' stato assolto
ai  sensi  dell'art.  530 c.p.p. «perche' i fatti non sussistono» dal
reato di concorso nell'associazione mafiosa Cosa Nostra.
    A  seguito  di  appello  proposto  dal p.m. e dal difensore della
parte  civile,  la  Corte  di appello di Palermo con sentenza dell'11
maggio  2004 ha dichiarato il Mannino colpevole del reato di cui agli
artt. 110  e  416-bis  c.p.  e lo ha condannato alla pena di anni 5 e
mesi 4 di reclusione.
    Su   ricorso  dell'imputato  le  sezioni  unite  della  Corte  di
cassazione  con  sentenza  n. 33748  del  12 luglio-20 settembre 2005
hanno  annullato  la sentenza impugnata e rinviato per nuovo esame ad
altra   sezione   di   questa   Corte   di  appello  per  rivalutare,
uniformandosi ai principi di diritto enunciati, tutti gli elementi di
prova legittimamente acquisiti ed utilizzabili.
    In  data  9  marzo 2006 e' entrata in vigore la legge 20 febbraio
2006,  n. 46 il cui art. l ha modificato l'art. 593 c.p.p., limitando
la  possibilita' per il pubblico ministero di proporre appello contro
le sentenze di proscioglimento alla sola ipotesi di cui all'art. 603,
comma 2, c.p.p., «se la nuova prova e' decisiva».
    In  tale  residuale  ipotesi  il  giudice,  ove  non  disponga la
rinnovazione  dell'istruttoria dibattimentale, dichiara con ordinanza
l'inammissibilita'  dell'appello  e  le  parti, entro 45 giorni dalla
notifica  del  provvedimento, possono proporre ricorso per cassazione
anche contro la sentenza di primo grado.
      L'art.  10,  nel  dettare la disciplina transitoria, dispone al
comma   2   che   «l'appello   proposto   contro   una   sentenza  di
proscioglimento  dall'imputato  o  dal pubblico ministero prima della
data  di  entrata  in  vigore  della  presente legge viene dichiarato
inammissibile con ordinanza non impugnabile» ed al comma 3 che «entro
45 giorni dalla notifica del provvedimento di inammissibilita' di cui
al  comma  2  puo'  essere  proposto ricorso per cassazione contro le
sentenze di primo grado».
    Il comma 4 dello stesso art. 10 recita «La disposizione di cui al
comma  2  si  applica  anche  nel caso in cui sia annullata, su punti
diversi  dalla  pena  o  dalla  misura  di sicurezza, una sentenza di
condanna  di una corte di assise di appello o di una corte di appello
che abbia riformato una sentenza di assoluzione».
    Ne  consegue  che  in  applicazione della legge n. 46 del 2006 la
Corte,  nel  presente giudizio di rinvio, dovrebbe emettere ordinanza
di   inammissibilita'  dell'appello  proposto  dal  p.m.  avverso  la
sentenza di assoluzione del Mannino.
    All'udienza   del   21   aprile   2006   il   p.g.   ha  eccepito
l'illegittimita' costituzionale dell'art. 593 c.p.p., come modificato
dall'art. 1,  legge  n. 46/2006, e dell'art. 10 della medesima legge,
in relazione agli artt. 3, 111, comma 2, prima e seconda parte, e 112
della   Costituzione,  ravvisando  una  violazione  dei  principi  di
eguaglianza,  di  parita'  delle  parti  nel processo, di ragionevole
durata del processo e di obbligatorieta' della azione penale.
    Il  difensore  della parte civile, depositando una memoria, si e'
associato  alle  questioni  sollevate dal p.g., rilevando tuttavia un
ulteriore  profilo  di  contrasto della normativa con l'art. 97 della
Costituzione   e  formulando  in  via  subordinata  la  questione  di
legittimita'  dell'art.  10, legge n. 46 del 2006 nella parte in cui,
dichiarata eventualmente dalla Corte l'inammissibilita' dell' appe1lo
del  p.m.,  consente  il proseguimento del giudizio solo per l'azione
civile.
