LA CORTE DI CASSAZIONE

    Ha  pronunciato  la seguente ordinanza interlocutoria sul ricorso
proposto  da: Comune di Avellino, in persona del Sindaco pro tempore,
elettivamente  domiciliato  in  Roma,  via Pier Vettori n. 19, presso
l'avv.  Raffaele  Lavarra,  rappresentato e difeso dall'avv. Marcello
Buono, giusta procura a margine del ricorso, ricorrente;
    Contro Preziosi Elsa, I.A.C.P. Provincia di Avellino, intimati; e
sul  secondo  ricorso  n. 11050/03  proposto  da:  Preziosi  Elsa  in
proprio,  Preziosi  Gerarda o Gerardina in persona della procuratrice
Preziosi   Elsa,  Preziosi  Dionigi  in  persona  della  procuratrice
Preziosi  Elsa,  elettivamente domiciliati in Roma, via Eudo Giulioli
n. 17,  presso  il  sig. Giuseppe Mazzitelli, rappresentanti e difesi
dall'avv. Antonio Barra, giusta mandato a margine del controricorso e
ricorso incidentale, controricorrente e ricorrente incidentale;
    Contro  Comune  di  Avellino, in persona del sindaco pro tempore,
elettivamente  domiciliato  in  Roma,  via Pier Vettori n. 19, presso
l'avv.  Raffaele  Lavarra,  rappresentato e difeso dall'avv. Marcello
Buono,  giusta  procura a margine del controricorso, controricorrente
al ricorso incidentale;
    Contro  I.A.C.P.  Provincia  di  Avellino,  intimato; e sul terzo
ricorso  n. 10817/03  proposto da: I.A.C.P. Provincia di Avellino, in
persona  del  legale rappresentante pro tempore, domiciliato in Roma,
via   A.   Armellini   n. 55   presso  famiglia  Baldassarre-D'Amore,
rappresentato  e  difeso dall'avv. Pellegrino Musto, giusta mandato a
margine del ricorso, controricorrente e ricorrente incidentale;
    Contro  Preziosi  Elsa,  Preziosi  Dionigi,  Comune  di Avellino,
intimati  e sul quarto ricorso n. 11052/03 proposto da: Preziosi Elsa
in   proprio,   Preziosi   Gerarda   o  Gerardina  in  persona  della
procuratrice   Preziosi  Elsa,  Preziosi  Dionigi  in  persona  della
procuratrice  Preziosi  Elsa,  elettivamente domiciliati in Roma, via
Eudo   Giulioli   n. 17,   presso   il   sig.   Giuseppe  Mazzitelli,
rappresentati  e  difesi  dell'avv.  Antonio  Barra, giusta mandato a
margine  del  controricorso e ricorso incidentale, controricorrente e
ricorrente incidentale;
    Contro  I.A.C.P.  Provincia  di  Avellino,  Comune  di  Avellino,
intimati  avverso  la  sentenza  n. 2757/02  della Corte d'appello di
Napoli, depositata il 17 settembre 2002;
    Udita  la relazione della causa svolta nella pubblica udienza del
22 marzo 2006 dal Consigliere dott. Salvatore Salvago;
    Udito  per  il ricorrente Comune di Avellino, l'avv. Buono che ha
chiesto  l'accoglimento  del  ricorso  principale  ed  il rigetto del
ricorso n. 11050/03;
    Udito  per il ricorrente I.A.C.P., l'avv. Musto che ha chiesto il
rigetto  del  ricorso  principale  e  l'accoglimento  di quello dello
I.A.C.P.;
    Udito  per  il controricorrente e ricorrente incidentale Preziosi
Elsa,   l'avv.  Barra  che  ha  chiesto  l'accoglimento  dei  ricorsi
n. 11050/02 e 11052/02 ed il rigetto degli altri due ricorsi;
    Udito il p.m. in persona del Sostituto Procuratore Generale dott.
Pasquale  Paolo  Maria Ciccolo che ha concluso per l'accoglimento del
ricorso  del  Comune  di  Avellino;  per il rigetto del ricorso dello
I.A.C.P.; per l'inammissibilita' o il rigetto dei ricorsi incidentali
Preziosi;  in  via  subordinata,  per la trasmissione degli atti alla
Corte costituzionale.

                              F a t t o

 e   m o t i v i      1. - Ritenuto che il Tribunale di Avellino, con
sentenza  del  16 dicembre  1991,  condannava il Comune di Avellino e
l'I.A.C.P.  dell'omonia  provincia  al  pagamento  in favore di Elsa,
Gerarda  e  Dionigi  Preziosi,  della  somma  di  L. 394.109.540  per
l'avvenuta  occupazione  espropriativa  di  alcuni  terreni  di  loro
proprieta', ubicati nella locale via Annarumma onde realizzare alcuni
alloggi  popolari,  nonche'  opere di edilizia sociale; e determinava
l'indennita' per l'occupazione temporanea degli stessi immobili nella
misura di L. 68.040.000.
    Che  in  parziale  accoglimento  dell'impugnazione  dei  due enti
pubblici,  la  Corte  di appello di Napoli, con sentenza del 27 marzo
1995,  dichiarava  il  difetto  di  legittimazione  dell'I.A.C.P. con
riferimento    all'occupazione    temporanea   ed   il   difetto   di
legittimazione  del comune in relazione al risarcimento del danno per
l'occupazione acquisitiva, determinato in complessive L. 308.193.980.
    Che la Corte di cassazione, con sentenza 14 gennaio 1998, n. 457,
accoglieva in parte i ricorsi del comune e dell'I.A.C.P. e dando atto
della  sopravvenienza  del  comma 7-bis  dell'art. 5-bis  della legge
n. 359  del  1992  e  della  sua  applicabilita' ai giudizi in corso,
rinviava  ad  altra  sezione  della Corte di appello di Napoli per il
calcolo  con il criterio riduttivo sia del risarcimento del danno per
l'occupazione  espropriativa,  che  dell'indennizzo per l'occupazione
d'urgenza;  di cui il giudice di rinvio con sentenza del 17 settembre
2002,  ha  applicato  il criterio riduttivo sopravvenuto e dichiarato
che  la  prima  indennita'  risultava  di  L.  150.034.677, e con gli
interessi  legali e la rivalutazione monetaria pari a L. 491.761.224,
interamente  corrisposta  agli  attori  in  conseguenza del pagamento
della  maggior  somma  di  L. 534.191.980.  Ha,  quindi  condannato i
Preziosi  a  restituire  all'I.A.C.P.  la  somma  di Euro 29.151,15 a
titoli  di  maggior  capitale  incassato ed interessi ed il comune al
pagamento  in  favore di detti proprietari della complessiva somma di
Euro 63.493,37 a titolo di indennita' di occupazione legittima, oltre
interessi legali dal 7 gennaio 1985.
