IL TRIBUNALE

    Ha pronunciato la seguente ordinanza.
    Il  giudice,  letti  gli atti del proc. pen. pendente a carico di
Angelini  Carlo,  all'esito  dell'udienza  tenutasi  in data odierna,
osserva quanto segue.
    La  Corte di cassazione, con sentenza emessa il 24 novembre 2005,
nel  valutare  il  ricorso proposto con racc. del 23 dicembre 2004 da
Angelini  Carlo  avverso  la  sentenza  del Giudice di pace di Teramo
(emessa  il  9  novembre  2004,  depositata  il  18  novembre  2004 e
notificata  il  25 novembre 2004 all'imputato contumace, con la quale
il  predetto  e' stato condannato alla pena pecuniaria di Euro 300,00
di multa ed al risarcimento del danno pari ad Euro 1.500,00 in favore
della  parte  civile  Lanciaprima  Giuseppe,  per  il  reato  di  cui
all'art. 594  c.p. per fatti accertati in Teramo il 20 gennaio 2003),
lo ha convertito in appello, con trasmissione degli atti al Tribunale
di  Teramo per l'ulteriore corso, sul presupposto che, pur venendo in
rilievo  una  condanna  a  pena  pecuniaria, il disposto dell'art. 37
d.lgs.  n. 274/2000  (che  consente  l'appello da parte dell'imputato
unicamente se viene impugnato anche il capo relativo alla condanna al
risarcimento  del  danno,  evenienza  mancante  nel caso in esame) e'
superato dall'art. 574 quarto comma c.p.p. (per cui l'impugnazione si
estende  comunque  alla  pronuncia  alla condanna al risarcimento dei
danni se questa pronuncia dipende dal capo o dal punto impugnato).
    Invero,  nel contesto dell'atto di gravame proposto dall'Angelini
e'  formulata  unicamente  la richiesta di «cassazione dell'impugnata
sentenza», eccependosi, in particolare: 1) la nullita' della sentenza
per  violazione  dell'art. 178  lett.  c),  c.p.p., in relazione agli
artt. 484  e  420-ter, quinto comma c.p.p., per aver il primo giudice
disatteso  il  certificato  medico  inviato dal difensore, procedendo
all'istruttoria  e  decidendo  il  processo  in  sua  assenza;  2) la
mancanza  o  comunque  carenza  della  motivazione  ed inosservanza o
erronea  applicazione della legge penale, non avendo il primo giudice
indicato   le   locuzioni   asseritamene   lesive  (errando  peraltro
nell'individuare nel fascicolo di parte e non nell'atto di appello la
mancata  restituzione),  cosi'  impedendo tra l'altro ogni indagine e
conseguente  eccezione  sulla  sussistenza dell'elemento psicologico.
Nessun   motivo  di  doglianza  risulta,  pertanto,  evidenziato  con
specifico riferimento ai capi concernenti la condanna al risarcimento
del danno.
    L'odierno  giudicante  dovrebbe,  di  conseguenza,  attenersi  al
principio  di  diritto  dettato  dalla  Suprema Corte, giudicando sul
ricorso  proposto  dall'Angelini. Ma, stante la mancanza di doglianze
sulla  domanda  risarcitoria,  reputa di dover affrontare il problema
concernente  la conformita' alla Costituzione dell'art. 37 del d.lgs.
n. 274/2000,  anche alla luce dell'interpretazione datane dalla Corte
di cassazione.
    Va doverosamente premesso che la Suprema Corte, in altre pronunce
emesse  in  materia,  ha adottato una soluzione completamente diversa
(e,  a  parere  del  giudicante, ben piu' conforme a legge). Infatti,
nella sentenza n. 19382/05, si legge: «... Vero e' ... che, avendo il
giudice  di  pace  emesso  sentenza  di  condanna  a pena pecuniaria,
l'appello  sarebbe  stato  consentito  all'imputato  soltanto se egli
avesse  impugnato il capo relativo alla condanna, pur generica ... al
risarcimento   del   danno,  giusta  previsione  dell'art. 37  d.lgs.
