LA CORTE DI ASSISE DI APPELLO Riunita in Camera di consiglio per deliberare sulla istanza con cui il pubblico ministero, nell'epigrafato procedimento penale in grado di appello pendente a carico di Cicutta Gianpaolo ed Ermacora Elio in ordine ai delitti di concorso in omicidio aggravato e concorso in porto di arma comune da sparo aggravato, all'udienza del giorno 12 maggio 2006 ha chiesto che la Corte di Assise di Appello - ritenuta la rilevanza e la non manifesta infondatezza della questione dedotta - voglia sollevare la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 10 della legge 20 febbraio 2006, n. 46, in riferimento all'art. 593 c.p.p., come modificato dall'art. 1 della medesima legge, per violazione, tra gli altri, del principio della parita' delle parti nel processo e della ragionevole durata del processo sanciti dall'art. 111 Cost., nonche' del principio della obbligatorieta' dell'esercizio dell'azione penale sancito dall'art. 112 Cost., con conseguente sospensione del giudizio in corso e trasmissione degli atti alla Corte costituzionale; Sentiti il difensore della Parte Civile e quelli degli imputati; Ha pronunciato la seguente ordinanza; Ritiene la Corte che la dedotta questione di legittimita' costituzionale e' rilevante e non manifestamente infondata, nei termini appresso indicati. Sotto il profilo della rilevanza - con riferimento appunto agli appelli proposti dal Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Udine e dal Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di appello di Trieste nei confronti dell'imputato Ermacora Elio - deve in primo luogo osservarsi che il nuovo regime delle impugnazioni delineato dalla legge 20 febbraio 2006, n. 46, da applicarsi ex art. 10 della stessa anche ai gravami proposti prima della sua entrata in vigore, consente in via generale alla pubblica accusa di impugnare le sentenze di proscioglimento di primo grado solo con ricorso per cassazione e non piu' con atto d'appello, salva la particolare ipotesi prevista dall'art. 593, comma secondo, c.p.p. (come novellato dall'art. 1 della medesima) e salva la conversione - tuttora prevista dal novellato art. 580 c.p.p. - del ricorso per cassazione in appello qualora contro la stessa sentenza siano stati proposti mezzi di impugnazione diversi e ricorra uno dei casi di connessione contemplati dall'art. 12 c.p.p. Proprio in quest'ultima ipotesi si versa dunque nel caso di specie, perche' avverso la sentenza di primo grado sono stati proposti i tuttora ammissibili atti d'appello del pubblico ministero e del difensore del Cicutta avverso la statuizione di condanna di quest'ultimo per il delitto di omicidio contestato al capo a) di rubrica, nonche' ulteriori atti d'appello del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Udine e del Procuratore generale della Repubblica presso la Corte di appello di Trieste avverso la pronuncia assolutoria dal medesimo reato del coimputato Ermacora Elio: appelli che questa Corte, in forza della citata novella legislativa, dovrebbe valutare alla stregua di ricorsi per cassazione convertiti in appello, in applicazione del combinato disposto degli artt. 580 e 12 lett. a) c.p.p. Cio' peraltro - tenuto conto del costante orientamento interpretativo della Suprema corte secondo cui il ricorso per cassazione del pubblico ministero convertito in appello ex art. 580 c.p.p. mantiene la sua natura di impugnazione di legittimita' ed obbliga la Corte di appello a sindacarne l'ammissibilita' secondo i parametri previsti dall'art. 606 c.p.p. (cfr. Sez. 4ª, 29 settembre 2005, n. 38879, RV 232429; Sez. 6ª, 25 settembre 2002, n. 42810, RV 223788) - non potrebbe che comportare, per effetto della nuova normativa entrata in vigore, la declaratoria di inammissibilita' degli appelli proposti avverso la pronuncia assolutoria dell'Ermacora, in quanto essi - a tutta evidenza - sono fondati in via esclusiva su questioni di merito (opportunita' di rinnovare la perizia balistica alla luce degli elementi segnalati dalla parte civile in sede di discussione finale e diversa valutazione del compendio probatorio acquisito a carico dell'imputato assolto) chiaramente esulanti dai motivi del ricorso per cassazione previsti dall'art. 606 c.p.p. (nel testo novellato dall'art. 8 della legge n. 46/2006), ivi compreso quello di cui alla lett. d) della citata norma: tale previsione, infatti, contempla l'ipotesi - ben diversa da