    Che  per  la  cassazione della sentenza hanno proposto ricorso il
comune di Avellino per due motivi, e l'I.A.C.P. per quattro motivi; e
che  ad  entrambi  i  ricorsi  hanno  resistito con contraddittorio i
Preziosi,  i  quali  a loro volta hanno formulato ricorso incidentale
per due motivi.
    2.  -  Ritenuto che con il ricorso incidentale che si articola in
due  motivi,  da  esaminare  con  precedenza  per evidenti ragioni di
logica  giuridica,  Elsa  Preziosi  e  consorti, deducendo violazione
dell'art. 5-bis,  comma  7-bis  della legge n. 359 del 1992, n. 936 e
n. 2059  del  codice  civile, 1 della Convenzione europea dei diritti
dell'uomo,  si  dolgono  che  la  sentenza  impugnata abbia applicato
all'espropriazione   del   loro   terreno  il  criterio  risarcitorio
riduttivo introdotto dalla prima norma senza considerare:
        a)  che  esso pone l'istituto dell'occupazione acquisitiva in
contrasto  con  i  precetti  dell'art. 42  Cost., nonche' dell'art. 1
della Convenzione;
        b)  che  comporta altresi' una violazione dell'art. 53 Cost.,
facendo  gravare il concorso alla spesa pubblica in ragione non della
capacita'  contributiva,  ma  delle  sole  necessita'  della  finanza
pubblica, estranee alla finalita' della norma;
        c)  che  in  ogni  caso  detta  norma e' stata implicitamente
abrogata  dagli  artt. 111  Cost.  e dalla legge n. 89 del 2001 sulla
durata  ragionevole del processo che ne avrebbe consentito una durata
massima  di  tre  anni  ovvero,  al piu', fino al luglio 1991: con la
conseguente  inapplicabilita'  di norme successive che hanno influito
sull'entita'    del    pregiudizio    che   avrebbe   dovuto   essere
tempestivamente ristorato, altrimenti verificandosi la violazione dei
precetti contenuti negli artt. 10 e 111 Cost., il Collegio osserva: i
Preziosi  con  la  citazione  introduttiva del giudizio del 30 luglio
1985  hanno  chiesto  la  condanna in solido del comune di Avellino e
dell'I.A.C.P. al risarcimento del danno derivante dalla perdita della
proprieta'  di  un loro fondo sul quale erano stati realizzati alcuni
alloggi   popolari,   pur   in   mancanza   di  un  provvedimento  di
espropriazione.  La  domanda e' stata interamente accolta dalla Corte
del  primo  appello  nei  confronti del solo I.A.C.P., condannato con
sentenza  27  marzo 1995 al pagamento a tale titolo della complessiva
somma  di  L. 308.193.980, equivalente al valore venale dell'immobile
alla  data della pronuncia. Con la quale veniva, altresi', confermata
la  condanna  del  Comune  di  Avellino  a depositare l'indennita' di
occupazione legittima determinata in L. 68.040.000.
    La   decisione  e'  stata  impugnata  esclusivamente  dagli  enti
pubblici,  e questa corte, con la ricordata sentenza n. 457 del 1998,
ne  ha parzialmente accolto il ricorso enunciando il principio che il
giudice  di  rinvio  avrebbe  dovuto  liquidare  il danno risarcibile
(nonche' l'indennita' di occupazione temporanea, pur essa parametrata
sul valore venale dell'immobile) in base al criterio riduttivo «della
ulteriore  normativa  sopravvenuta  di cui al comma 7-bis, introdotto
dall'art. 3,   comma   65   della  legge  n. 662/1996,  la  quale  e'
applicabile  a tutte le occupazioni illegittime di suoli per causa di
p.u., intervenute anteriormente al 30 settembre 1996».
    3.  -  Ora,  detta  norma  cui  si  e'  pacificamente attenuta la
sentenza  impugnata  per  il  calcolo di entrambi gli indennizzi, non
puo'  considerarsi  abrogata  ne' dal nuovo testo dell'art. 111 Cost.
(primo  e  secondo  comma),  ne'  tanto  meno dall'art. 2 della legge
n. 89/2001: non dalla sopravvenuta legge costituzionale n. 2 del 1999
che  ha  inserito i principi del giusto processo nell'art. 111 Cost.,
in  quanto  neppure i ricorrenti pongono in discussione la regola che
la  legge  costituzionale,  essendo di rango superiore a quello della
legge  ordinaria,  non  puo'  produrre  un  effetto  abrogativo della
disciplina  con essa incompatibile; e che l'abolizione di questa puo'
avere  luogo  soltanto  in  esito allo scrutinio di costituzionalita'
davanti alla Corte costituzionale.
    E  neppure  per effetto della sopravvenuta legge n. 89/2001, dato
che  l'abrogazione  tacita di una legge ricorre ai sensi dell'art. 15
disp.  prel. cod. civ., quando sussiste incompatibilita' fra le nuove
disposizioni  e  quelle  precedenti,  ovvero  quando  la  nuova legge
disciplina  la  materia  gia'  regolata  da  quella  anteriore (Cass.
n. 14129/2002;  n. 2502/2001;  n. 1760/1995).  Laddove  la legge c.d.
Pinto e' rivolta, esclusivamente, a disciplinare il giusto processo e
ad  attribuire  un'equa ripartizione alle parti che per effetto della
violazione  del  termine  ragionevole  di durata di esso hanno subito
danni  patrimoniali  e/o  non patrimoniali: senza percio' influire su
alcun  istituto  di  diritto sostanziale e quindi sulla materia delle
espropriazioni  per  p.u.;  ne'  in  particolar  modo  su  una norma,
peraltro  di  natura  speciale,  che  in  tale  specifico  settore ha
introdotto  un  meccanismo  di  calcolo riduttivo dell'indennizzo. Il
quale   infine  proprio  con  riguardo  alle  menzionate  occupazioni
antecedenti  alla data avanti indicata e' stato recepito e confermato
dall'art. 55  t.u.  sulle  espropriazioni  per  p.u. appr. con d.P.R.
n. 327 del 2001, come modificato dall'art. 1, d.lgs. n. 302 del 2002,
successivo alla legge n. 89/2001.
    Il  fatto  poi  che  il  criterio riduttivo suddetto abbia potuto
trovare  applicazione  a  causa della durata eccessiva del processo -
iniziato  dai  Preziosi  nel  1985 e non ancora definito con sentenza
passata in giudicato al momento in cui l'art. 3, comma 65 della legge
n. 662/1996  e'  entrato  in  vigore - dimostra semmai che e' proprio
tale  irragionevole  durata ad esso estranea ed esterna al meccanismo
liquidatorio  introdotto da questa disposizione, a porsi in contrasto
con  l'art. 6  della  Convenzione  Europea  per  la  salvaguardia dei
diritti  dell'uomo  e  delle  liberta'  fondamentali  e  con la legge
n. 89/2001;  ed  a  rilevare  autonomamente  come fatto produttivo di
danno  per  la  violazione  del diritto al giusto processo sancito da
dette  norme:  percio'  comportando  un'autonoma  riparazione  da far
valere con apposita domanda in un diverso processo (artt. 3 e 4 della
legge n. 89/2001).