    I  difensori  dell'imputato,  depositando  anch'essi una memoria,
hanno  chiesto  dichiararsi  manifestamente infondate e/o irrilevanti
tutte le questioni di legittimita' costituzionale proposte dal p.g.
    Deve  preliminarmente  evidenziarsi  la  palese  rilevanza  della
questione  di  legittimita'  costituzionale  proposta  in  quanto  la
normativa  indicata, come gia' esposto, e' applicabile in forza della
disciplina  transitoria  anche al presente giudizio di appello che si
celebra su rinvio della suprema Corte.
    Il  profilo di illegittimita' costituzionale dedotto dal p.g.. in
riferimento  al  ritenuto  contrasto del nuovo art. 593 c.p.p. con il
principio'  dell'obbligatorieta'  dell'azione penale (art. 112 Cost.)
e' manifestamente infondato.
    La  tesi  del  p.g.  secondo cui l'obbligo di promuovere l'azione
penale  ricomprende  anche  il  potere  di  impugnazione del pubblico
ministero   e'   stata   gia'   piu'   volte   respinta  dalla  Corte
costituzionale  che  ha  escluso  la  violazione  dell'art. 112 della
Costituzione  «non costituendo il potere di impugnazione del pubblico
ministero   una   estrinsecazione   necessaria  dei  poteri  inerenti
all'esercizio  dell'azione  penale»  (cfr. ordinanze n. 110 e 165 del
2003, n. 347 del 2002 e n. 421 del 2001).
    Gia'  con  sentenza  n. 280 del 1995 la Corte ha invero affermato
che  «il potere di appello del pubblico ministero non puo' riportarsi
all'obbligo  di  esercitare  l'azione  penale come se di tale obbligo
esso  fosse  -  nel  caso  in  cui  la  sentenza di primo grado abbia
disatteso in tutto o in parte le ragioni dell'accusa - una proiezione
necessaria  ed  ineludibile, rilevando altresi' che «tutto il sistema
delle  impugnazioni penali, ed in particolare dell'appello ... depone
nel  senso  che  il potere del pubblico ministero di proporre appello
avverso  la  sentenza di primo grado, anche se in certe situazioni ne
possa   apparire   istituzionalmente  doveroso  l'esercizio,  non  e'
riconducibile all'obbligo di esercitare l'azione penale».
    Il   principio  dell'obbligatorieta'  dell'esercizio  dell'azione
penale,  costituzionalmente  previsto  e  garantito,  non puo' dunque
invocarsi  con  riferimento  alla  proposizione,  solo discrezionale,
dell'appello  da parte del pubblico ministero contro una sentenza che
abbia  ritenuto  infondata  la  sua  pretesa  punitiva, specie ove si
consideri  che  la mancata impugnazione non deve in alcun modo essere
motivata e ad essa, se proposta, puo' persino rinunciarsi.
    Manifestamente  infondato  si appalesa anche il dedotto contrasto
del  novellato  art. 593  c.p.p.  con  il principio della ragionevole
durata   del  processo  (art.  111,  comma  2,  seconda  parte  della
Costituzione)  risultando  sufficiente  al  riguardo  rilevare che la
riduzione  della  possibilita'  per il pubblico ministero di proporre
impugnazione  avverso le sentenze di proscioglimento, con conseguente
soppressione  di  un grado di giudizio, e la limitata possibilita' di
far  valere  direttamente  dinanzi alla Corte di cassazione i vizi di
legittimita' che la inficino, assicurano al complessivo sistema della
giustizia una incontestabile e palese economia di tempi.
    Ne'  ha rilievo il richiamo del p.g. alla ipotesi che la Corte di
cassazione  annulli  la sentenza di assoluzione con rinvio al giudice
di primo grado dinanzi al quale dovrebbe celebrarsi un nuovo giudizio
di  merito  «la  cui  durata  sara'  di  gran lunga maggiore rispetto
all'attuale giudizio di appello».
    E' evidente infatti che in caso di annullamento con rinvio, tutta
l'attivita'  istruttoria compiuta, salvo casi limitati, conserverebbe
la   sua   validita'  ed  efficacia  probatoria,  riducendo  comunque
notevolmente i tempi del nuovo giudizio di merito.