quella prospettata nei due atti di appello della pubblica accusa - di «... mancata assunzione di una prova decisiva, quando la parte ne ha fatto richiesta anche nel corso dell'istruzione dibattimentale limitatamente ai casi previsti dall'art. 495, comma 2». In secondo luogo va precisato che - quand'anche si volesse ritenere che l'art. 10 della legge n. 46/2006 debba essere interpretato alla luce del novellato art. 593 c.p.p., nella parte in cui questo consente la proposizione di appello avverso sentenza di proscioglimento ai sensi dell'art. 603, comma secondo, c.p.p. se la nuova prova e' decisiva - i gravami presentati dal Procuratore della Repubblica di Udine e dal Procuratore generale avverso la pronuncia assolutoria dell'Ermacora non sarebbero comunque ammissibili, non essendo stata prospettata - nella sostanza - la assunzione di una nuova prova sopravvenuta o scoperta dopo il giudizio di primo grado, bensi' semplicemente la rinnovazione di un mezzo di prova gia' espletato nella precedente fase processuale. Di conseguenza, anche sotto questo profilo la questione di legittimita' costituzionale presenta tutta la sua rilevanza ai fini del presente processo. Sotto il diverso profilo della non manifesta infondatezza, la Corte ritiene che la menzionata normativa si ponga in contrasto con i parametri costituzionali dettati dagli artt. 3 e 111 Cost. A tale riguardo, infatti, conviene ricordare che nella giurisprudenza della Corte costituzionale e' stato piu' volte bensi' ribadito il concetto secondo cui «... il principio della parita' tra accusa e difesa non comporta necessariamente l'identita' tra i poteri processuali del pubblico ministero e quelli dell'imputato e del suo difensore», ed altresi' sottolineato come «una diversita' di trattamento rispetto a tali poteri possa risultare giustificata sia dalla peculiare posizione istituzionale del pubblico ministero, sia dalla funzione allo stesso affidata, sia da esigenze connesse alla corretta amministrazione della giustizia: ma, in ogni caso, il diverso trattamento riservato al pubblico ministero, per essere conforme a Costituzione, dovra' trovare una ragionevole motivazione proprio in quella peculiare posizione o in quella funzione o in quelle esigenze appena richiamate» (Corte cost. sent. n. 363 del 1991). In base a tale orientamento, la Corte ha, in particolare, costantemente ritenuto che l'art. 443, comma terzo, c.p.p., nella parte in cui non prevede la possibilita' per il pubblico ministero di proporre appello avverso le sentenze di condanna emesse a seguito di giudizio abbreviato, salvo che si tratti di sentenza che modifica il titolo del reato, non contrasta con l'art. 111, comma secondo, Cost., come inserito dalla legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2, che ha conferito veste autonoma ad un principio - quale appunto quello di parita' delle parti - pacificamente gia' insito nel pregresso sistema dei valori costituzionali, tale preclusione trovando la sua giustificazione «... nell'obiettivo primario di una rapida e completa definizione dei processi svoltisi in primo grado secondo il rito alternativo di cui si tratta: rito che - sia pure, oggi, per scelta esclusiva dell'imputato - implica una decisione fondata, in primis, sul materiale raccolto dalla parte che subisce la limitazione censurata, fuori delle garanzie del contraddittorio» (ord. n. 21 del 2001; nello stesso senso, ord. n. 363 del 1991, n. 373 del 1991, n. 305 del 1992 e n. 165 del 2003). Orbene, l'esame della relazione di accompagnamento alla proposta di legge d'iniziativa del deputato Pecorella (Camera dei deputati n. 4604) rende evidente che la limitazione dei poteri processuali del pubblico ministero, ben lungi dal venire giustificata in ragione della sua peculiare posizione istituzionale, o della funzione ad esso affidata ovvero delle esigenze connesse alla corretta amministrazione della giustizia, e' stata ricondotta esclusivamente alla necessita' di adeguamento dell'ordinamento interno al principio sancito dal Protocollo addizionale n. 7 alla Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, adottato a Strasburgo il 22 novembre 1984, reso esecutivo dalla 1° aprile 1990, n. 98, che «all'art. 2 statuisce il diritto al doppio grado di giurisdizione in materia penale per chiunque venga dichiarato colpevole di una infrazione penale da un tribunale», e cio' sul rilievo che tale principio «allo stato