    4.  -  Cio'  posto,  questo  Collegio  non  ignora  che  la Corte
costituzionale con sentenza n. 146 del 1999 ha dichiarato non fondate
le  questioni  di  legittimita' costituzionale dell'art. 5-bis, comma
7-bis,  della  legge  8  agosto 1992, n. 359, introdotto dall'art. 3,
comma  65, della legge 23 dicembre 1996, n. 662, sollevate da diversi
giudici  di  merito in riferimento agli artt. 3, 28, 42, 53, 97 e 113
della Costituzione, rilevando in particolare:
        a) che la regola generale di integralita' della riparazione e
di  equivalenza  della stessa al pregiudizio cagionato al danneggiato
non  ha  copertura  costituzionale:  potendo  il  legislatore in casi
eccezionali   ritenere   equa   e   conveniente  una  limitazione  al
risarcimento  del  danno;  e  che  l'eccezionalita' del caso appariva
nella  fattispecie  giustificata soprattutto dal carattere temporaneo
della norma denunciata;
        b) che  deve ritenersi ragionevole la riduzione imposta dalla
norma   suddetta,   avendo   la   stessa  realizzato  un  equilibrato
componimento  dei contrapposti interessi in gioco, con l'eliminazione
della  ingiustificata  coincidenza,  da  parte della precedente legge
n. 549/1995,  della  entita'  dell'indennizzo  per  l'illecito  della
pubblica  amministrazione con quello relativo al caso di legittimita'
procedura ablativa;
        c) che  la disposta applicazione del nuovo e riduttivo regime
risarcitorio anche ai giudizi pendenti, pur incidendo sfavorevolmente
su  posizioni  di  diritto  soggettivo  perfetto,  non  configge  con
specifici  canoni  costituzionali,  primo  fra  i  quali quello della
ragionevolezza:  non  potendo  costituire  limite  invalicabile della
discrezionalita'  legislativa  l'aspettativa  dei titolari delle aree
occupate  a  vedersi  liquidato  il  danno  secondo  un criterio piu'
favorevole   di   quello  ragionevolmente  adottato  dal  legislatore
nell'attuale  momento  storico  (e  peraltro diretto a sostituire una
disciplina  dichiarata  incostituzionale  ed  a  regolare  i rapporti
pregressi).
    La  legittimita'  costituzionale  della norma e' stata confermata
anche  dalle  successive  sentenze n. 396 del 1999 e n. 24/2000 della
stessa Corte, che con ordinanze n. 251/2000 e n. 158/2002 ha altresi'
dichiarato inammissibile la riproposizione di analoghe questioni.
    Principi  non  dissimili  aveva espresso negli anni precedenti la
Corte  europea  dei  diritti dell'uomo, la quale nella nota decisione
James  contro  Regno  Unito  del  21 febbraio  1986  aveva  affermato
(1/2 54): I) che l'art. 1 del Protocollo allegato alla Convenzione in
caso  di espropriazione per pubblica utilita' non garantisce sempre e
comunque  un  risarcimento  integrale  del  danno  subito:  in quanto
legittime  ragioni  di  pubblica utilita', come quelle che perseguono
obiettivi di riforma economica o di giustizia sociale possono indurre
a  stabilire  un  ristoro  inferiore  al valore venale dell'immobile,
II) che  la  norma  esige in ogni caso la previsione di un indennizzo
ragionevolmente  proporzionato  al valore del bene e che raggiunga un
giusto  equilibrio  tra i diversi interessi in contrasto; III) che il
controllo  da  essa  devoluto in tal caso alla Corte consiste proprio
nel valutare se le modalita' di ristoro scelte dagli Stati accedano o
meno il largo margine di discrezionalita' loro riservato al riguardo.
    Gli  stessi  precetti  sono  stati  riaffermati  nelle successive
sentenze  9 dicembre  1994  in  causa  Les  saints  monasteres contro
Grecia, e 2 marzo 1999 in causa Papachelas contro Grecia.
    5.  -  Tuttavia  gia'  nella  decisione  Papamichalopoulos contro
Grecia  del  31 ottobre  1995, la Corte introduceva nella materia una
profonda    distinzione,   limitandone   l'applicazione   alle   sole
espropriazioni  legittime  in  cui  e'  sufficiente  il  pagamento di
un'indennita' «equitable»; ed osservando che il carattere illecito di
un'occupazione   si   ripercuote   necessariamente   sui  criteri  da
utilizzare  per  determinare  la  riparazione dovuta all'espropriato,
nonche' sulle conseguenze finanziarie da risarcire non assimilabili a
quelle  di  una espropriazione legittima (1/2 36). Sicche', invocando
la  giurisprudenza  internazionale risalente all'anno 1928, enunciava
la  regola  che  in  caso in cui non sia possibile la restituzione in
natura,  all'espropriato  e' comunque dovuta una somma corrispondente
al valore attuale dei beni perduti (al valore cioe' che avrebbe avuto
la restituzione in natura).
    In  coerenza  con  il  nuovo  principio nella successiva sentenza
Zubani  conto  Italia  del  7 agosto 1996, esaminando una fattispecie
analoga  a  quella in esame, di c.d. occupazione espropriativa per la
realizzazione  di edilizia residenziale pubblica, ritenne ragionevole
la  scelta  della legge n. 458 del 1988 di privilegiare gli interessi
della   collettivita'   in   caso  di  espropriazione  o  occupazione
illegittima   di   immobili   e  dichiara  che  la  stessa  risultava
compatibile  con  i  precetti  dell'art. l del Protocollo soprattutto
perche'  l'art. 3 delle legge attribuisce ai proprietari l'indennizzo
integrale del danno subito (comprendente anche quello da svalutazione
monetaria):  percio' considerato un ristoro soddisfacente (1/2 49); e
per converso nella decisione Carbonara e Ventura contro Italia del 30
maggio  2000,  lo  stesso  istituto fu dichiarato in contrasto con la
Convenzione  perche',  pur  comportando  per i proprietari la perdita
definitiva  dell'immobile,  non  aveva consentito loro di ottenere il
risarcimento  dei  danni  a  causa  del  maturare  della prescrizione
quinquennale fatta decorrere, in base alla giurisprudenza delle Corte
di  cassazione,  dalla data - ritenuta dal giudice europeo incerta ed
imprevedibile   -  dell'irreversibile  trasformazione  dell'immobile;
sicche'  agli espropriati fu riconosciuto a titolo di danno materiale
un  ristoro  corrispondente  al  valore venale del terreno rivalutato
alla data della decisione (1/2 75).
