IL TRIBUNALE Ha emesso la seguente ordinanza. Il Tribunale, sulla questione di legittimita' costituzionale sollevata a conclusione dell'istruttoria dibattimentale in relazione all'art. 630 c.p. per violazione degli artt. 27 e 3 della Costituzione dalla difesa di Dedej Gentiam con memoria depositata il 12 aprile 2006; Sentiti il p.m., il difensore del Dedej e quelli dei coimputati Deda Shpresin, Morina Luan, all'esito della discussione e riunito in camera di consiglio; espone in fatto: il giorno 8 agosto 2003, Charfi Miled veniva accampagnato in auto dall'amica Tristano Marilena al bar Bicocca di Noventa Padovana (Pordenone) e li' rimaneva in attesa della Tristano e di un altro amico, mentre costoro si allontanavano per procurare della cocaina. Era stato Charfi Miled a prendere contatti a tale scopo con un ragazzo di nazionalita' albanese, che pero' non voleva personalmente incontrare perche' questi avanzava da lui del danaro. Mentre si trovava nel pubblico esercizio, Charfi era stato individuato proprio da tale giovane (identificato in Morina Luan), che era nel frattempo sopraggiunto a bordo di uno scooter. Poi erano arrivati altri due individui di nazionalita' albanese richiamati dal primo (K. J. e Dedej Gentiam) che avevano trascinato fuori dall'esercizio Charfi Miled, nonostante egli avesse tentato di nascondersi nel bagno. Lo avevano malmenato e caricato a forza in un'auto a bordo della quale si trovava Deda Shpresin. Poi l'avevano portato via anche sotto la minaccia di un coltello. Gli era stato insistentemente richiesto di pagare il danaro dovuto; gli era stata sottratta una somma di danaro che aveva con se'; gli era stata ingiunto di pagare entro breve termine quanto richiesto. Intorno alle 7.45 del giorno seguente - 9 agosto - a seguito della segnalazione di un cittadino, Charfi era stato trovato in un casolare diroccato di Cadoneghe e soccorso dai Carabinieri. Presentava gli arti legati con della corda, era imbavagliato con nastro adesivo ed aveva dichiarato di essere stato tenuto segregato dal giorno precedente sotto la minaccia di armi. I militari si erano adoperati per arrestare i sequestratori sopraggiunti in loco: l'operazione aveva avuto esito solo per il minorenne K. J., mentre un secondo complice (riconosciuto dai militari per Morina Luan) era riuscito a darsi alla fuga nonostante l'esplosione di colpi a scopo intimidatorio da parte dei Carabinieri. Dedej Gentiam e' stato riconosciuto come l'individuo piu' corpulento, che aveva trascinato fuori dal bar Bicocca e percosso Charfi. Egli stesso ha ammesso di essere sopraggiunto nel suddetto locale pubblico perche' chiamato da K. J. Anche la presenza del Deda Shpresin a bordo dell'auto che aveva prelevato Charfi presso il bar di Noventa Padovana e' stata accertata: sul punto sono state ritenute utilizzabili le dichiarazioni rese a carico di tale imputato da Charfi nel corso di incidente probatorio (atto dichiarato invece inutilizzabile nei confronti degli altri coimputati), e lo stesso Deda ha ammesso di essere stato presente a bordo dell'auto con cui Charfi era stato portato via. Il sequestro di Charfi Miled era stato motivato dal proposito di esercitare su di lui pressioni affinche' si attivasse presso connazionali per procurarsi la consistente somma di danaro necessaria a pagare il corrispettivo (per migliaia di euro) di sostanza stupefacente precedentemente ricevuta. Ed infatti, come riscontrato dalle telefonate che casualmente avevano formato oggetto di ascolto e registrazione nell'ambito di una diversa indagine, durante il tempo nel quale Charfi era stato trattenuto - sia fisicamente che sotto minaccia di armi - presso il casolare abbandonato, gli era stato consentito - anzi prescritto - l'uso del telefono cellulare (ma vietato di esprimersi in arabo) per cercare i contatti necessari a conseguire il danaro che gli veniva richiesto. Nell'azione perpetrata in danno dello Charfi consistita nella privazione della liberta' personale protratta per un lasso di tempo apprezzabile