ha pronunciato la seguente

                              Sentenza

nel  giudizio  per  conflitto  di  attribuzione sorto a seguito della
deliberazione  del  Senato  della  Repubblica  del  31 gennaio  2001,
relativa  all'insindacabilita',  ai  sensi dell'art. 68, primo comma,
della  Costituzione, delle opinioni espresse dal senatore Marco Boato
nei  confronti  del  dott.  Guido Salvini, promosso con ricorso della
Corte  d'appello  di  Milano,  seconda  sezione civile, notificato il
27 luglio  2004,  depositato  in  cancelleria  il  4 agosto  2004  ed
iscritto al n. 13 del registro conflitti 2004.
    Visto  l'atto  di  costituzione  fuori  termine  del Senato della
Repubblica, nonche' l'atto di intervento del senatore Marco Boato;
    Udito  nell'udienza  pubblica  del  26 settembre  2006 il giudice
relatore Franco Bile;
    Uditi gli avvocati Nicolo' Zanon per il Senato della Repubblica e
Vittorio Angiolini per Marco Boato.

                          Ritenuto in fatto

    1.  - Nel corso di un giudizio civile, promosso da Guido Salvini,
magistrato  in  Milano  -  per  ottenere  il  risarcimento dei danni,
asseritamente  subiti  in  conseguenza  delle  dichiarazioni  rese in
qualita'  di teste dal deputato Marco Boato, il 23 febbraio 1990, nel
processo  dinanzi  alla  Corte d'assise di Milano a carico di Adriano
Sofri  ed  altri, imputati dell'omicidio del commissario Calabresi, e
poi  ribadite  dal medesimo parlamentare nel corso di un dibattito, e
di  successive interviste alla stampa - la Corte d'appello di Milano,
seconda  sezione  civile, con ricorso depositato il 26 febbraio 2003,
ha  proposto conflitto di attribuzioni tra poteri dello Stato avverso
la  delibera del 31 gennaio 2001 (doc. IV-quater, n. 61) con la quale
il  Senato  della  Repubblica aveva dichiarato a maggioranza assoluta
che  i  fatti  oggetto  di tale processo civile concernevano opinioni
espresse dal parlamentare nell'esercizio delle sue funzioni, ai sensi
dell'art. 68, primo comma, della Costituzione.
    L'accusa   rivolta  dal  parlamentare  all'attore  era  di  avere
tentato,  «fuori  da  ogni  verbale»,  di strumentalizzare uno o piu'
pentiti onde estorcere loro il suo nome quale mandante dell'omicidio.
    La  Corte  d'appello  ricorrente  osserva  che  la  Giunta  delle
elezioni  e  delle  immunita'  parlamentari  del  Senato  ha ritenuto
insindacabili  i  fatti  oggetto  del  procedimento civile sulla base
della premessa secondo cui e' «estremamente riduttivo [...] collegare
e  limitare la tutela dell'insindacabilita' di un parlamentare ad una
stretta  connessione  e pertinenza rispetto alle dichiarazioni da lui
rese  nell'esercizio dell'attivita' parlamentare formalmente intesa»,
onde  la  vicenda in esame «travalica il fatto in se' per assumere il
rilievo  di  una  denuncia  dei  mali  della  giustizia» ed assume un
«significato    di   critica   politica   collegata   alla   funzione
parlamentare».
    Viceversa,  secondo  la  Corte  d'appello,  tale  assunto  stride
insanabilmente   con   i   principi  affermati  dalla  giurisprudenza
costituzionale,  secondo cui la garanzia prevista dall'art. 68, primo
comma,  della  Costituzione,  in  tanto si applica alle dichiarazioni
rese   dal   parlamentare   extra  moenia,  in  quanto  sussista  una