    Siffatto  criterio  di  liquidazione  e'  stato a maggior ragione
ribadito  dalla  decisione Belvedere-Alberghiera del 30 ottobre 2003,
cui l'Adunanza Plenaria del Consiglio di Stato con sentenza n. 1/1996
aveva  negato  la  restituzione  dell'immobile malgrado l'occupazione
illegittima  non  fosse  assistita  neppure  dalla  dichiarazione  di
pubblica utilita' (sent. 30 maggio 2000 della CEDU); ed alla quale fu
percio'   attribuito   un   risarcimento   pari   al  valore  attuale
dell'immobile  (e  non al valore che aveva al tempo dell'occupazione:
1/2  35),  oltre  ad  ogni altro pregiudizio subito fra cui una somma
pari  al  mancato  godimento del terreno a decorrere dalla data dello
spossessamento   (anno   1987),   nonche'  al  mancato  guadagno  per
l'attivita' alberghiera non potuta esercitare (1/2 36).
    6.  -  Negli  ultimi anni sono stati, quindi, riconsiderati anche
criteri  che in passato legittimavano l'attribuzione di un indennizzo
«ridotto» nelle espropriazioni legittime: in quanto nella sentenza 28
novembre  2002, ex re di Grecia ed altri, la Corte europea, dopo aver
riaffermato   che   il   carattere  lecito  o  meno  dell'occupazione
necessariamente si ripercuote sui criteri cui commisurare il ristoro,
e   che   nelle   espropriazioni   rituali   quest'ultimo   non  deve
necessariamente  raggiungere «il valore pieno ed intero dei beni», ha
circoscritto  queste  regole  alle  sole  ipotesi  di  espropriazioni
rivolte  a perseguire legittimi obbiettivi di pubblica utilita': tali
considerando  espressamente  le  misure  di  riforme  economiche o di
giustizia  sociale,  nonche'  (a  maggior  ragione)  quelle rivolte a
provocare  cambiamenti del sistema costituzionale (fra cui ha incluso
la  fattispecie  esaminata di apprensione di beni privati disposta al
fine  di modificare il sistema costituzionale dello Stato greco dalla
monarchia  alla  repubblica). Laddove per ogni altro fine di pubblica
utilita',   come  l'espropriazione  isolata  di  un  terreno  per  la
costruzione   di   una  strada,  i  precedenti  principi  sono  stati
rettificati  nel  senso  che solo un indennizzo pari al valore venale
del bene puo' essere ragionevolmente rapportato al sacrificio imposto
(1/2 74-78).
    Il  nuovo arresto e' stato ribadito nelle successive decisioni 22
gennaio  2004, Jahn e 22 giugno 2004, Broniowski; e subito dopo nella
sentenza  Scordino  del  29  luglio 2004, ove la Corte ha valutato la
compatibilita'  con  l'art. l  del  Protocollo,  proprio del criterio
riduttivo  di  calcolo dell'indennizzo delle aree aventi destinazione
edificatoria  introdotto  dall'art. 5-bis della legge italiana n. 359
del   1992,  che  pur  traeva  origine  da  una  manovra  finanziaria
perseguita  dal  legislatore  italiano.  E, richiamando nuovamente il
principio  che il precetto comunitario non garantisce in tutti i casi
il   diritto   ad   una  compensazione  integrale  perche'  specifici
obbiettivi  di  utilita'  pubblica  possono  giustificare un rimborso
inferiore al pieno valore di mercato (1/2 97), ha condannato lo Stato
italiano  al risarcimento (sulla base della differenza tra indennita'
percepita e valore venale del bene) a favore di soggetto espropriato,
che  a causa del lungo tempo trascorso aveva visto sfumare il proprio
affidamento  ad  essere  indennizzato secondo quest'ultimo parametro:
posto  che, a seguito della dichiarazione d'incostituzionalita' delle
norme  commisuranti  in  via generale l'indennizzo al valore agricolo
(art. 16,  legge  22 ottobre 1971, n. 865, per effetto di Corte cost.
30 gennaio 1980, n. 5 e 15 luglio 1983, n. 223), il criterio generale
di  stima  delle  aree  edificabili era ridiventato quello del giusto
prezzo  in una libera contrattazione di compravendita (art. 39, legge
n. 2359/1865, appunto). Laddove l'art. 5-bis, pur applicato in quella
vicenda  senza  l'ulteriore  decurtazione  del 40% prevista dal primo
comma,  e' apparso ai giudici europei inadeguato e lesivo del diritto
della  persona  al  rispetto  dei  propri beni, in considerazione del
trattamento  fiscale  che  ne seguiva (la sua ulteriore riduzione del
20% ex art. 11 legge n. 413/1991: 1/2 100) e della complessiva attesa
degli  espropriati,  dal  provvedimento  ablativo  alla  sentenza  di
determinazione  dell'indennizzo  (1/2  101): cosi' introducendosi nel
giudizio   di   congruita'  della  riparazione  una  nuova  variabile
costituita  dalle  «modalita'  d'indennizzo  previste dal legislatore
nazionale»  (1/2  97),  la  cui  considerazione ha indotto la Corte a
giudicare nel caso concreto il prezzo percepito dall'espropriato «non
ragionevolmente   in   rapporto   con   il  valore  della  proprieta'
espropriata»;  di  talche'  «il  giusto equilibrio» risultava «rotto»
(1/2 102).
    Questo  quadro  normativo,  cosi'  articolato, e' stato condiviso
anche  dalla  Grande  Chambre  della  Corte  nelle  recenti decisioni
Kopecky,  28  settembre  2004; Jahn, 30 giugno 2005, e Broniowski, 28
settembre  2005,  in ciascuna delle quali sono stati «ricapitolati» i
suddetti  principi  tratti  dall'art. l  del  Protocollo  n. 1 cui le
legislazioni   dei   singoli   Stati,   pur   nell'ampio  margine  di
discrezionalita'   loro   riconosciuto   dalla   Convenzione,  devono
attenersi   nella   previsione  delle  modalita'  dell'indennita'  di
espropriazione.
    7. - Esso non sembra percio', allo stato, modificabile in termini
conformi  al  sistema  riduttivo  della  legge n. 359 del 1992, ed ha
necessariamente  influenzato  in  modo  decisivo  la  disamina, nello
stesso   periodo   di   tempo,   delle   fattispecie  di  occupazioni
illegittime:  in  relazione  alle  quali  la  Corte  nella successiva
sentenza  Scordino del 17 maggio 2005 ha dichiarato incompatibile con
l'art. l   del   Protocollo   l'espropriazione   indiretta   (fondata
sull'occupazione  definitiva  di  fatto  di un bene privato), ammessa
dalla  giurisprudenza  e  dalla  legislazione italiana (ricordando in
particolare l'art. 43 del T.U. appr. con d.P.R. n. 327/2001), perche'
non   supportate   da   norme  di  diritto  interno  sufficientemente
accessibili,   precise  e  prevedibili,  percio'  in  violazione  del
principio di legalita'.