n. 274/2000;  e,  nella specie, l'esame dell'atto di appello consente
di  escludere  che  il  capo  relativo  alle statuizioni civili abbia
formato oggetto di gravame perche', pure enunciato il proposito nella
intestazione,  nella  parte  riservata  ai  motivi alcuna censura sul
punto  e'  concretamente  ravvisabile ...». E, ancora, nella sentenza
n. 39465/2005,  si  legge:  «...  Il  difensore della parte civile ha
chiesto  che  il  ricorso sia qualificato come appello, essendo stato
tacitamente  impugnato  anche  il  capo  della sentenza relativo alle
statuizioni  civili. Tale deduzione non puo' essere condivisa. E' pur
vero che questa Sezione ha altre volte deciso che anche se l'imputato
non  si  duole  della  condanna  al  risarcimento  del  danno, la sua
impugnazione  va  qualificata come appello, poiche' l'art. 574 c.p.p.
dispone  che  l'impugnazione  contro  la  pronuncia  di condanna o di
assoluzione estende i suoi effetti alle statuizioni civili dipendenti
dal  capo o dal punto impugnato - sez. 5ª, 25 novembre 2004, n. 1349,
Parisi;  id., 18 novembre 2004, n. 2270, Linale. Re perpensa, occorre
considerare  che  la normativa che disciplina il procedimento davanti
al giudice di Pace ha carattere speciale ed e' improntata a snellezza
e  rapidita'.  Orbene,  il  d.lgs.  n. 274/2000, all'art. 37 comma 1,
prevede  che  l'imputato  possa  proporre  appello  anche  contro  le
sentenze  di  condanna a pena pecuniaria, se impugna il capo relativo
alla  condanna,  anche  generica,  al  risarcimento  del danno. Nella
specie  l'imputato ha proposto ricorso, formulando censure unicamente
in  riferimento alla statuizione penale, sicche' non v'e' ragione che
l'impugnazione  vada qualificata come appello. Ne' a tale conclusione
osta  il  dettato  dell'art. 574  c.p.p.,  che  serba  integra la sua
valenza,  atteso  che  la  pronuncia  del  giudice di legittimita', a
seguito  del  ricorso  proposto,  esplichera' i suoi effetti anche in
ordine  alle  restituzioni  ed  al risarcimento del danno, in diretta
derivazione dalla statuizione di carattere penale ...».
    L'indirizzo  giurisprudenziale appena citato appare condivisibile
in  quanto,  in  caso contrario, l'art. 37 de1 d.lgs. n. 274/2000 (da
considerare  «prevalente»  ex art. 2 dello stesso d.lgs.) non avrebbe
alcun  senso  qualora  si  dovesse  ritenere automaticamente superato
dall'art. 574  c.p.p.  visto  che,  a prescindere completamente dalla
volonta'  espressa  dal  ricorrente  nell'atto  di  gravame, tutte le
impugnative avverso sentenze recanti una condanna al risarcimento del
danno,   per  tale  unica  evenienza,  sarebbero  qualificabili  come
appelli.
    Ma,  a  ben  vedere,  l'art. 37,  anche  se  interpretato secondo
l'orientamento  «restrittivo»  della  Suprema  Corte,  condiviso  dal
giudicante, sembra, comunque, porre profili di contrasto con la legge
delega e, quindi, con l'art. 76 della Costituzione.
    A  tal  proposito,  si osserva che, nella relazione della seconda
Commissione  Permanente  (Giustizia)  del Senato (n. 3160 A, relatore
Fassone)   viene  testualmente  evidenziato  «L'esigenza  di  massima
semplificazione  del  procedimento penale davanti al giudice di pace,
enunciata  al comma 1 dell'art. 18 del disegno di legge, non puo' non
riverberarsi  anche  sul  regime  delle  impugnazioni,  sotto pena di
trasferire  sui  tribunali competenti per lappello una massa di reati
sanzionati  con  pene  di  modestissima  entita'.  Per conseguenza la
Commissione  ha  ritenuto di dover escludere dall'appello quanto meno
tutte  le  sentenze che irrogano una pena pecuniaria, di qualsivoglia
natura  essa  sia  ... Oltre a cio', per evitare una dissimmetria non
giustificabile,  si  e'  ritenuto  di introdurre - con l'art. 19 - la
stessa  regola  anche  per le sentenze emesse da un giudice ordinario
aventi  uguale contenuto sanzionatorio, a tal fine modificando l'art.