sostanziale corrispondenza di significato con opinioni gia' espresse,
o  contestualmente  espresse, nell'esercizio di funzioni parlamentari
tipiche,  non essendo sufficiente la semplice comunanza di argomenti,
ne',  tanto  meno,  la  loro semplice riconducibilita' ad un medesimo
contesto politico.
    Poiche'  l'immunita'  parlamentare  per i voti dati e le opinioni
espresse  dal parlamentare nell'esercizio delle sue funzioni concreta
una  garanzia  di  tipo  funzionale (che tende a tutelare l'attivita'
parlamentare,  nella  considerazione  del ruolo fondamentale che essa
assume  per  la  realizzazione  di  un sistema democratico, ed il cui
valore  non  puo'  essere  compromesso  da un uso distorto del potere
giudiziario),   l'estraneita'   delle   dichiarazioni  rese  rispetto
all'ambito delle attivita' parlamentari o politiche e' resa evidente,
secondo  la Corte d'appello, sia dalla circostanza che la fonte della
notizia  oggetto  della  deposizione  (conosciuta dal parlamentare in
seguito ad un colloquio privato con un avvocato) non risulta in alcun
modo  collegata  allo  svolgimento di attivita' parlamentari; sia dal
rilevante  lasso  cronologico  intercorso  tra  l'acquisizione  della
notizia  (avvenuta  nel  1986) e la sua divulgazione (nel 1990); sia,
precipuamente,  dalla  sede  prescelta  per  la  divulgazione  stessa
(processo  penale  di  scottante  attualita', dove il parlamentare e'
stato  sentito  in qualita' di teste, vincolato quindi all'obbligo di
dire la verita', dovendosi invece astenere dall'esprimere opinioni).
    Sospeso il giudizio, la ricorrente ha, quindi, concluso chiedendo
che la Corte costituzionale: a) «dichiari che non competeva al Senato
della  Repubblica  la  valutazione  della condotta attribuita all'On.
Marco Boato, in quanto estranea, in tutto o in parte, alla previsione
normativa dell'art. 68, primo comma, della Costituzione»; b) «annulli
la  relativa deliberazione adottata dal Senato della Repubblica nella
seduta del 31 gennaio 2001».
    2.  -  Il conflitto e' stato dichiarato ammissibile con ordinanza
n. 225 del 15 luglio 2004.
    A  cura della Corte d'appello di Milano, la predetta ordinanza e'
stata  notificata  al  Senato della Repubblica, unitamente al ricorso
introduttivo,   in  data  27 luglio  2004;  ai  fini  del  prescritto
deposito, gli atti sono stati inviati a mezzo del servizio postale il
4 agosto 2004, pervenendo nella cancelleria della Corte il successivo
7 agosto.
    3.  - In data 24 settembre 2004, si e' costituito il Senato della
Repubblica   che   -   «consapevole  di  aver  depositato  presso  la
cancelleria  della Corte costituzionale [...] un atto di costituzione
oltre  il  termine  di  venti  giorni dalla notificazione ricevuta ad
opera  della Corte d'appello di Milano», ha comunque svolto (anche in
una  ulteriore  memoria  illustrativa)  deduzioni sulla tempestivita'
della costituzione e, nel merito, sulla non fondatezza del conflitto.
    4.   -   Al   fine  di  sentir  dichiarare  l'inammissibilita'  e
l'infondatezza  del  conflitto,  ha spiegato «atto di intervento e di
costituzione  in giudizio» (ed ha depositato memoria illustrativa) il
senatore   Marco   Boato,  «nella  sua  qualita'  di  Senatore  della
Repubblica».