    Fra le ragioni dell'incompatibilita' ha incluso, infatti, proprio
il  criterio  di  calcolo  dell'indennizzo introdotto dal comma 7-bis
dell'art. 5-bis, osservando:
        a) che  la norma aveva modificato la regola della riparazione
integrale  del  pregiudizio  subito stabilita per questa tipologia di
espropriazione,  fin  dalla nota decisione n. 1464/1983 delle sezioni
unite  di questa Corte, equiparandola all'indennizzo riconosciuto per
l'espropriazione rituale con l'aumento minimo del 10%;
        b) che  detto  meccanismo riduttivo consente all'espropriante
che   omette   di  versare  durante  la  procedura  l'indennizzo,  di
avvantaggiarsi   ulteriormente  del  suo  comportamento  illegittimo,
esonerandolo  dal  corrispondere una porzione sostanziale del ristoro
dovuto:   percio'  non  favorendo  la  buona  amministrazione  e  non
contribuendo a prevenire episodi di illegalita' (1/2 96);
        c) che   la   violazione   del  principio  della  riparazione
integrale   e'   resa  ancor  piu'  palese  dall'espressa  estensione
dell'applicazione  retroattiva della norma anche ai giudizi in corso,
che  si  traduce  in  una  mera ablazione retroattiva di una porzione
consistente  dell'indennita'  dovuta  in  base al sistema legislativo
antecedente (1/2 100).
    I  medesimi  principi  si  trovano pedissequamente ripetuti nelle
successive  sentenze  Binotti,  Colazzo e Serrao del 13 ottobre 2005,
Sciarrotta  del  12 gennaio 2006 e soprattutto S.A.S. del 23 febbraio
2006: sicche' non par dubbio che l'affermazione di non conformita' al
principio  del  rispetto  del  diritto di proprieta' della disciplina
indennitaria  delle  espropriazioni  illegittime  antecedenti  al  30
settembre  1996,  come  modificata dal comma 7-bis dell'art. 5-bis, e
ribadita  dall'art. 55  T.U.  del  d.P.R.  n. 327/2001, per un verso,
risulti  comunque  generalizzata  nell'argomentazione  dei giudici di
Strasburgo,  anche oltre le peculiarita' delle fattispecie esaminate.
E,  per  altro  verso,  addebiti alla norma la violazione del diritto
della  persona  al rispetto dei propri beni, di cui all'art. 1, del I
prot.  add.  alla Convenzione, sotto diversi profili, e cioe': I) per
essersi  profondamente discostata - onde sopperire a mere esigenze di
bilancio (la legge e' definita «budgetaire») e senza la ricorrenza di
un   contesto   di  riforme  economiche  o  sociali  -  dalla  regola
dell'integralita'  della  riparazione corrispondente al valore venale
dell'immobile, ritenuta dalla Corte imprescindibile nelle occupazioni
non  aventi  base legale onde contemperare il giusto equilibrio tra i
contrapposti  interessi,  di  cui si e' detto; II) per avere, quindi,
recepito  un criterio riduttivo collegato ad un parametro considerato
gia'  irrazionale  nelle  espropriazioni  legittime,  comportante  un
sostanziale dimezzamento del valore del bene (per di piu' soggetto ad
ulteriore tassazione): percio' non avente alcuno dei requisiti minimi
per  rientrare  nel  novero  delle soluzioni considerate ragionevoli;
III)  ed ancora, per averlo slealmente introdotto in giudizi iniziati
ed  impostati secondo diversi presupposti normativi, si' da incorrere
anche  nella violazione dell'art. 6, 1/2 1, della Convenzione, per il
mutamento  delle  regole  «in corsa»: posto che la Corte europea, pur
non  escludendo che in materia civile una nuova normativa possa avere
efficacia   retroattiva,   aveva   ripetutamente  considerato  lecita
l'applicazione  dello  ius superveniens in causa soltanto in presenza
di  «imperieux  motifs  d'interet  general»; ed affermato che in ogni
altro  caso  essa  si  concreta  nella  violazione  del  principio di
legalita' nonche' del diritto ad un processo equo perche' consente al
potere  legislativo  di  introdurre nuove disposizioni specificamente
dirette  ad  influire sull'esito di un giudizio gia' in corso (in cui
e'  parte  un'amministrazione  pubblica),  ed  induce  il  giudice  a
decisioni  su base diversa da quella alla quale la controparte poteva
legittimamente  aspirare  al momento di introduzione della lite (cfr.
sentenza  della  Grande  Chambre, 28 ottobre 1999, Zielinski; nonche'
fra  le  piu' recenti Forrer-Niedenthal, 20 febbraio 2003, proprio in
materia di espropriazione per p.u.; OGIS, 27 maggio 2004; e la stessa
Scordino, 29 luglio 2004, 1/2 78).
    8.  -  La  giurisprudenza  della  Corte europea, conclusivamente,
appare   ormai   del  tutto  consolidata  nel  ritenere  il  criterio
indennitario  stabilito  dal comma 7-bis dell'art. 5-bis in contrasto
con  i  menzionati precetti della Convenzione; e, d'altra parte nella
ricordata  decisione Scordino, 29 luglio 2004 ha affermato che sia la
Corte  d'appello che la Corte di cassazione «non hanno omesso di fare
riferimento alle disposizioni della legge criticata per suffragare le
loro  decisioni»,  si'  da  rendere possibile «l'ingerenza del potere
legislativo   nel   funzionamento  del  potere  giudiziario  al  fine
d'influenzare  la  risoluzione  dalla  lite»:  in  tal modo lasciando
intendere  che sussistesse l'obbligo, da parte del giudice nazionale,
di  non applicare una legge dello Stato sopravvenuta all'inizio della
lite  ed  espressamente  dichiarata  applicabile ai giudizi in corso,
quando  invece doveva applicarsi la disciplina previgente (tanto piu'
che  «essi»  (gli  organi giudiziari) «hanno modificato a danno degli
interessati,  con effetto retroattivo, l'indennizzo che essi potevano
legalmente attendersi»).
    Cio'  malgrado,  il  collegio  non ritiene che nella specie possa
disapplicarsi  una  legge  vigente dello Stato, per far riemergere la
disciplina   previgente,   risalente   alla  regola  enunciata  dalla
ricordata  decisione  n. 1464/1983  delle Sezioni Unite della Corte e
sostanzialmente  incentrata  sul  disposto  dell'art. 39  della legge
generale  n. 2359  del 1865, muovendo da una pretesa violazione delle
aspettative   dell'avente  diritto  al  quantum  di  una  prestazione
patrimoniale:  tanto  piu'  che  la  Corte costituzionale, proprio in
relazione   alla   prevista   retroattivita'  dell'art. 5-bis,  legge
n. 359/1992, ne ha giudicata la conformita' alle norme costituzionali
(Corte  cost.  16  giugno  1993, n. 283; 16 dicembre 1993, n. 442; 30
aprile 1999, n. l48, e succ.).