ed allo scopo di conseguire un ingiusto profitto come prezzo della liberazione (liberazione ovviamente alternativa alla morte minacciata qualora non avesse procurato la somma richiesta) si configurano gli elementi costitutivi tipici del delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione previsto dall'art. 630 c.p., punibile - nella sua forma «base» - con la pena della reclusione da 25 a 30 anni. In punto di rilevanza, questo Tribunale ritiene di avere dato adeguato conto - sia pure in un quadro di sintesi - dei presupposti per la pronuncia di una sentenza di condanna a carico degli imputati Deda, Dedej e Morina. La norma che si intende sottoporre al vaglio della Corte costituzionale dovrebbe trovare necessaria applicazione a carico dei predetti imputati, benche' la fattispecie abbia ad oggetto la pretesa del pagamento - a titolo di riscatto - di un debito insorto da pregresso rapporto illecito. Sostanzialmente vincolante - e peraltro condivisa da questo Tribunale - e' l'opzione interpretativa espressa dalla Corte di cassazione a Sezioni unite con la sentenza n. 962 del 20 gennaio 2004 secondo cui, in base ai corretti canoni interpretativi, «il carattere giusto o ingiusto del profitto va apprezzato non in base alla personale valutazione dell'autore del fatto, ma con riferimento a canoni obiettivi, che sono quelli legali, a seconda che la legge riconosca o meno protezione alle posizioni giuridiche soggettive; con la conseguenza che sussistono gli estremi del delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione anche quando l'agente persegua un profitto che derivi da un pregresso rapporto illecito» (quale puo' essere appunto un rapporto di dare-avere in relazione ad una cessione di sostanza stupefacente). «A ben vedere» - ha soggiunto la Corte - «quando un soggetto viene tenuto sotto sequestro - inteso essenzialmente come privazione della liberta' di movimento nello spazio secondo l'autonoma scelta di ciascuno - e per la sua liberazione viene preteso un prezzo, l'azione tipica delineata dall'art. 630 c.p., risulta pienamente configurata, con la sua carica intenzionale di conseguimento di un profitto; se tale profitto e' ingiusto il reato si perfeziona ... la scomposizione di un fatto unitario, come tale previsto dall'art. 630 c.p., nei due reati semplici di cui agli artt. 605 e 629 c.p., mostra di confondere il movente retrostante col dolo specifico, fin dall'inizio ben delineato» e sembra esprimere la volonta' di soddisfare «esigenze di ordine equitativo» di fronte ad una pena di «eccezionale asprezza», piuttosto che le corrette regole ermeneutiche. A fronte della ritenuta necessita' di pronunciare la condanna degli imputati Dedej Gentiam, Deda Shpresim, Morina Luan per il delitto di cui all'art. 630 c.p., e dunque accertata la rilevanza della questione, il Collegio reputa non manifestamente infondata la questione di illegittimita' costituzionale dell'art. 630 c.p., comma primo, per violazione degli artt. 3, comma 1, e 27, comma 1 e 3 Cost., sotto il profilo della evidente irragionevolezza della previsione in base alla quale la pena minima per il delitto di sequestro di persona a scopo di estorsione e' fissata in anni 25 in difetto di circostanza attenuante speciale per i fatti di minore entita' o gravita'. Va premesso peraltro quanto segue. E' indubbio che spetta al legislatore in relazione al disvalore oggettivo dei fatti reato e del loro diverso grado di offensivita', individuare la pena edittale attraverso un'adeguata articolazione della stessa, nel rispetto del rapporto tra principio della riserva di legge del trattamento sanzionatorio e quello dell'individualizzazione della pena (cfr. sent. Corte cost. 285/1991). Per altro verso, la Corte delle leggi ha ripetutamente affermato che la determinazione della misura della pena, che rientra tra le scelte di esclusiva spettanza del legislatore, puo' essere sindacata in sede di controllo di legittimita' costituzionale soltanto ove superi il limite della ragionevolezza. In