    Sono  altresi'  manifestamente  infondate  le  censure, formulate
dalla  sola  difesa  della  parte  civile,  sollevate  in riferimento
all'art. 97  della Costituzione, avendo la Corte di legittimita' piu'
volte  affermato  che  «il principio di buon andamento della pubblica
amministrazione     -    pur    concernendo    anche    gli    organi
dell'amministrazione  della  giustizia  - si riferisce esclusivamente
alle  leggi  relative  all'ordinamento  degli uffici giudiziari ed al
funzionamento   di  questi  ultimi  sotto  l'aspetto  amministrativo,
risultando   di   per   se'  estraneo  all'esercizio  della  funzione
giurisdizionale»  (v.  ordinanze  n. 110  del 2003, n. 370 del 2002 e
n. 412  del 1999; nonche' sentenze n. 115 del 2001, n. 381 del 1999 e
n. 53 del 1998).
    Rileva   invece   la  Corte  che  la  questione  di  legittimita'
costituzionale  dell'art. 593  in riferimento al principio di parita'
delle  parti  (artt.  3 e 111, secondo comma, prima parte, Cost.) non
appare   manifestamente  infondata  nei  limiti  in  cui  il  giudice
ordinario deve effettuare il suo preliminare esame, senza interferire
con  i  poteri propri della Corte di legittimita' cui e' demandato in
via  esclusiva  il  compiuto  giudizio  in ordine alla compatibilita'
costituzionale della normativa.
    E'  noto che la questione della limitazione del potere di appello
del  p.m.  e'  gia'  stata affrontata dalla Corte costituzionale, con
specifico riferimento al giudizio abbreviato.
    L'art.  443,  comma  3  c.p.p.  prevede  infatti  che il pubblico
ministero  non  possa proporre appello contro le sentenze di condanna
pronunciate  nel  giudizio abbreviato salvo che si tratti di sentenza
che modifica il titolo del reato.
    Con  l'ordinanza  n. 165  del  2003  la  Corte  ha  dichiarato la
manifesta infondatezza della questione di legittimita' costituzionale
delltart. 443,  comma  3,  sollevata, in riferimento agli artt. 2, 3,
24, 111, secondo comma, e 112 della Costituzione.
    La Corte costituzionale ha evidenziato, in riferimento al dedotto
contrasto della disposizione impugnata con gli artt. 3 e 111, secondo
comma,  della  Costituzione,  che il principio di parita' delle parti
«non  comporta  necessariamente  l'identita' tra i poteri processuali
del  pubblico  ministero e quelli dell'imputato», affermando tuttavia
che  una  disparita'  di trattamento puo' risultare giustificata «nei
limiti   della   ragionevolezza,   sia   dalla   peculiare  posizione
istituzionale  del pubblico ministero, sia dalla funzione allo stesso
affidata,  sia  da  esigenze  connesse  alla corretta amministrazione
della giustizia».
    Con  la  conseguenza  che,  nel  caso del giudizio abbreviato, il
limite   all'appello   della   parte   pubblica  continua  a  trovare
ragionevole  giustificazione  nell'obiettivo  primario della rapida e
completa definizione dei processi svoltisi in primo grado con un rito
che   implica   una  decisione  fondata,  in  primis,  sul  materiale
probatorio   raccolto   dalla   parte   che  subisce  la  limitazione
denunciata,  fuori  delle  garanzie  del  contraddittorio (cfr. anche
ordinanza  n. 347  del  2002;  e,  con  riferimento al solo art. 111,
secondo comma, Cost., ordinanza n. 421 del 2001).
    E'  dunque la rinuncia da parte dell'imputato ad uno dei principi
del giusto processo (il contraddittorio nella raccolta delle prove) a
giustificare  la  disparita'  di  trattamento che l'art. 443, comma 3
c.p.p.  produce  privando  il  p.m.  della  facolta'  di appellare la
sentenza di condanna a seguito di giudizio abbreviato.