                       Considerato in diritto

    1.  -  La  Corte  d'appello  di  Milano  ha  proposto ricorso per
conflitto  di attribuzioni tra poteri dello Stato avverso la delibera
del  31 gennaio  2001  (doc. IV-quater, n. 61) con la quale il Senato
della  Repubblica  ha  dichiarato  che  i  fatti oggetto del processo
civile  promosso  dal  dott.  Guido  Salvini contro il senatore Marco
Boato  concernono  opinioni  espresse  da quest'ultimo nell'esercizio
delle  sue funzioni parlamentari, ai sensi dell'art. 68, primo comma,
della Costituzione.
    Nel  giudizio  pendente  davanti  alla  ricorrente,  l'attore  ha
chiesto   il   risarcimento   dei   danni,  asseritamente  subiti  in
conseguenza  delle  dichiarazioni  rese  dal convenuto il 23 febbraio
1990,  in  qualita' di teste nel processo dinanzi alla Corte d'assise
di  Milano a carico di Adriano Sofri ed altri, imputati dell'omicidio
del   commissario  Luigi  Calabresi,  e  poi  ribadite  dal  medesimo
parlamentare  nel  corso  di  un dibattito e di successive interviste
alla  stampa.  L'accusa  rivolta  all'attore era di aver tentato - in
qualita'  di  giudice  istruttore  e  «fuori  da  ogni  verbale» - di
strumentalizzare  uno  o  piu' pentiti per estorcere loro il nome del
senatore convenuto quale mandante dell'omicidio.
    In  sintesi, la Corte d'appello di Milano ritiene insussistenti i
presupposti  dell'insindacabilita', in quanto le citate dichiarazioni
rese  dal  parlamentare  extra  moenia  non  erano legate da un nesso
funzionale  con  nessun  atto parlamentare tipico avente ad oggetto i
fatti oggetto del giudizio.
    2. - Preliminarmente, deve essere confermata l'ammissibilita' del
conflitto  sussistendone  i presupposti soggettivi ed oggettivi, come
gia' ritenuto da questa Corte nell'ordinanza n. 225 del 2004.
    3.  -  Allo stesso modo, va ribadito quanto deciso, con ordinanza
letta  in  udienza  ed  allegata  alla  presente  sentenza, in ordine
all'inammissibilita'  della costituzione del Senato della Repubblica,
perche'  tardiva,  e  dell'intervento  del  senatore  convenuto,  per
carenza di legittimazione.
    4. - Nel merito, il ricorso e' fondato.
    Secondo   la   costante   giurisprudenza  di  questa  Corte,  per
l'esistenza  di  un  nesso funzionale tra le dichiarazioni rese da un
parlamentare  al  di  fuori della sede istituzionale e l'espletamento
delle  sue  funzioni di membro del Parlamento, e' necessario che tali
dichiarazioni    possano   essere   identificate   come   espressione
dell'esercizio di attivita' parlamentari (cfr. sentenze n. 10 e n. 11
del  2000),  ed  il compito di questa Corte e' limitato alla verifica
dell'esistenza  di  tale  nesso (da ultimo, sentenze n. 314, n. 315 e
n. 317 del 2006).
    Nel  caso  in  esame,  ne' la delibera di insindacabilita' ne' la
proposta  della  Giunta  delle  elezioni e delle immunita' del Senato
contengono alcun riferimento ad atti tipici compiuti dal parlamentare
sul tema oggetto della deposizione.
    La relazione della Giunta (cui fa integrale rinvio la delibera di
insindacabilita) - ritenuto «estremamente riduttivo [...] collegare e
limitare  la  tutela della insindacabilita' di un parlamentare ad una
stretta  connessione  e pertinenza rispetto alle dichiarazioni da lui
rese nell'esercizio dell'attivita' parlamentare formalmente intesa» -
osserva  che  la  vicenda  in  esame  «travalica  il fatto in se' per
assumere  il  rilievo  di  una  denuncia dei mali della giustizia, di
deprecabili  comportamenti di magistrati di cui, quello in esame, non
e'  purtroppo  l'unico  ma  uno  dei tanti che negli ultimi anni, con
frequente    ricorrenza,   hanno   violentemente   caratterizzato   e
condizionato l'amministrazione della giustizia nel nostro paese [...]
significativo  episodio  che  rivela,  in particolare, le distorsioni
delle  regole  processuali nell'uso (e nell'abuso!) dei collaboratori
di  giustizia». E conclude affermando che alle dichiarazioni medesime
deve  attribuirsi  «il significato di critica politica collegata alla
funzione parlamentare» del senatore.
    Ma  e'  consolidato l'orientamento di questa Corte secondo cui il
mero  «contesto  politico»  o  comunque  l'inerenza a temi di rilievo
generale  dibattuti  in  Parlamento,  entro  cui  le dichiarazioni si
possano  collocare,  non  vale  in  se' a connotarle quali espressive
della funzione, ove esse, non costituendo la sostanziale riproduzione
di  specifiche  opinioni  manifestate dal parlamentare nell'esercizio
delle  proprie attribuzioni, siano non gia' il riflesso del peculiare
contributo  che ciascun deputato e ciascun senatore apporta alla vita
parlamentare  mediante le proprie opinioni e i propri voti (come tale
coperto,    a    garanzia    delle    prerogative    delle    Camere,
dall'insindacabilita),  ma  un'ulteriore  e  diversa articolazione di
siffatto  contributo,  elaborata  ed  offerta  alla pubblica opinione
nell'esercizio  della libera manifestazione del pensiero assicurata a
tutti  dall'art. 21  della  Costituzione  (sentenze n. 317 del 2006 e
n. 51 del 2002).
    Ne'  varrebbe  obbiettare  che  la  deposizione resa nel giudizio
penale  costituisca  atto  tipico della funzione di senatore: infatti
l'obbligo  di  rendere testimonianza (e, con essa, di dire la verita)
riguarda direttamente ogni cittadino e l'esercizio di tale dovere non
richiede  l'intermediazione  della  rappresentanza  parlamentare.  La
dichiarazione fatta nel corso di tale incombente istruttorio non puo'
assumere, dunque, i connotati di un atto tipico della funzione per il
solo  fatto  che  ne sia autore un parlamentare (cfr. sentenza n. 286
del 2006).
    Le  dichiarazioni  rese  dal  senatore  non  rientrano, pertanto,
nell'esercizio  della  sua funzione parlamentare e non sono garantite
dall'insindacabilita'.  Conseguentemente,  l'impugnata  delibera  del
Senato  della  Repubblica  ha  violato  l'art. 68, primo comma, della
Costituzione,   ledendo   con  cio'  le  attribuzioni  dell'autorita'
giudiziaria ricorrente, e deve essere annullata.