particolare con la sentenza n. 341/1994 la Corte, dichiarando l'illegittimita' costituzionale dell'art. 341, comma 1 c.p., nella parte in cui prevedeva come minimo edittale la reclusione per mesi sei, ha definitivamente chiarito che «il principio di uguaglianza di cui all'art. 3, primo comma Cost., esige che la pena sia proporzionata al disvalore del fatto illecito commesso in modo che il sistema sanzionatorio adempia al contempo alla funzione di difesa sociale ed a quella di tutela delle posizioni individuali;.. le valutazioni all'uopo necessarie rientrano nell'ambito del potere discrezionale del legislatore il cui esercizio puo' essere censurato, sotto il profilo dell'illegittimita' costituzionale solamente nei casi in cui non sia stato rispettato il limite della ragionevolezza...» (cfr. anche sentenze nn. 409/1989, 343 e 422 del 1993, 217/1996). E' poi significativo il passaggio, tratto dalla sentenza 313/1995 della Corte, in cui si afferma che «perche' sia possibile operare uno scrutinio che direttamente investa il merito delle scelte sanzionatorie operate dal legislatore, e' ... necessario che l'opzione normativa contrasti in modo manifesto con il canone della ragionevolezza, vale a dire si appalesi, in concreto, come espressione di un uso distorto della discrezionalita' che raggiunga la soglia di evidenza tale da atteggiarsi alla stregua di una figura per cosi' dire sintomatica di "eccesso di potere" e dunque, di sviamento rispetto alla attribuzione che l'ordinamento assegna alla funzione legislativa». La Corte, nel contesto della motivazione 341/1994, ha poi significativamente rilevato come avesse maturato la convinzione che la finalita' rieducativa della pena non sia limitata alla sola fase dell'esecuzione, ma costituisca «una delle qualita' essenziali e generali che caratterizzano la pena nel suo contenuto ontologico,... tale finalita' implica pertanto un costante principio di proporzione tra qualita' e quantita' della sanzione, da una parte ed offesa, dall'altra» (cfr. altresi' sent. 331/1990, 343 e 422/1993, ord. 165/1997). Premesso dunque che la pronuncia della Corte sulla presente questione di costituzionalita' potrebbe fondarsi su tali canoni, senza percio' inammissibilmente invadere l'ambito di specifica discrezionalita', non sindacabile, del legislatore, si sospetta, in punto di non manifesta infondatezza, la violazione dell'art. 27, comma 1 e 3 della Costituzione, e specificamente dei principi di personalita' della pena e della finalita' rieducativa della stessa per le ragioni che seguono. Il minimo edittale di 25 anni di reclusione previsto dal primo comma dell'art. 630 c.p., per la sua estrema severita' e soprattutto per l'assenza di una fattispecie attenuata speciale per i casi di minore entita', rappresenta, secondo il vaglio preliminare di questo Collegio, un caso in cui il legislatore ha operato una scelta che pare incompatibile con il rispetto dei predetti canoni costituzionali. Al solo fine di evidenziare l'irragionevolezza del minimo edittale (e non gia' di comparare, con riferimento all'art. 3 Cost. fattispecie penali che presentano elementi costitutivi difformi e che dunque come tali non si presterebbero ad essere confrontate tra loro) si consideri che in caso di omicidio volontario, ossia di sacrificio irreparabile del bene giuridico piu' protetto ed elevato, qual e' la vita umana, il minimo edittale, di anni ventuno, individuata dal legislatore e' inferiore a quello previsto dall'art. 630, comma 1 c.p. Nel caso della riduzione in schiavitu' prevista dall'art. 600 c.p., che implica la privazione globale degli attributi della personalita', totale asservimento e mercificazione della persona, e' prevista una pena da otto a venti anni di reclusione. Laddove poi si considerino fattispecie che presentano elementi tipici piu' prossimi, in parte sovrapponibili a quelli che cararatterizzano il delitto di cui all'art. 630 c.p., fattispecie collocate tutte, come l'art. 630 c.p., nel medesimo titolo XIII e capo