LA CORTE D'ASSISE DI APPELLO

    Ha  pronunciato  la  seguente ordinanza nel procedimento penale a
carico  di Sgroi Massimiliano, nato a Palermo il 24 maggio 1977, e di
Palisi  Sabina,  nata a Tottweil Germania) il 27 marzo 1980, entrambi
domiciliati  in  Ginisi  (Palermo),  via  Pirandello  n. 25, entrambi
contumaci;
    Rilevato  che  in  primo  grado gli imputati sono stati giudicati
dalla Corte di assise di Alessandria che, al termine del giudizio, ha
emesso sentenza in data 17 gennaio 2005;
    Rilevato  che  con  tale  sentenza  lo Sgroi e' stato assolto dai
reati  ascrittigli  alle  lettere a) e b) del capo di imputazione per
non  avere commesso il fatto, mentre e' stato condannato in ordine al
reato  ascrittogli  alla lettera c) alla pena di anni otto e mesi due
di  reclusione  ed  euro  30.000 di multa, e che la coimputata Palisi
Sabina,  ritenuta  per  quest'ultima la continuazione con il reato di
cui  alla  sentenza emessa dal g.u.p. del Tribunale di Alessandria in
data  22  ottobre  2003,  e'  stata  condannata, per tutti i reati in
continuazione,  alla  pena  complessiva di anni cinque e mesi otto di
reclusione ed euro 20.000 di multa;
    Rilevato  che  avverso  la  sentenza  emessa in primo grado hanno
presentato  tempestivo  sia  il  difensore degli imputati che il p.m.
presso  il Tribunale di Tortona formulando degli articolati motivi di
gravame;
    Rilevato in particolare che il p.m. nel citato atto di appello ha
richiesto  che, in riforma della sentenza appellata, fosse dichiarata
la  responsabilita'  di Sgroi Massimiliano in ordine ai reati per cui
la  Corte  di  assise  ha  pronunciato nei suoi confronti sentenza di
assoluzione  e che egli fosse quindi condannato alla pena che sarebbe
stata richiesta dal p.m. di udienza;
    Rilevato che e' stata pertanto fissata udienza pubblica innanzi a
questa  sezione  della  Corte  di  assise di appello di Torino per la
trattazione dell'appello come sopra proposto;
    Sentite le parti nel corso dell'udienza odierna;
    Rilevato  che  il  p.g.  ha formalmente richiesto che la Corte di
appello  pronunciasse  ordinanza  con cui dichiarasse rilevante e non
manifestamente  infondata la questione di legittimita' costituzionale
degli artt. 593 c.p.p. (cosi' come modificato dall'art. 1 della legge
20  febbraio  2006,  n. 46) e 10 della stessa legge per contrasto con
gli  artt. 3 e 111 della Costituzione, mentre la difesa dell'imputato
ha   chiesto   invece   che   l'appello  del  p.m.  fosse  dichiarato
inammissibile  in  forza dell'art. 593 c.p.p., cosi' come modificato,
osserva quanto segue.
    Viene  invocata dal difensore degli imputati l'applicazione della
recente  legge  n. 46  del  20  febbraio 2006, entrata in vigore il 9
marzo  2006,  che  ha  modificato  l'art.  593  c.p.p.  nel  senso di
precludere  in  ogni  caso  al  p.m.  e  all'imputato  la facolta' di
proporre  appello  avverso  le  sentenze  di  proscioglimento,  salva
l'ipotesi  che  lo  stesso  p.m. nell'atto di appello abbia richiesto
l'assunzione  di  una  nuova  prova  sopravvenuta  o scoperta dopo il
giudizio  di  primo  grado  che  il  giudice reputi decisiva (ipotesi
questa che non ricorre nel caso di specie).
    La  voluntas  legis  e'  indubbiamente  nel  senso  indicato  dal
difensore  e  non  sembra  che  vi  sia materia a questo riguardo per
coltivare nessun dubbio esegetico.
