LA CORTE DI APPELLO

    Ha pronunciato la seguente ordinanza.
    Decidendo  sull'eccezione, formulata dal p.g. all'udienza odierna
concernente la legittimita' costituzionale dell'art. 593 c.p.p., come
modificato  dall'art. l,  legge  n. 46/2006,  e  dell'art.  10  della
medesima   legge,   in  relazione  agli  artt. 3,  111  e  112  della
Costituzione,  per violazione dei principi di eguaglianza. di parita'
delle parti nel processo e di obbligatorieta' della azione penale;
    Sentiti  i  difensori  degli,  imputati  che si sono rimessi alle
determinazioni della Corte;

                            O s s e r v a

    Con  la sentenza emanata nel primo grado di giudizio gli imputati
Patti   Giovanni,   Alagna  Michele  e  Rubbino  Nicolo'  sono  stati
condannati  perche'  ritenuti  responsabili  di alcuni dei reati loro
ascritti;  i  medesimi Patti Giovanni ed Alagna Michele, unitamente a
Patti   Carmelo   ed   Urbano  Gaspare,  sono  stati  invece  assolti
dall'imputazione   di  cui  all'art. 416  c.p.;  Sacco  Santo,  Sacco
Rosanna,  Lo  Sciuto Giovanni, e Riccobono Rosalba sono stati assolti
dal  reato di cui agli artt. 110, 416 c.p.: i nominati Patti Carmelo,
Patti  Giovanni,  Alagna  Michele,  Urbano Gaspare, Urbano Giuseppe e
Rubbino   Nicolo'   sono  stati  infine  assolti  dal  reato  di  cui
all'art. 4,  lett.  d  della legge n.  516/1982 (cosi' qualificato il
reato di cui all'art. 640, comma 2 c.p.).
    Da  parte  dell'Alagna  e  del  Patti  Michele  e' stato proposto
appello avverso le rispettive pronunce di condanna, mentre il p.m. ha
appellato  le  statuizioni  assolutorie  concernenti tutti i nominati
imputati.
    In  data  9  marzo 2006 e' entrata in vigore la legge 20 febbraio
2006, n. 46 il cui art. 1 ha modificato l'art. 5 c.p.p., limitando la
possibilita'  per il pubblico ministero di proporre appello contro le
sentenze  di  proscioglimento  alla sola ipotesi di cui all'art. 603,
comma 2, c.p.p., «se la nuova prova e' decisiva».
    In  tale  residuale  ipotesi  il  giudice,  ove  non  disponga la
rinnovazione  dell'istruttoria dibattimentale, dichiara con ordinanza
l'inammissibilita'  dell'appello  e  le  parti, entro 45 giorni dalla
notifica  del  provvedimento, possono proporre ricorso per cassazione
anche contro la sentenza di primo grado.
    L'art.  10,  nel  dettare  la  disciplina transitoria, dispone al
comma   2   che   «l'appello   proposto   contro   una   sentenza  di
proscioglimento  dall'imputato  o  dal pubblico ministero prima della
data  di  entrata  in  vigore  della  presente legge viene dichiarato
inammissibile con ordinanza non impugnabile» ed al comma 3 che «entro
45  giorni dalla notfica del provvedimento di inaminissibilita di cui
al  comma  2  puo'  essere  proposto ricorso per cassazione contro le
sentenze di primo grado».
    Ne  consegue  che  in  applicazione della legge n. 46 del 2006 la
Corte,   nel   presente  giudizio,  dovrebbe  emettere  ordinanza  di
inammissibilita'  dell'appello proposto dal p.m., avverso la sentenza
di assoluzione.
    Deve  quindi  evidenziarsi la palese rilevanza della questione di
legittimita' costituzionale proposta in quanto la normativa indicata,
come   gia'   esposto,  e'  applicabile  in  forza  della  disciplina
transitoria anche al presente giudizio di appello.