    Cio'  perche'  l'abrogazione  della legge dello Stato si verifica
nelle  sole  ipotesi,  gia'  ricordate, dell'art. 15 disp. prel. cod.
civ.  e  n. 136  Cost., che non tollerano la disapplicazione da parte
del  giudice,  pur quando si avvalga della autorevole interpretazione
del giudice internazionale. Ed il giudice, d'altra parte, e' soggetto
unicamente  alla  legge (art. 101 Cost.), per cui ammettere un potere
(o  addirittura un obbligo) di non applicarla, significherebbe aprire
un  pericoloso  varco al principio di divisione dei poteri, avallando
una   funzione   di   revisione   legislativa  da  parte  del  potere
giudiziario, che appare estraneo al nostro sistema costituzionale.
    Vero  e'  che  in altra occasione questa Corte ha ritenuto che il
rispetto della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, e' legato a
come  essa  vive  nelle  decisioni  della  Corte  europea dei diritti
dell'uomo,  da  cui  e'  ricavabile  una  regola di conformazione, ed
essendo  espressione  dell'obbligo  della  giurisdizione nazionale di
interpretare  ed  applicare il diritto interno, per quanto possibile,
conformemente  alla  Convenzione e alla giurisprudenza di Strasburgo,
essa  ha  natura giuridica; onde il mancato rispetto di essa da parte
del  giudice  del merito concretizza il vizio di violazione di legge,
denunziabile dinanzi alla Corte di cassazione (Cass. 26 gennaio 2004,
n. 1340).  Non  mancano, peraltro, spunti per una lettura critica dei
precedenti  della  Corte  europea  e  dichiarazioni  di  non  stretta
vincolativita'  di essi (Cass. 26 aprile 2005, n. 8600 e 15 settembre
2005, n. 18249).
    E  tuttavia, un vincolo all'interpretazione del giudice nazionale
e'  ravvisabile  ove  la  norma  nazionale  costituisca,  come  nella
disciplina  dell'equa  riparazione  per  l'irragionevole  durata  del
processo,  riproduzione  delle  norme  convenzionali,  per le quali i
precedenti  del  giudice  europeo costituiscono riferimento obbligato
(cfr.,  art. 2,  comma 1  della  legge  n. 89/2001):  cosi'  come  e'
consentita  la  diretta  applicazione  alla  fattispecie  della norma
convenzionale,  ove  essa sia immediatamente precettiva e comunque di
chiara  interpretazione,  e non emergano conflitti interpretativi tra
il  giudice  nazionale  e  il  giudice europeo (Cass. 19 luglio 2002,
n. 10542).
    Ma la questione deve ricevere diversa impostazione ove si discuta
della   legalita'   di  un  istituto,  quale  quello  dell'indennizzo
espropriativo,  non  direttamente  regolato dalla Convenzione europea
dei  diritti,  ma  giudicato in contrasto con i principi dalla stessa
desumibili:  non  e', infatti, ravvisabile nell'ordinamento, riguardo
al  preteso  contrasto del diritto interno con la Convenzione europea
dei   diritti   dell'uomo,   un  meccanismo  idoneo  a  stabilire  la
sottordinazione della fonte di diritto nazionale, rispetto alla fonte
di diritto internazionale, ove la prima sia ritenuta in contrasto con
questo  da  una Corte sopranazionale cui gli Stati abbiano attribuito
tale potesta', assimilabile alle limitazioni di sovranita' consentite
dall'art. 11  Cost., derivanti dal Trattato della Comunita' europea e
di consequenza dalle fonti normative dell'ordinamento comunitario.
    E'  appena  il  caso  di  notare, a tal proposito, che non sembra
sostenibile neppure l'avvenuta «comunitarizzazione» della Convenzione
europea dei diritti, in virtu' del par. 2 dell'art. 6 del trattato di
Maastricht  del 7 febbraio 1992: il rispetto dei diritti fondamentali
della   Convenzione   europea   dei   diritti   dell'uomo,  da  parte
dell'Unione,   costituisce   una   direttiva   per   le   istituzioni
comunitarie,  non  una  norma  comunitaria rivolta agli stati membri,
onde,  non  potendo  ritenersi  che  le  disposizioni  della suddetta
Convenzione  e quella del Trattato costituiscano parte integrante del
diritto  comunitario,  non  puo'  demandarsene l'interpretazione alla
Corte  di giustizia della Comunita' (Cass. 19 luglio 2002, n. 10542):
ne  e' riprova la circostanza che nella prospettiva di adesione della
Comunita'   europea  alla  Convenzione  sui  diritti  e  le  liberta'
fondamentali, il parere negativo della Corte europea fu dettato dalla
riflessione per cui l'adesione avrebbe comportato l'inserimento della
comunita'    in    un   sistema   istituzionale   distinto,   nonche'
l'integrazione  del  complesso  delle  disposizioni della convenzione
nell'ordinamento  comunitario (Corte giust. CE, parere 28 marzo 1996,
n. 2/94). E ancora, la Corte del Lussemburgo ha dichiarato la propria
incompetenza  a  fornire  elementi  interpretativi  necessari  per la
valutazione  da  parte del giudice nazionale della conformita' di una
normativa  nazionale  ai  diritti fondamentali di cui essa garantisce
l'osservanza   (nel  contesto  comunitario),  quali  risultano  dalla
C.E.D.U.,  e  cio'  «in quanto tale normativa riguarda una situazione
che  non  rientra  nel campo di applicazione del diritto comunitario»
(Corte giust. CE, 29 maggio l998, cause C-299/1995).
    Va  osservato,  peraltro,  che  la  diretta  efficacia nel nostro
ordinamento  dei  poteri  normativi, amministrativi e giurisdizionali
degli organi comunitari, non puo' essere tale da modificare l'assetto
costituzionale,   dal   quale  comunque  emergono  controlimiti  alle
limitazioni  di  sovranita':  fra  questi  la Corte costituzionale ha
individuato  i principi fondamentali dell'ordinamento costituzionale,
oltre che i diritti inalienabili della persona umana (sentenze n. 183
del  1973,  n. 232  del  1989;  n. 168  del  1991).  Sicche' potrebbe
sostenersi,  alla  luce delle pronunce della Corte costituzionale (ma
anche   della  Corte  europea  dei  diritti  dell'uomo)  in  tema  di
indennizzo espropriativo che la misura di esso ragguagliata al valore
di  mercato,  non tiene conto del principio costituzionale per cui il
diritto  di  proprieta'  si  trova  in  posizione  recessiva rispetto
all'interesse  primario  dell'utilita'  sociale (Cass. 27 marzo 2004,
n. 6173).