    Non  sembra  dunque  che  la  Corte abbia finora mai affermato il
principio  della conformita costituzionale di una disparita di poteri
fondata solo sulla diversa qualita' della parte (pubblico ministero o
imputato),  avendo  invece  sempre  affermato  il  principio  opposto
secondo cui occorre dare conto delle ragioni che rendono razionale la
differenziazione nei casi di volta in volta sottoposti al suo vaglio.
    E'  stato  pertanto  affermato il principio che una disparita' di
trattamento  riguardo  ai  poteri  processuali del pubblico ministero
puo'  essere  giustificata  nei  limiti  della  ragionevolezza  dalla
peculiare  posizione  istituzionale  del  pubblico  ministero,  dalla
funzione  allo  stesso  affidata,  ovvero infine da esigenze connesse
alla corretta amministrazione della giustizia.
    La  Corte  di legittimita' sin dal 1991 (cfr. n. 363 del 1991) ha
ritenuto  costituzionalmente  compatibile  una  differenziazione  dei
poteri   processuali   del   pubblico  ministero  rispetto  a  quelli
dell'imputato  e  del  suo  difensore, sottolineando tuttavia che «in
ogni caso il diverso trattamento riservato al pubblico ministero, per
essere  conforme  a  Costituzione,  dovra'  trovare  una  ragionevole
motivazione»  proprio  nella  peculiare  posizione  istituzionale del
pubblico  ministero,  nella  funzione  allo  stesso  affidata,  nelle
esigenze connesse alla corretta amministrazione della giustizia.
      Anche  con l'ordinanza n. 110 del 2003 e' stato ribadito che il
principio  di parita' tra accusa e difesa di cui all'art. lll comma 2
della  Costituzione,  riconosciuto  peraltro come «pacificamente gia'
presente  fra  i  valori  costituzionali  anche prima delle modifiche
apportate   dalla  legge  costituzionale  n. 2  del  1999»,  pur  non
comportando  necessariamente l'identita' tra i poteri processuali del
pubblico  ministero e quelli delle altre parti, e' rispettato solo se
una   diversita'   di   trattamento   sia  stabilita  ragionevolmente
nell'ambito  delle  scelte  discrezionali del legislatore, proprio in
ragione   della   peculiare   posizione  istituzionale  del  pubblico
ministero.
    In  tal senso si e' espresso anche il Presidente della Repubblica
nel  messaggio  con  il  quale  il  20  gennaio  2006  ha rinviato al
Parlamento   la   legge   sull'inappellabilita'   delle  sentenze  di
proscioglimento dopo la sua prima approvazione, laddove si' evidenzia
come  la  soppressione dell'appello delle sentenze di proscioglimento
«a  causa  della  disorganicita'  della  riforma fa si' che la stessa
posizione  delle  parti nel processo venga ad assumere una condizione
di  disparita'  che supera quella compatibile con la diversita' delle
funzioni  svolte dalle parti stesse nel processo» e si sottolinea che
«le asimmetrie tra accusa e difesa costituzionalmente compatibili non
devono  mai  travalicare i limiti fissati dal secondo comma dell'art.
111  della  Costituzione, a norma del quale: "Ogni processo si svolge
nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parita', davanti a
giudice terzo e imparziale"».
    Orbene, la soppressione del potere di impugnazione delle sentenze
di  proscioglimento  da  parte del p.m., introdotto dalla legge n. 46
del 2006, salva la residuale, e certamente eccezionale, ipotesi della
scoperta   di   una   prova  nuova  e  decisiva  nel  limitato  tempo
intercorrente  tra  la deliberazione della sentenza e la scadenza del
termine per appellare, non sembra trovare ragionevole giustificazione
nei   limiti   richiesti   dalle   richiamate  pronunce  della  Corte
costituzionale.
    La  riforma  infatti  sottrae  solo ad una parte lo strumento del
nuovo  giudizio di merito per vedere riconosciuta la fondatezza della
sua  pretesa  punitiva,  violando il principio sancito dall'art. 111,
secondo  comma  della  Costituzione,  che  prevede che il processo si
svolga  in  condizione  di parita tra le parti, assicurando a ciascun
soggetto  processuale  eguali strumenti per raggiungere gli obiettivi
suoi  propri,  dovendo  tale  principio  essere inteso nel senso piu'
ampio   con  riferimento  alla  pronuncia  conclusiva  sulla  propria
domanda.