    Il  p.g.  ha eccepito l'illegittimita' costituzionale della nuova
normativa per violazione dei principi di uguaglianza e ragionevolezza
(art.   3   della  Costituzione)  sotto  il  profilo  della  ritenuta
introduzione   di  una  disparita'  di  trattamento  derivante  dalla
asserita  persistente facolta' in capo alla parte civile di appellare
le sentenze di proscioglimento.
    Tale questione deve ritenersi manifestamente infondata, ritenendo
la Corte che la dedotta disparita' di trattamento non sussista.
    L'art. 576  c.p.p. previgente consentiva invero alla parte civile
di  proporre  impugnazione,  ai  soli  effetti  della responsabilita'
civile,   contro  la  sentenza  di  proscioglimento  pronunciata  nel
giudizio,  «con  il mezzo previsto per il pubblico ministero», in tal
modo  espressamente  riconoscendosi  alla  stessa  parte  il  rimedio
dell'appello,  e  cio'  nel rispetto del principio della tassativita'
delle  impugnazioni sancito dall'art. 568, comma 1 c.p.p., in base al
quale  i  provvedimenti del giudice sono soggetti ad impugnazione nei
soli  casi  previsti  dalla  legge  e  soltanto  con  quel  mezzo  di
impugnazione che la legge stessa preveda.
    Tuttavia,  a  seguito  della modifica apportata dall'art. 6 della
legge  20  febbraio  2006 n. 46, l'art. 576 e stato modificato con la
soppressione  delle  parole  «con  il  mezzo previsto per il pubblico
ministero»,  in  tal  modo  eliminandosi  quell'espresso  rinvio, che
consentiva alla parte civile di godere del medesimo potere di appello
spettante al pubblico ministero.
    Ne consegue che, in presenza di un generico riferimento al potere
di impugnazione della parte civile ed in mancanza di una disposizione
di  legge,  che  riconosca  espressamente  alla  stessa il diritto di
appellare  le sentenze di proscioglimento, l'unico rimedio esperibile
dalla parte civile sara' quello del ricorso per cassazione, in virtu'
della   norma  contenuta  nell'art.  568,  secondo  comma  c.p.p.  e.
comunque, nell'art. 111 della Costituzione.
    Rileva   invece   la  Corte  che  la  questione  di  legittimita'
costituzionale  dell'art. 593  in riferimento al principio di parita'
delle  parti  (artt. 3  e 111, comma 2, prima parte Cost.) non appare
manifestamente  infondata nei limiti in cui il giudice ordinario deve
effettuare  il  suo preliminare esame, senza interferire con i poteri
propri  della Corte di legittimita' cui e' demandato in via esclusiva
il  compiuto  giudizio  in  ordine alla compatibilita' costituzionale
della normativa.
    E'  noto che la questione della limitazione del potere di appello
del  p.m.  e'  gia'  stata affrontata dalla Corte costituzionale, con
specifico riferimento al giudizio abbreviato.
    L'art. 443,  comma  3  c.p.p.  prevede  infatti  che  il pubblico
ministero  non  possa proporre appello contro le sentenze di condanna
pronunciate  nel  giudizio abbreviato salvo che si tratti di sentenza
che modifica il titolo del reato.
    Con  l'ordinanza  n. 165  del  2003  la  Corte  ha  dichiarato la
manifesta infondatezza della questione di legittimita' costituzionale
dell'art.  443,  comma  3, sollevata, in riferimento agli artt. 2. 3,
24, 111, secondo comma, e 112 della Costituzione.
    La  Corte  costituzionale  ha  evidenziato,  in  riferimento,  al
dedotto contrasto della disposizione impugnata con gli artt. 3 e 111,
secondo  comma,  Cost.,  che il principio di parita' delle parti «non
comporta  necessariamente  l'identita'  tra  i poteri processuali del
pubblico  ministero  e quelli dell'imputato», affermando tuttavia che
una disparita' di trattamento puo' risultare giustificata «nei limiti
della  ragionevolezza sia dalla peculiare posizione istituzionale del
pubblico  ministero,  sia dalla funzione allo stesso affidata, sia da
esigenze connesse alla corretta amministrazione della giustizia».