    Infatti la norma transitoria prevista nell'art. 10, secondo comma
della  legge  citata  prescrive  al  giudice  avanti  il  quale pende
l'appello   in  seguito  all'impugnazione  proposta  dal  p.m.  prima
dell'entrata  in  vigore  della  legge  sopra  richiamata di emettere
ordinanza  non impugnabile con la quale dichiarare l'inammissibilita'
dell'appello stesso.
    Conseguentemente  non  v'e'  certo  spazio  per ritenere priva di
rilevanza   nel   presente  giudizio  la  questione  di  legittimita'
costituzionale  prospettata  dal  p.g. presso questa Corte di appello
sul  presupposto  che  le  norme  impugnate siano in contrasto con le
disposizioni degli artt. 3 e 111 della Carta costituzionale.
    Cio'  posto,  si  tratta,  pertanto, di stabilire se la questione
prospettata e' manifestamente infondata.
    A  parere  di  questo  giudice  non  pare  che  essa possa essere
dichiarata  manifestamente  infondata.  Lo dimostrano le osservazioni
qui di seguito sintetizzate.
    1.  -  La  Carta  costituzionale,  come  e'  notorio, specifica i
principi generali ai quali si deve adeguare la normativa processuale.
Prescrive dunque, con il menzionato art. 111, secondo comma, che ogni
processo  si svolge nel contraddittorio delle parti, in condizioni di
parita',  davanti a giudice terzo ed imparziale. Soggiunge, in oltre,
che la legge ne assicura la ragionevole durata.
    2.    -    Costituisce    quindi    un    necessario   corollario
dell'enunciazione  generale  sopra riportata, in quanto la condizione
di  parita'  costituisce  uno  dei  principi  che  ispirano il giusto
processo,  che  tale  condizione  deve  essere assicurata con rigore,
poiche'  si  deve ritenere che la tutela dell'accennata condizione di
parita'  realizzi il perseguimento di un valore a cui e' riconosciuto
rango costituzionale.
    Occorre  dunque  risolvere  obbligatoriamente, a questo punto, il
quesito  che  impone di chiarire se, in quanto all'imputato spetta il
diritto   di  appellare  le  sentenza  di  condanna,  la  correlativa
possibilita'  per  l'organo  del  p.m. di proporre appello avverso le
sentenze   di   assoluzione  rappresenta  un  modo  non  rinunciabile
attraverso   il   quale   la  predetta  condizione  di  parita'  deve
immancabilmente trovare concreta attuazione.
    Questa  Corte  di assise di appello reputa di dare al quesito una
risposta affermativa.
    E' vero che si e' autorevolmente osservato che l'attuazione della
condizione  di  parita' deve avvenire nel processo, mediante il mezzo
costituito   dal   contraddittorio  delle  parti,  e  non  attraverso
l'attribuzione  al  p.m.  di una facolta' di impugnazione altrettanto
estesa  quanto  quella che spetta all'imputato avverso le sentenza di
condanna. Tuttavia l'argomento addotto non e' decisivo.
    Appare infatti conforme alla portata che deve essere riconosciuta
alla  ricordata  condizione  di  parita'  ed  alla  finalita'  di non
vulnerare,  appunto, la tutela dell'interesse costituzionale al quale
essa   e'   preordinata,   osservare  che  non  si  puo'  aderire  ad
un'accezione  cosi'  angusta del dettato dell'art. 111, secondo comma
della  Costituzione  senza  che,  in  realta',  venga pregiudicato un
aspetto   essenziale   della   stessa   parita'  che  il  legislatore
costituzionale  vuole  che  sia  invece  garantita  senza  riserve  o
eccezioni.
    3. - Aderendo all'opinione contraria, sarebbe gravemente alterata
la  regolarita'  del  processo  penale.  In  esso, infatti, si devono
confrontare   le  opposte  ragioni  di  parti  che,  in  quanto  sono
depositarie  di  interessi  contrastanti  che  la Costituzione tutela
attribuendo  loro  una  pari  rilevanza,  non possono essere poste in
posizioni  di  cosi'  accentuata  ineguaglianza  di trattamento quale
quella  che  deriva dalla previsione di inammissibilita' dell'appello
del p.m. contro le sentenze di assoluzione.