    Risulta  invero  oltremodo  riduttivo  ritenere  che il principio
della  parita'  tra  le  parti  di  cui  all'art. lll,  2 comma della
Costituzione  sia  previsto,  come sostenuto nella memoria depositata
dalla  difesa  dell'imputato,  solo  con  riferimento  alla  fase del
dibattimento   ed   all'acquisizione   della  prova,  dovendo  invece
ritenersi  che esso tuteli il diritto all'intervento dialettico delle
parti  in  ogni  fase  del  giudizio  e  dunque anche il diritto alla
critica  in condizioni di parita' della decisione finale del giudizio
che appaia insoddisfacente per l'una o per l'altra parte.
    Lo  squilibrio  fra  le parti introdotto dalla riforma non appare
ragionevolmente  compatibile  con  i  criteri  che  la  stessa  Corte
costituzionale ha piu' volte ribadito.
    Non  sembra  esservi  infatti  alcuna ragionevole giustificazione
della disparita' nell'attribuzione del potere di impugnazione, finora
riconnessa,   come   nell'ipotesi   gia'  esaminata  dalla  Corte  di
legittimita'  del  giudizio  abbreviato, a istituti deflattivi in cui
rinunce  dell'imputato  producono  il  risultato  apprezzabile  della
definizione piu' sollecita del processo.
      Giova  peraltro evidenziare che l'avere lasciato esclusivamente
all'imputato  lo  strumento di un nuovo giudizio di merito per vedere
riconosciuta  la  propria  innocenza  sembra contrastare con i canoni
della  ragionevolezza  anche  in  considerazione del fatto che, in un
sistema  nel  quale  «il  doppio grado di giurisdizione di merito non
forma  oggetto di garanzia costituzionale» (cfr. ordinanza n. 421 del
2001),  «non  e' la doppia istanza che garantisce la completa difesa,
ma  piuttosto  la possibilita' di prospettare al giudice ogni domanda
ed   ogni  ragione  che  non  siano  legittimamente  precluse»  (cfr.
ordinanza  n. 421 del 2001), «non e' la doppia istanza che garantisce
la  completa  difesa,  ma piuttosto la possibilita' di prospettare al
giudice  ogni  domanda  ed  ogni ragione che non siano legittimamente
precluse» (cfr. ordinanza n. 316 del 2002).
    Si  osserva  che  la  indispensabilita' di un secondo giudizio di
merito   troverebbe   fondamento   nell'art. 2   del  VII  Protocollo
addizionale  alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti
dell'uomo,  firmato  a  Strasburgo  il  22  novembre  1984, rubricato
«Diritto  ad un doppio grado di giurisdizione in materia penale», che
al  suo  primo  comma sancisce il diritto di «ogni persona dichiarata
rea da un tribunale di far esaminare la dichiarazione di colpevolezza
o la condanna da un tribunale della giurisdizione superiore».
    Ma  a tale osservazione si obietta fondatamente che e' proprio la
medesima  fonte  internazionale  a  prevedere  il  riconoscimento del
«diritto  ad  un  doppio grado di giurisdizione» anche a favore della
parte pubblica, se e' vero che il secondo comma del menzionato art. 2
sancisce  che  il  diritto al secondo giudizio di merito «puo' essere
oggetto  di  eccezioni»,  tra  l'altro,  proprio  nell'ipotesi in cui
l'imputato  «e'' stato dichiarato colpevole e condannato a seguito di
un ricorso avverso il suo proscioglimento».
    Se dunque il legislatore consente ad una parte di sottoporre a la
decisione   ead   un   controllo  critico  da  parte  di  un  giudice
sovraordinato,  tale  diritto  non  puo'  non essere assicurato anche
all'altra   parte,   salvo  che  sussistano  ragionevoli  motivi  che
legittimino la disparita' di trattamento.