    Con  la  conseguenza  che,  nel  caso del giudizio abbreviato, il
limite   all'appello   della   parte   pubblica  continua  a  trovare
ragionevole  giustificazione  nell'obiettivo  primario della rapida e
completa definizione dei processi svoltisi in primo grado con un rito
che   implica   una  decisione  fondata,  in  primis,  sul  materiale
probatorio   raccolto   dalla   parte   che  subisce  la  limitazione
denunciata,  fuori  delle  garanzie  del  contraddittorio (cfr. anche
ordinanza  n. 347  del  2002;  e,  con  riferimento al solo art. 111,
secondo comma, Cost., ordinanza n. 421 del 2001).
    E'  dunque la rinuncia da parte dell'imputato ad uno dei principi
del giusto processo (il contraddittorio nella raccolta delle prove) a
giustificare  la  disparita'  di  trattamento che l'art. 443, comma 3
c.p.p.  produce  privando  il  p.m.  della  facolta'  di appellare la
sentenza di condanna a seguito di giudizio abbreviato.
    Non  sembra  dunque  che  la  Corte abbia finora mai affermato il
principio  della  conformita'  costituzionale  di  una  disparita' di
poteri  fondata  solo  sulla  diversa  qualita' della parte (pubblico
ministero  o  imputato),  avendo invece sempre affermato il principio
opposto  secondo  cui  occorre  dare  conto delle ragioni che rendono
razionale  la  differenziazione nei casi di volta in volta sottoposti
al suo vaglio.
    E'  stato  pertanto  affermato il principio che una disparita' di
trattamento  riguardo  ai  poteri  processuali del pubblico ministero
puo'  essere  giustificata  nei  limiti  della  ragionevolezza  dalla
peculiare  posizione  istituzionale  del  pubblico  ministero,  dalla
funzione  allo  stesso  affidata,  ovvero infine da esigenze connesse
alla corretta amministrazione della giustizia.
    La  Corte  di legittimita' sin dal 1991 (cfr. n. 363 del 1991) ha
ritenuto  costituzionalmente  compatibile  una  differenziazione  dei
poteri   processuali   del   pubblico  ministero  rispetto  a  quelli
dell'imputato  e  del  suo  difensore, sottolineando tuttavia che «in
ogni caso il diverso trattamento riservato al pubblico ministero, per
essere  conforme  a  Costituzione,  dovra'  trovare  una  ragionevole
motivazione»  propria  nella  peculiare  posizione  istituzionale del
pubblico  ministero,  nella  funzione  allo  stesso  affidata,  nelle
esigenze connesse alla corretta amministrazione della giustizia.
    Anche  con  l'ordinanza  n. 110 del 2003 e' stato ribadito che il
principio di parita' tra accusa e difesa di cui all'art. 111, comma 2
della  Cosituzione,  riconosciuto  peraltro  come «pacificamente gia'
presente  fra  i  valori  costituzionali  anche prima delle modifiche
apportate   dalla  legge  costituzionale  n. 2  del  1999»,  pur  non
comportando  necessariamente l'identita' tra i poteri processuali del
pubblico  ministero e quelli delle altre parti, e' rispettato solo se
una   diversita'   di   trattamento   sia  stabilita  ragionevolmente
nell'ambito  delle  scelte  discrezionali del legislatore, proprio in
ragione   della   peculiare   posizione  istituzionale  del  pubblico
ministero.