    Conclusivamente,  la fissazione di una riparazione commisurata al
valore  venale  non puo' basarsi, nel recupero del dictum della Corte
europea  nelle  pronunce  avanti  esaminate,  come conformazione alle
norme  di  diritto internazionale che secondo l'art. 10 Cost. impegna
tutto  l'ordinamento:  anche perche' si riconosce generalmente che la
norma costituzionale non ha ad oggetto il diritto pattizio, e d'altro
canto,  il  prezzo  di  mercato come compenso espropriativo non e' un
valore   generalmente   riconosciuto  dagli  Stati.  E  neppure  vale
trasferire  la problematica sulla legge 4 agosto 1955, n. 848, che ha
reso  esecutiva  la  convenzione,  perche',  anche  ove si accettasse
l'interpretazione  nel senso indicato dalla Corte europea, il giudice
non  avrebbe comunque il potere di creare una disciplina indennitaria
sostitutiva,    che    resta   comunque   soggetta   a   margini   di
discrezionalita' che competono solo al legislatore.
    La subordinazione della legge nazionale alle fonti internazionali
e',  invece, ora da riconoscere alla luce dell'art. 117, primo comma,
Cost.,  ma  la questione non puo' porsi, sotto tale profilo, se non a
livello legislativo, come piu' avanti si dira'.
    Le  ragioni  che  precedono,  riassumibili nell'impossibilita' da
parte  di  questa Corte, e piu' in generale del giudice nazionale, di
disapplicare  una  legge dello Stato pur ritenuta in contrasto con la
C.E.D.U.  dalla Corte europea dei diritti dell'uomo, escludono che la
questione  possa essere risolta in via interpretativa, con l'adozione
di  una  lettura  secundum  constitutionem,  atteso che l'art. 5-bis,
comma  7-bis  di  cui  si  discute,  e'  gia'  stato  ritenuto non in
contrasto  con i parametri costituzionali, e che il criterio di cui i
ricorrenti  chiedono l'applicazione in alternativa, quello del valore
venale,  e'  stato  dichiarato  dalla  Consulta  privo  «di copertura
costituzionale». Neppure sembra sostenibile un ruolo di supplenza, da
parte  del  giudice,  nelle funzioni del legislatore, per lungo tempo
inadempiente  all'impegno  autoimposto, di predisporre una riforma in
materia  espropriativa  (l'art. 5-bis esordisce: «fino all'emanazione
di  un'organica  disciplina  per  tutte le espropriazioni preordinate
alla  realizzazione  di  opere...»),  anche  perche'  nel caso non si
tratta piu' di inerzia, ma ora di consapevole reiterazione del regime
indennitario  delle  espropriazioni  illegittime  antecedenti  al  30
settembre   1996,  essendo  stato  per  esse  il  criterio  riduttivo
definitivamente    raccolto   e   confermato   nell'art. 55,   d.P.R.
n. 327/2001,  in  vigore  dal  1° luglio  2003, pur dopo le modifiche
apportate dall'art. l, d.lgs. n. 302 del 2002.
    Si  puo'  dunque  configurare  un  intervento del legislatore che
nella  sua  discrezionalita'  provveda a individuare un nuovo sistema
indennitario  tale da allinearsi agli obblighi internazionali e cosi'
evitare condanne per responsabilita' derivanti dalla violazione della
Convenzione,  mentre  deve  escludersi  la  sussistenza  a carico del
giudice nazionale di un obbligo di disapplicare la disciplina legale,
e  supplire  alla  funzione del legislatore mediante un coordinamento
delle   fonti   nel  senso  di  affermare  la  prevalenza  di  quella
convenzionale  su  quella interna (vedi Cass. 27 marzo 2004, n. 6173,
cit.).
      9.  -  Vi  sono tuttavia motivi per dubitare della legittimita'
costituzionale  dell'art. 5-bis,  comma  7-bis  del d.l. n. 333/1992,
conv. in legge n. 359/1992.
    Nella  sentenza  n. 148/1999  della Corte costituzionale, e nelle
ulteriori   pronunce   che  richiamandosi  al  precedente  non  hanno
ravvisato   elementi   nuovi   per   distaccarsene,   la   norma   di
determinazione  del  risarcimento  del  danno  nelle occupazioni c.d.
espropriative  di  suoli  edificatori antecedenti alla data indicata,
non  e'  stata  scrutinata  secondo  il parametro dell'art. 111 Cost.
Nella  prima  delle  sentenze  citate  il  Giudice  delle  leggi,  ha
interamente  richiamato  la propria precedente pronuncia n. 283/1993,
la  quale  verificando la legittimita' della disposizione transitoria
di  cui  ai  commi  6  e  7  dell'art. 5-bis,  secondo  il  parametro
dell'art. 3  Cost.,  aveva  osservato  che l'applicabilita' del nuovo
criterio  di  determinazione  dell'indennita' secondo che la relativa
misura  fosse  divenuta  incontestabile  prima dell'entrata in vigore
della   legge   ovvero  a  tale  momento  fosse  ancora  sub  iudice,
corrispondeva ad una differenziazione dipendente dalla successione di
leggi  nel  tempo;  e  che  l'irretroattivita',  pur  costituendo  un
principio  dell'ordinamento,  non  e'  elevato  (fuori  dalla materia
penale) al rango di norma costituzionale, sicche', in una situazione,
come quella della materia espropriativa, caratterizzata dalla carenza
normativa  e  dell'applicabilita'  solo  suppletiva  del criterio del
valore venale, la prevista retroattivita' dell'intervento legislativo
non  confliggeva  con  il  canone  della  ragionevolezza.  La  stessa
sentenza,  pero',  concluse  che  la  questione  non era fondata «nei
termini cosi' puntualizzati».
    Sembrano  esistere  gli  elementi  per  una  rivalutazione  della
questione,  alla  luce  del  diverso  parametro  dell'art. 111 Cost.,
riscritto  in  epoca  successiva  alle pronunce sull'art. 5-bis della
legge  n. 359  del 1992, che negli ideali del giusto processo incarna
la lealta' che alla parte in giudizio e' dato attendersi dal sistema,
senza che le vengano mutate le regole in corso.
    I  contenuti dell'art. 111 Cost., particolarmente nelle sue parti
programmatiche (primo e secondo comma), sembrano ancora in gran parte
da  esplorare.  Cosi'  come  e'  ancora  da chiarire fino in fondo il
rapporto   di   discendenza  della  nuova  formulazione  della  norma
costituzionale dalla Convenzione europea dei diritti dell'uomo.
    Se  l'originario  intento  di  costituzionalizzare l'art. 6 della
Convenzione  pare  modificato  nel  corso  dei  lavori  parlamentari,
giacche' nel risultato testuale dell'art. 111 Cost. si ritrovano solo
assonanze o similitudini rispetto alla formula internazionale, non di
meno,  sembra da avallare la tesi di riscontrare nella giurisprudenza
della  Corte  dei  diritti, il materiale utile alla ricostruzione dei
nuovi precetti costituzionali.