    Il  contrasto  con il canone della ragionevolezza emerge altresi'
dal   rilievo  -  anch'esso  sottolineato  nel  menzionato  messaggio
Presidenziale  del  20  gennaio 200 («Un'ulteriore incongruenza della
nuova  legge  sta  nel  fatto  che  il  pubblico ministero totalmente
soccombente  non puo' proporre appello, mentre cio' gli e' consentito
quando  la  sua  soccombenza  sia  solo parziale, avendo ottenuto una
condanna  diversa  da  quella richiesta») - che la nuova normativa fa
salvo  il potere del p.m. di appellare la sentenza di condanna ad una
pena  ritenuta  inadeguata,  laddove  e'  incontestabile  il maggiore
interesse  della  parte  pubblica  ad appellare la sentenza che abbia
respinto l'istanza punitiva.
    Ne'  pare  conducente  l'osservazione  secondo  cui  la  modifica
apportata  dall'art.  5,  legge  n. 46 del 2006 all'art. 533, comma 1
c.p.p.,  nella  parte in cui impone che il giudice pronuncia sentenza
di  condanna  solo se l'imputato risulta colpevole «al di la' di ogni
ragionevole  dubbio»,  giustificherebbe la soppressione del potere di
appello della sentenza assolutoria da parte del p.m., sul rilievo che
non  puo'  ammettersi  la  condanna  di  un  imputato pronunciata dal
giudice  di appello dopo che il giudice di primo grado lo ha assolto,
cosi'  ritenendo sussistente almeno il «ragionevole dubbio» della sua
colpevolezza.
    La  regola  introdotta  dalla  nuova  legge, invero, non presenta
sostanziali  caratteri di novita' rispetto alla previgente disciplina
limitandosi  a prevedere espressamente sul piano normativa quanto era
stato  gia'  affermato  in  giurisprudenza  anche dalle sezioni unite
della    suprema    Corte    in    ordine    alla    riconducibilita'
dell'insufficienza,   della   contraddittorieta'   e  dell'incertezza
probatoria,  previste  dall'art. 530 comma 2 c.p.p., al «plausibile e
ragionevole dubbio» (cfr. sez. unite sent. n. 30328 del 2002).
    Altro  profilo  di illegittimita' costituzionale e' stato dedotto
dal  p.g.,  e  dal difensore della parte civile, con riferimento alla
disciplina  transitoria  dettata  dall'art. 10, ritenuta in contrasto
con  l'art. 3 della Costituziono, nella parte in cui non consente per
i  processi in corso, e dunque anche in sede di giudizio a seguito di
rinvio dalla Cassazione (comma 4), la possibilita' prevista in regime
ordinario  dal  novellato  art. 593  comma  2  c.p.p. di appellare la
sentenza  di proscioglimento nelle ipotesi di cui all'art. 603, comma
2, c.p.p., «se la nuova prova e' decisiva».
    Riconosciuta  la  palese  rilevanza  nel  presente processo della
dedotta  questione  -  avendo  il  p.g.  gia' formulato nella memoria
depositata (fg. 9) la richiesta di esame di un nuovo collaboratore di
giustizia  le cui dichiarazioni sono prospettate come decisive - deve
rilevarsi   la   non   manifesta  infondatezza  anche  dell'eccezione
proposta.
    Emerge invero una manifesta disparita' di trattamento, che appare
priva   di   ogni   ragionevole   giustificazione,   tra   situazioni
assolutamente  identiche  laddove  la valutazione dell'ammissibilita'
dell'appello  del p.m. contro le sentenze di proscioglimento, in caso
di  sopravvenuta  nuova  prova  decisiva,  dipende esclusivamente dal
fatto che l'impugnazione sia stata proposta prima o dopo l'entrata in
vigore della nuova legge.
    Le ulteriori questioni di legittimita' costituzionale dell'art.10
sono  state  prospettate  dalla difesa della parte civile solo in via
subordinata (fg. 16 memoria), e pertanto restano allo stato assorbite
dalla  ritenuta  non  manifesta infondatezza dell'eccezione formulata
dai p.g.