I del codice penale (che declina i delitti contro il patrimonio commessi mediante violenza alle cose ed alle persone) si osserva che la rapina aggravata dalla circostanza speciale della violenza consistita nel porre taluno in stato di incapacita' di agire (che in fatto puo' equivalere alla transitoria privazione della liberta' personale, funzionale alla perpetrazione della rapina, e protratta per il tempo di commissione della medesima) di cui all'art. 628, comma 3, n. 2 c.p., e' punita con la pena minima di quattro anni e sei mesi. L'estorsione aggravata da analoga circostanza, giusta richiamo operato dall'art. 629, comma 2, all'art. 628, comma 3, n. 2 c.p., e' punita con la pena minima di sei anni di reclusione. E' noto che la scelta operata con la modifica legislativa di cui alla legge n. 894/1980, ritrova le sue motivazioni in uno straordinario aggravamento del fenomeno dei sequestri di persona a scopo di estorsione, risalente agli anni 1970 ed 1980 posti in essere da organizzazioni criminali, protratti, in taluni e notissimi casi, anche per anni, con esacerbata crudelta' ed al fine di ottenere profitti esorbitanti. Il legislatore reputo' pertanto di operare una scelta severissima, al fine di provocare sul piano della prevenzione generale, l'effetto del significativo contenimento di tali delitti. Peraltro, se pure le scelte legislative inevitabilmente possono risentire di fasi storiche non gia' del tutto contestuali, ma comunque verosimilmente transeunti, rimane ora il dato ineluttabile della presenza, nell'ordinamento, di una norma che punisce sempre ed indistintamente con eccezionale severita', maggiore, si ripete, di quella da usarsi con un omicida volontario, comportamenti che, nella loro variegata manifestazione, possono significativamente differenziarsi, per durata della condotta, modalita' della stessa, entita' della sofferenza arrecata alla vittima. Ed invero la giurisprudenza della Corte di cassazione negli ultimi anni, ne ha dato atto, prendendo in esame una casistica assai difforme, in cui il reato di sequestro di persona a scopo di estorsione si e' concretato sia in protratte privazioni di liberta' personale, cosi' come in condotte mantenute per un lasso temporale breve o assai breve (cfr. sent. 323/1983, 499/1982). A fronte del dolo specifico, e della natura del reato di pericolo, e' poi irrilevante l'effettivo conseguimento del profitto preteso come prezzo della liberazione. Con la conseguenza, pertanto, che va irrogata la sanzione minima di 25 anni di reclusione anche per la privazione della liberta' personale di un soggetto per un tempo assai delimitato (di fatto anche poche ore) finalizzata all'estorsione. Dato per ovviamente condiviso l'assunto che la mercificazione della persona a fine di profitto, e dunque la sua sottomissione a scopi quali il conseguimento di un prezzo in cambio della liberazione, rappresenta una condotta comunque gravissima, che in taluni casi giustifica anche la sanzione prevista dall'art. 630 c.p. come massimo edittale, appare per converso, per i motivi suddetti, del tutto irragionevole la scelta del legislatore di sanzionare con la pena minima di anni venticinque di reclusione qualsivoglia azione riconducibile all'art 630 c.p., benche' connotata (come si reputa nel caso in esame) da minore gravita'. In tal modo viene inevitabilmente frustrata la finalita' (costituzionalmente protetta) di rieducare, finalita' che una pena sproporzionata in re ipsa non raggiunge; cosi' come frustata risulta la natura personale della pena, parametro che presuppone equita', e non esacerbata reazione punitiva, attraverso la graduazione della pena e la sua articolazione in aderenza al caso concreto. Per tali ragioni non appare manifestamente infondata l'eccezione sotto il profilo della violazione dell'art. 27, comma 1 e 3 Cost., determinata dal minimo edittale gia' richiamato (cosi' prossimo ai trenta anni previsti come massimo) parallelamente all'assenza di circostanze attenuanti per casi di minore gravita'. La