593,  comma  3, del codice di procedura penale. Se non si operasse in
tal  modo,  si  avrebbe  che  non solo lo stesso tipo di pena sarebbe
suscettibile  di  appello  oppure  no  a seconda del giudice che l'ha
irrogata;  ma  addirittura  che la medesima pena pecuniaria, inflitta
per  l'identico  reato,  sarebbe  appellabile  ovvero inappellabile a
seconda che quel reato sia stato conosciuto dal giudice di pace o dal
giudice ordinario in forza di connessione. Ebbene, l'art. 17 lett. n)
della  legge  delega  (legge  n. 468/1999),  che  detta  i criteri da
seguire  da parte del legislatore delegato in materia di impugnativa,
e'  stato  formulato  in  conformita'  con  le  indicate motivazioni,
prevedendosi  l'appellabilita'  delle  sentenze emesse dal giudice di
pace,  ad eccezione di quelle che applicano la sola pena pecuniaria e
di quelle di proscioglimento relative a reati puniti con la sola pena
pecuniaria».
    Nella  relazione  al d.lgs. n. 274/2000, il legislatore delegato,
pero',  a  proposito dell'art. 17, lett. n) della, legge n. 468/1999,
ha precisato «... Pertanto (art. 37) l'imputato puo' proporre appello
contro  le  sentenze  di  condanna  che applicano una pena diversa da
quella  pecuniaria. Su sollecitazione della Commissione giustizia del
Senato,   e'   stata   inoltre  prevista  l'appellabilita'  da  parte
dell'imputato  delle  sentenze che applicano la sola pena pecuniaria,
qualora   questi  impugni  il  capo  relativo  alla  condanna,  anche
generica,  al  risarcimento  del  danno.  In  effetti,  mentre la non
appellabilita'  delle  sentenze che applicano la sola pena pecuniaria
appare  del  tutto  giustificata,  in  ragione della modesta concreta
afflittivita'  della  sanzione,  quando,  esercitata  in  sede penale
l'azione  civile,  la  sentenza  rechi  condanna,  anche generica, al
risarcimento  del  danno  (possibile  per  somme  anche  notevolmente
superiori  all'ordinario  limite di competenza per valore del giudice
di pace civile), consentire un secondo giudizio e' apparsa una scelta
opportuna.  D'altro  canto,  lo  specifico criterio di delega, che fa
riferimento  alla  non  appellabilita'  da  parte dell'imputato delle
sentenze  che applicano la sola pena pecuniaria puo' ben essere letta
nel  senso  di sottrarre alla garanzia del secondo grado di merito le
pronunce  che rechino condanna alla sola pena pecuniaria, e non anche
quelle  nelle  quali  sia  statuita  una  ulteriore condanna (sia pur
relativa all'azione civile).»
    Il  legislatore  delegato,  quindi,  ha  giustificato  la propria
scelta  di  «ampliare»  le  ipotesi  di appellabilita', nonostante il
chiaro  contenuto  dell'art.  17 lett. n) della legge delega, perche'
preoccupato  di possibili liquidazioni del danno da parte del giudice
di  pace  oltre  i  propri  limiti  di  competenza per valore in sede
civile.  La  Corte  costituzionale,  nelle  numerose  pronunce emesse
proprio  in  relazione  ad  altri  casi in cui era stata lamentata la
violazione  dell'art. 76 della Costituzione ha sottolineato che: «...
la determinazione dei principi e criteri direttivi, a mente dell'art.