e' reso vano dal vigente codice di procedura penale nella parte in cui, prevedendo che possa essere impugnata la sentenza di primo grado di proscioglimento dell'imputato da parte del pubblico ministero, in caso di sentenza di condanna in sede di gravame non concede la possibilita' di ottenere un secondo grado di giudizio nel merito in favore del condannato, che ne avrebbe diritto in forza del principio esposto». Le ragioni addotte a fondamento della disciplina normativa in esame appaiono alla Corte non solo estranee a quelle che legittimano una limitazione dei poteri processuali del pubblico ministero, ma anche del tutto prive di fondamento. Ed invero, la Corte costituzionale, nel mentre ha ripetutamente affermato che «... il doppio grado di giurisdizione di merito non forma oggetto di garanzia costituzionale» (sentenze n. 117 del 1973; n. 62 del 1981; n. 301 del 1986; n. 543 del 1989, n. 438 del 1994; ordinanza n. 421 del 2001), ha ritenuto che « ... il tenore dell'art. 2, comma 1, del Protocollo addizionale n. 7, anche attraverso il confronto con quanto gia' disposto in tema di impugnazioni dall'art. 14, comma 1, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici del 19 dicembre 1966, ratificato dall'Italia con legge 25 ottobre 1977, n. 881, non legittima una interpretazione per cui il riesame ad opera di un tribunale superiore debba coincidere con un giudizio di merito. La formulazione dell'art. 2, nel demandare al legislatore interno ampi spazi per la disciplina dell'esercizio del diritto all'impugnazione, non esclude infatti che il principio si sostanzi nella previsione del ricorso in Cassazione, gia' previsto dalla Costituzione italiana». Ne' del resto, sempre in base a quanto osservato dalla Corte, varrebbe sostenere la tesi secondo cui, essendo la ricorribilita' in Cassazione gia' prevista dalla Costituzione, l'art. 2, comma primo, di tale Convenzione avrebbe introdotto il diritto ad un secondo giudizio di merito, poiche' in tal modo si incorrerebbe in un palese vizio logico, «... in quanto la norma convenzionale verrebbe interpretata alla luce del diritto interno, come se la disposizione pattizia avesse il ruolo di riempire i vuoti dell'ordinamento nazionale. Vuoto che, tra l'altro, non si porrebbe in contraddizione con l'ordinamento costituzionale italiano, alla luce della consolidata giurisprudenza di questa Corte in tema di non rilevanza costituzionale della garanzia del doppio grado di giurisdizione» (sentenza n. 288 del 1997). Cio' posto, appare evidente che la nuova disciplina crea un'irragionevole disparita' di trattamento, rilevante ai sensi degli artt. 3 e 111 Cost., a sfavore del pubblico ministero, disparita' che non appare legittimata da alcuna razionale esigenza e, tantomeno, dalla circostanza che l'appello venga precluso anche all'imputato, ben diverso essendo l'interesse sostanziale del pubblico ministero ad impugnare una sentenza di proscioglimento. La questione di legittimita' costituzionale del citato art. 10 della legge n. 46 del 2006 in riferimento al novellato art. 593 codice di procedura penale appare inoltre non manifestamente infondata anche sotto il diverso profilo della violazione del parametro della ragionevole durata del processo sancito dall'art. 111, comma 2, seconda ipotesi, Cost. Va invero rilevato che, nell'ipotesi di ingiusta sentenza di proscioglimento e di conseguente impugnazione accolta, il percorso processuale ordinario imposto dalla nuova normativa si snoda attraverso non meno di cinque gradi di giudizio (assoluzione in primo grado, annullamento della Cassazione, condanna in primo grado, conferma in appello, rigetto del ricorso in Cassazione), laddove nel precedente sistema esso si completava in soli tre gradi (assoluzione in primo grado, riforma in appello, rigetto del ricorso in Cassazione) L'allungamento dei tempi processuali che ne deriva - e dunque la compressione del principio, a rilevanza costituzionale, di efficienza del processo - risulta ancora piu' sensibile e privo di giustificazione se si' considera che con la recente legge n. 251/2005 sono stati ridotti i termini di prescrizione per numerosi reati, in ordine ai quali dunque l'iter processuale innescato da un'ingiusta sentenza di proscioglimento pare destinato a concludersi con una sentenza dichiarativa della prescrizione, piuttosto che con una sentenza definitiva che accerti nel merito la penale responsabilita'.