fattispecie in decisione, per le sue caratteristiche di fatto, soprattutto per la durata dell'azione (protrattasi all'incirca 16 ore) esalta la dimostrazione della sproporzione della pena per eccesso del minimo edittale. In punto di violazione dell'art. 3, comma 1 della Costituzione. Il nostro ordinamento prevede una fattispecie che presenta connotati significativamente affini a quelli propri del delitto di cui all'art. 630 c.p. Recita l'art. 3, legge 26 novembre 1985, n. 718: «Chiunque, fuori dei casi indicati negli articoli 289-bis e 630 c.p., sequestra una persona o la tiene in suo potere minacciando di ucciderla, di ferirla o di continuare a tenerla sequestrata al fine di costringere un terzo, sia questi uno Stato, una organizzazione internazionale tra piu' Governi, una persona fisica, o giuridica, od una collettivita' di persone fisiche, a compiere un qualsiasi atto o ad astenersene, subordinando la liberazione della persona sequestrata a tale azione od omissione, e' punita con la reclusione da venticinque a trent'anni. Si applicano i commi secondo, terzo, quarto e quinto dell'art. 289-bis c.p. Se il fatto e' di lieve entita' si applicano le pene previste dall'art. 605 c.p. aumentate dalla meta' a due terzi. Il sequestro in questione, introdotto con legge di ratifica della Convenzione Internazionale firmata a New York in data 18 dicembre 1979 contro la cattura degli ostaggi, presenta connotati peculiari, taluni invero anche assai piu' gravi, rispetto a quelli costitutivi del reato di cui all'art. 630 c.p., valutata l'entita' e la tipologia dei beni giuridici protetti, la previsione, in forma alternativa ad altro, della minaccia di uccidere il sequestrato, la non determinazione della controprestazione prevista come prezzo della liberazione (che, in astratto, ben potrebbe consistere in atti politici o governativi anche molto piu' significativi e lesivi,rispetto al pagamento di un riscatto, e coinvolgenti una pluralita' di persone, tenuto conto che il soggetto estorto potrebbe essere uno Stato, una organizzazione internazionale tra piu' governi, una collettivita' di persone fisiche, etc.). E tuttavia per tale delitto che, pur essendo norma residuale e non speciale, in se' racchiude anche gli elementi tipici del sequestro di persona a scopo di estorsione (e che proprio per tale ragione viene indicato come termine di comparazione, a significare la palese violazione dell'art. 3 Cost.), e' prevista, da un lato, la medesima sanzione edittale di cui al primo comma dell'art. 630 c.p. ma, dall'altro individua una circostanza attenuante ad effetto speciale, che implica, per i casi di «lieve entita» l'applicazione della pena prevista dall'art. 605 c.p. (da sei mesi ad otto anni) aumentata dalla meta' a due terzi: dal che consegue che in caso di lieve entita' la pena irrogabile per tale delitto va da un minimo di nove mesi ad un massimo di 13 anni e quattro mesi di reclusione. Dunque il sistema normativo vigente individua gia' con riferimento ad un reato del tutto affine (ma piu' grave) rispetto a quello dell'art. 630 c.p., un'ipotesi attenuata che ben consente al giudice del fatto di modulare la pena in relazione al caso concreto. Tale previsione normativa rappresenta dunque concretamente il fatto che il minimo edittale dell'art. 630, comma 1 c.p., per il quale non sono previste possibili diminuzioni di pena per i casi di minore gravita' (che siano dissimili dalle fattispecie di cui ai commi quarto e quinto dello stesso art. 630 c.p.) e' un vulnus al principio di eguaglianza, per effetto del diverso trattamento riservato a situazioni di fatto tra esse pienamente comparabili. Infatti a fronte della clausola di esclusione prevista, ritiene questo collegio di non potere fare applicazione, nel caso in esame, della predetta attenuante dato che la stessa presuppone che il fatto-reato sia inquadrabile nella fattispecie «base» di cui all'art. 3 cit. Per i profili evidenziati, il Collegio reputa rilevante e non manifestamente infondata la questione.