76 della Costituzione, se vale a circoscrivere il campo della delega,
si'  da  evitare  che  essa venga esercitata in modo divergente dalle
finalita'  che  l'hanno determinata, non osta, invece, all'emanazione
di  norme  che  rappresentino  un  coerente sviluppo, e, se del caso,
anche  un  completamento  delle  scelte  espresse dal legislatore. Va
escluso,  infatti,  che  le  funzioni  del legislatore delegato siano
limitate ad una mera "scansione linguistica" delle previsioni dettate
dal  delegante, essendo consentito al primo di valutare le situazioni
giuridiche  da  regolamentare  e di effettuare le conseguenti scelte,
nella  fisiologica  attivita' di "riempimento" che lega i due livelli
normativi,  rispettivamente,  della  legge di delegazione e di quella
delegata  ...  (sent.  n. 308/2002);  ...  i  principi  e  i  criteri
direttivi  della  legge di delegazione devono essere interpretati sia
tenendo   conto   delle   finalita'  ispiratrici  della  delega,  sia
verificando,  nel  silenzio del legislatore delegante sullo specifico
tema,  che  le  scelte  operate dal legislatore delegato non siano in
contrasto  con  gli indirizzi generali della stessa legge delega ...»
(ordinanza n. 228 del 2005).
    Nel  caso  in  esame,  il  legislatore  delegante  si e' espresso
basandosi  sui  principi  della  massima  semplificazione  sia per la
procedura  da  seguire  davanti  al  giudice  di  pace,  sia  per  le
impugnazioni  delle sentenze emesse da detto giudice, perseguendo, in
tale ultimo caso, anche un evidente intento deflattivo (conformemente
alla   riformulazione   dell'art. 593   c.p.p.).  Se  la  scelta  del
legislatore  delegato  fosse  stata  dettata dalle motivazioni dianzi
citate  (ossia,  dalle  preoccupazioni  di possibili liquidazioni del
danno  oltre i limiti di competenza per valore del giudice di pace in
sede   civile),   detta   scelta,  di  per  se',  non  sarebbe  stata
irragionevole,   tenuto   conto   delle   indicazioni   fornite   nei
provvedimenti  resi  in  materia  dal  giudice delle leggi. Di fatto,
pero',   la  formulazione  dell'art. 37  del  d.lgs.  n. 274/2000  ha
travalicato  gli  intenti che lo hanno ispirato, apparendo di per se'
irragionevole,  e  detta  «irragionevolezza»  e'  stata ulteriormente
«aggravata»  dall'interpretazione  «estensiva»  datane  da  una parte
della  Corte  di  cassazione.  Infatti,  sarebbe bastato prevedere la
possibilita'  di  appellare  la  sentenza  qualora vi fosse stata una
condanna dell'imputato a pena pecuniaria nonche' una liquidazione del
danno  (non  generica,  ma  definitiva  ovvero con provvisionale) con
quantificazione  superiore  alla competenza per valore del giudice di
pace in sede civile, sottoponendosi al vaglio del giudice del gravame
una  simile  evenienza,  sempre se espressamente eccepita dalla parte
interessata.  Soltanto una siffatta scelta, in quanto sorretta da una
valida  ragione, avrebbe rispettato lo spirito di «semplificazione» e
«deflattivo»  comunque  perseguito  dalla  legge  delega, non ponendo
dubbi  ne'  di  eccesso  di  delega  ne' di disparita' di trattamento
rispetto  alle  condanne  alla pena dell'ammenda irrogate dal giudice
ordinario  e non appellabili ex art. 593, terzo comma c.p.p. anche in
presenza di una condanna risarcitoria di qualunque natura ed entita'.
Nell'attuale formulazione, invece, l'appellabiita' delle sentenze del
giudice  di  pace  e'  estesa  a  tutte le condanne risarcitorie, ivi
comprese   sia   quella   generica   (e,   come  tale,  da  liquidare
successivamente  in  sede  civile,  nel rispetto della competenza per
valore  del  giudice adito), sia quella per quantificazioni del tutto
irrisorie  o  comunque  modeste  (quale  quella  oggetto del presente
processo).  L'art.  37 del d.lgs. n. 274/2000, di conseguenza, sembra
costituzionalmente  illegittimo  per  violazione  degli  artt. 76 e 3
della  Costituzione,  apparendo  che  il  legislatore  delegato abbia
violato  la  legge  delega  in  modo irragionevole, creando anche una
ingiustificata disparita' di trattamento. La questione assume rilievo
nel  presente  processo  perche', in caso di accoglimento, il ricorso
dovrebbe  essere nuovamente trasmesso alla Corte di cassazione per le
valutazioni  delle  questioni  (peraltro  di  mero  diritto) eccepite
dall'imputato.