    Occorre  invero  rilevare  che  nel  processo il p.m. esercita la
pretesa  dello  Stato  alla punizione del colpevole che, a sua volta,
deve  essere  messa  in  relazione  con  il  principio costituzionale
dell'obbligatorieta'  dell'azione  penale sancito dall'art. 112 della
Costituzione.
    Orbene,  mentre  l'imputato con la modifica della normativa della
cui legittimita' costituzionale ora si controverte rimane titolare ad
ogni  effetto  del  potere  di  impugnare  la  sentenza di condanna a
garanzia  della  pretesa  di essere ritenuto innocente, il p.m. viene
privato  da  questa  normativa  di  un  mezzo  che  riveste  primaria
importanza  al  fine  di ottenere che venga affermata nel processo la
pretesa  dello  Stato  alla  punizione  del  colpevole, sebbene anche
questa  pretesa goda di una tutela costituzionale che e' di grado non
minore   di  quella  che  viene  riconosciuta  all'opposto  interesse
dell'imputato.
    La  disparita'  di  trattamento  che  deriva  dalle  disposizioni
menzionate si pone percio' in contrasto con l'art. 111, secondo comma
della  Costituzione  nella  parte  in  cui prevede che il processo si
svolga in condizione di parita' tra le parti, cioe' in una condizione
di diritto che assicuri a ciascuna parte processuale eguali mezzi per
raggiungere le finalita' che ad ognuna di esse spetta di perseguire.
    4.  -  Non  rileva che la normativa della quale si discute riduca
anche  i  casi  in  cui le sentenze di proscioglimento possono essere
appellate  dall'imputato  poiche' esclude dall'appello le sentenze di
proscioglimento pronunciate perche' il fatto non costituisce reato, o
perche'  non  e'  punibile  o  perche' non e' procedibile. E' infatti
innegabile che la riduzione della facolta' dell'imputato di appellare
in  tal modo operata non bilancia l'esclusione in toto del potere del
p.m. di appellare qualunque sentenza di proscioglimento.
    Non  rileva nemmeno che altre disposizioni in materia processuale
abbiano  in  passato  limitato  la  facolta'  del  p.m.  di  proporre
impugnazione  e  che,  in particolare, l'art. 443, terzo comma c.p.p.
abbia  escluso  la  facolta'  del  p.m.  di  appellare la sentenza di
condanna  pronunciata  a seguito di giudizio abbreviato, salvo che si
tratti di sentenza che modifica il titolo del reato.
    Infatti  la  Corte  costituzionale  ha  ritenuto  con l'ordinanza
n. 421/2001 che detta ultima limitazione non fosse in contrasto con i
principi  stabiliti  nell'art. 111 della Costituzione con motivazione
che non puo' essere estesa al caso in esame.
    E'   noto   che,   con   tale  pronuncia,  ha  precisato  che  la
Costituzione, mentre prevede la parita' delle parti nel processo, non
attribuisce  necessariamente  a queste identiche facolta' all'interno
del  processo.  Tuttavia  e'  necessario  soggiungere che l'ordinanza
citata   ha   confermato,   nell'occasione,  che  una  disparita'  di
trattamento  puo'  essere  ragionevolmente  giustificata quando siano
contemporaneamente  preservate  la  speciale  posizione  del  p.m.  e
dell'imputato  e  le  esigenze  che  sono  connesse  con  la corretta
amministrazione  della  giustizia. Inoltre ha chiarito che l'esigenza
di assicurare la ragionevole durata del processo trova attuazione nel
giudizio  abbreviato,  poiche' questo giudizio consente di utilizzare
senza  procedere  al  filtro  del  dibattimento il materiale di prova
acquisito  dal  p.m.  nelle indagini preliminari. Conseguentemente la
rinuncia  da  parte  dell'imputato al contraddittorio nell'assunzione
delle prove giustifica, alla stregua di quanto ha ritenuto il Giudice
delle  leggi,  la disposizione dell'art. 443 terzo comma c.p.p. nella
parte  in  cui,  in  ossequio  all'esigenza  di bilanciare divergenti
interessi,  esclude  che  il  p.m.  possa  appellare  la  sentenza di
condanna emessa a seguito di giudizio abbreviato, salvo che si tratti
di sentenza che modifica il titolo del reato.