    La  collocazione  della Convenzione europea nella gerarchia delle
fonti  non  e' mai stata chiarita appieno, giacche' la qualificazione
di  essa  come fonte atipica (Corte cost. 19 gennaio 1993, n. 10) non
risolve  fino  in  fondo le non infrequenti ipotesi di conflitto, non
solo con le norme di legge ordinaria, precedenti e successive, ma con
le  stesse norme costituzionali: e la concezione liberale del diritto
di  proprieta'  che fa da sfondo all'interpretazione resa dalla Corte
dei  diritti  sull'art. 1, I prot. add. (si veda, oltre alle sentenze
Scordino  del 29 luglio 2004 e 17 maggio 2005 anche l'altra sentenza,
sempre  in causa Scordino, del 15 luglio 2004, sulla reiterazione dei
vincoli urbanistici) non appare perfettamente in linea con il disegno
dell'Assemblea costituente (nell'art. 42, ma anche, piu' in generale,
nell'art. 41   Cost.),   di   mediare   le   facolta'  dominicali  (e
imprenditoriali) con l'utilita' pubblica.
    Cio'  non  toglie che alla ricerca del significato precettivo del
parametro      costituzionale,     possa     utilmente     ricorrersi
all'interpretazione  che  dell'analoga disposizione dell'art. 6 della
Convenzione  (dalla  quale la stessa modifica costituzionale e' stata
indotta)  ha reso la Corte europea: il senso della pronuncia Scordino
del  29 luglio 2004, e di quelle del 2005 e 2006 sulla sopravvenienza
del  criterio riduttivo di cui al comma 7-bis dell'art. 5-bis, e' che
la  parita' delle parti davanti al giudice implichi la necessita' che
il  potere  legislativo  non si intrometta nell'amministrazione della
giustizia  allo  scopo  di  influire  sulla risoluzione della singola
causa, o di una circoscritta e determinata categoria di controversie.
Le  fattispecie  conosciute  dai giudici di Strasburgo sono del tutto
similari  ai  fatti  della causa di cui questo collegio e' chiamato a
conoscere, nei termini ricostruiti dalla Corte d'appello di Napoli: i
proprietari   espropriati   nell'anno   1985   in  forza  della  c.d.
occupazione  acquisitiva  o  appropriativa  agiscono  in giudizio per
ottenere  l'indennizzo di natura risarcitoria loro riconosciuto dalla
giurisprudenza  di  questa  Corte  (fondata  sull'art. 39 della legge
n. 2359/1865)  ed  ancor  piu' specificamente dall'art. 3 della legge
n. 458  del  1988,  nella  misura corrispondente al valore venale dei
beni  sottoposti  a  procedimento  ablatorio.  La Corte di appello di
Napoli  ha  accolto  la domanda e liquidato il risarcimento del danno
loro  dovuto  in  base  al  criterio  suddetto.  Nel  corso del primo
giudizio  davanti  a  questa Corte e' sopravvenuto l'art. 3, comma 65
della   legge  n. 662  del  1996  che  ha  aggiunto  il  comma  7-bis
all'art. 5-bis,  d.l.  11 luglio  1992, conv. in legge 8 agosto 1992,
con  il  quale ha commisurato l'indennizzo in questione ai criteri di
determinazione  dell'indennita'  di  cui  al  comma 1, con esclusione
della  riduzione  del  40  per  cento, ed aumento del 10 per cento; e
stabilito  l'applicazione del nuovo criterio anche ai procedimenti in
corso  non  definiti  con  sentenza  passata  in  giudicato,  percio'
disposto  dalla  precedente sentenza n. 457 del 1998 di questa Corte:
con  il  risultato  di ridurre, a giudizio iniziato, di poco meno del
50%  la somma per il conseguimento della quale i proprietari si erano
determinati ad agire in giudizio.
    La norma si presta ulteriormente, alla luce della Convenzione dei
diritti,  come  interpretata  dalla  Corte  europea,  alla censura di
contrasto  con  l'art. 117,  primo comma, Cost. La nuova formulazione
della  norma  costituzionale  appare  diretta  a  colmare  una lacuna
dell'ordinamento,  difficilmente  superabile - come sopra accennato -
alla  luce  dell'art. 10  Cost.  Ne'  puo' trarre in inganno la sedes
materiae,  per ridimensionare l'effetto della disposizione al riparto
di  competenze  legislative  Stato-regioni:  in  essa  sembra doversi
ravvisare  il  criterio  ispiratore di tutta la funzione legislativa,
anche  di  quella  contemplata  dal  secondo  comma,  riguardante  le
competenze  esclusive  dello Stato, cui e' riconducibile la normativa
in tema di indennita' di espropriazione.
    Il  ravvisato  contrasto della vigente normativa indennitaria con
la   Convenzione   ne   determina   una   sopravvenuta   ragione   di
incostituzionalita'  con  l'art. 117,  primo  comma;  le  norme della
Convenzione,  in particolare gli artt. 6 e 1, prot. I add., divengono
norme  interposte,  attraverso l'autorevole interpretazione che ne ha
reso  la  Corte  di Strasburgo, nel giudizio di costituzionalita': la
sopravvenuta  incompatibilita'  dell'art. 5-bis  attiene  ai  profili
evidenziati dalla Corte europea dei diritti, ovvero alla contrarieta'
ai  principi  del  giusto  processo, e alla incongruita' della misura
indennitaria, nel rispetto che e' dovuto al diritto di proprieta'.
    10.   -   Conclusivamente,  vanno  dichiarate  rilevanti,  e  non
manifestamente  infondate la questioni di legittimita' costituzionale
riguardanti  l'art. 5-bis,  comma 7-bis, d.l. 11 luglio 1992, n. 333,
conv. in legge 8 agosto 1992, n. 359:
        per  contrasto  con l'art. 111, primo e secondo comma, Cost.,
anche  alla  luce  dell'art. 6  della Convenzione europea dei diritti
dell'uomo   e  delle  liberta'  fondamentali,  nella  parte  in  cui,
disponendo  l'applicabilita'  ai  giudizi  in  corso  delle regole di
determinazione del risarcimento del danno per occupazione illegittima
in   esso  contenute,  viola  i  principi  del  giusto  processo,  in
particolare  le condizioni di parita' delle parti davanti al giudice,
che   risultano   lese   dall'intromissione  del  potere  legislativo
nell'amministrazione  della  giustizia  allo  scopo di influire sulla
risoluzione   di   una   circoscritta  e'  determinata  categoria  di
controversie;
        per  contrasto con l'art. 117, primo comma, Cost., anche alla
luce  dell'art. 6  e  dell'art. 1  del I prot. add. della Convenzione
europea  dei  diritti  dell'uomo e delle liberta' fondamentali, nella
parte  in  cui, disponendo l'applicabilita' ai giudizi in corso delle
regole  di  determinazione del risarcimento del danno per occupazione
illegittima   in   esso  contenute,  ed  assicurando  un  trattamento
indennitario  lesivo  del  diritto  di  proprieta',  viola  i vincoli
derivanti dagli obblighi internazionali.