    Nel  caso  in  esame, per contro, l'esclusione della facolta' del
p.m.  di presentare appello contro le sentenze di proscioglimento non
trova   nessun   corrispettivo   in   un  atto  correlativo  compiuto
dall'imputato  che  abbia  l'effetto  di contribuire alla ragionevole
durata del processo.
    L'esclusione  della  facolta'  di  appellare  in  questo caso non
trova,  pertanto,  giustificazione  ed  appare  quindi manifestamente
irragionevole,   cosi'   violando   il   disposto  dell'art. 3  della
Costituzione.
    5.  -  Un  distinto profilo sotto il quale la normativa esaminata
appare  causa  di  una  possibile  illegittimita' costituzionale deve
essere ricercato nella disparita' di trattamento che viene introdotta
tra il p.m. e la parte civile. Pare infatti che a quest'ultima parte,
attraverso   la   soppressione   nell'art. 576,  primo  comma  c.p.p.
dell'inciso  con  il  mezzo  previsto  per il pubblico ministero, sia
stato  mantenuto  il  potere di appellare, come si evince dal rilievo
che  non  e' stata modificata la disposizione dell'art. 75 c.p.p. che
prevede  il  trasferimento  dell'azione  civile dal processo civile a
quello penale.
    Si  perviene  in  tal modo all'assurda conseguenza che alla parte
civile,  malgrado  persegua degli interessi eminentemente privati, e'
garantito  un  potere  di appello che viene invece sottratto al p.m.,
sebbene  la  parte pubblica sia titolare della pretesa punitiva dello
Stato,  cioe'  di una pretesa che certamente non e' di minore rilievo
ai fini del corretto perseguimento dei principi del giusto processo.
    6.  -  All'opposto di quanto si potrebbe pensare sulla base di un
esame  superficiale,  anche il principio della ragionevole durata del
processo  viene leso dalla norma di cui si eccepisce l'illegittimita'
costituzionale.
    Infatti,  e'  vero  che  essa  si traduce nell'eliminazione di un
grado  di  giudizio  nei  casi in cui, secondo la disposizione che e'
stata  modificata,  il  p.m.  poteva  presentare  appello  avverso le
sentenza  di  proscioglimento.  Ma  e'  importante  rilevare che, per
contro,  e  stata prevista una disciplina eccessivamente complessa in
forza  della  quale  la Corte di cassazione e' chiamata a valutare, a
norma    dell'art. 606,    lett.   e)   c.p.p.,   la   mancanza,   la
contraddittorieta'  o  la  manifesta  illogicita'  della motivazione,
quando  il vizio risulta dal testo del provvedimento impugnato ovvero
da  altri  atti  del  processo  specificamente indicati nei motivi di
gravame.
    Non   e'  dunque  fuori  luogo  osservare  che  l'estensione  del
sindacato  della  Corte di cassazione alla conformita' al fatto della
motivazione della sentenza di prosciogbmento, mentre altera la natura
del  giudizio di legittimita' che viene cosi' dilatato incongruamente
fino  a  valutare  il  fatto con stravolgimento della stessa funzione
della   Corte   di   legittimita',   per   altro   verso  costituisce
un'innovazione  che  puo'  comportare  un tale aggravio dei tempi del
processo  da  concretare  una lesione del principio della ragionevole
durata.
    E',  in altre parole, ragionevole pensare che dall'estensione del
sindacato  della  Corte di legittimita' discendera' nell'applicazione
concreta,  quale  prevedibile  conseguenza, una dilatazione dei tempi
del processo, cosi' causando una distinta lesione ad uno dei principi
del  giusto  processo  che sono tutelati dall'art. 111, secondo comma
della Costituzione.
    La questione di legittimita' costituzionale qui esaminata non e',
pertanto, manifestamente infondata e deve dunque essere sottoposta al
vaglio della Corte costituzionale.