    In  tal senso si e' espresso anche il Presidente della Repubblica
nel  messaggio  con  il  quale  il  20  gennaio  2006  ha rinviato al
Parlamento   la   legge   sull'inappellabilita'   delle  sentenze  di
proscioglimento  dopo la sua prima approvazione, laddove si evidenzia
come  la  soppressione dell'appello delle sentenze di proscioglimento
«a  causa  della  disorganicita'  della  riforma fa si' che la stessa
posizione  delle  parti nel processo venga ad assumere una condizione
di  disparita'  che supera quella compatibile con la diversita' delle
funzioni  svolte dalle parti stesse nel processo» e si sottolinea che
«le asimmetrie tra accusa e difesa costituzionalmente compatibili non
devono   mai   travalicare   i   limiti  fissati  dal  secondo  comma
dell'articolo  111  della  Costituzione,  a  norma  del  quale: «Ogni
processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di
parita' davanti a giudice terzo e imparziale».
    Orbene, la soppressione del potere di impugnazione delle sentenze
di  proscioglimento  da  parte del p.m., introdotto dalla legge n. 46
del 2006, salva la residuale, e certamente eccezionale, ipotesi della
scoperta   di   una   prova  nuova  e  decisiva  nel  limitato  tempo
intercorrente  tra  la deliberazione della sentenza e la scadenza del
termine per appellare, non sembra trovare ragionevole giustificazione
nei   limiti   richiesti   dalle   richiamate  pronunce  della  Corte
costituzionale.
    La  riforma  infatti  sottrae  solo ad una parte lo strumento del
nuovo  giudizio di merito per vedere riconosciuta la fondatezza della
sua  pretesa  punitiva,  violando il principio sancito dall'art. 111,
comma  2 della Costituzione, che prevede che il processo si svolga in
condizione  di  parita'  tra le parti, assicurando a ciascun soggetto
processuale  eguali  strumenti  per  raggiungere  gli  obiettivi suoi
propri, dovendo tale principio essere inteso nel senso piu' ampio con
riferimento alla pronuncia conclusiva sulla propria domanda.
    Risulta  invero  oltremodo  riduttivo  ritenere  che il principio
della  parita'  tra  le  parti  di  cui  all'art.  111, comma 2 della
Costituzione  sia  previsto,  come sostenuto nella memoria depositata
dalla  difesa  dell'imputato,  solo  con  riferimento  alla  fase del
dibattimento   ed   all'acquisizione   della  prova,  dovendo  invece
ritenersi  che esso tuteli il diritto all'intervento dialettico delle
parti  in  ogni  fase  del  giudizio  e  dunque anche il diritto alla
critica  in condizioni di parita' della decisione finale del giudizio
che appaia insoddisfacente per l'una o per l'altra parte.
    Lo  squilibrio  fra  le parti introdotto dalla riforma non appare
ragionevolmente  compatibile  compatibile con i criteri che la stessa
Corte costituzionale ha piu' volte ribadito.
    Non  sembra  esservi  infatti  alcuna ragionevole giustificazione
della disparita' nell'attrihuzione del potere di impugnazione. finora
riconnessa,   come   nell'ipotesi   gia'  esaminata  dalla  Corte  di
legittimita'  del  giudizio  abbreviato, a istituti deflattivi in cui
rinunce  dell'imputato  producono  il  risultato  apprezzabile  della
definizione piu' sollecita del processo.
    Giova  peraltro  evidenziare  che l'avere lasciato esclusivamente
all'imputato  lo  strumento di un nuovo giudizio di merito per vedere
riconosciuta  la  propria  innocenza  sembra contrastare con i canoni
della  ragionevolezza  anche  in  considerazione del fatto che, in un
sistema  nel  quale  «il  doppio grado di giurisdizione di merito non
forma  oggetto di garanzia costituzionale» (cfr. ordinanza n. 42l del
2001),  «non  e' la doppia istanza che garantisce la completa difesa,
ma  piuttosto  la possibilita' di prospettare al giudice ogni domanda
ed   ogni  ragione  che  non  siano  legittimamente  precluse»  (cfr.
ordinanza n. 3l6 del 2002).
    Si  osserva  che  la  indispensabilita' di un secondo giudizio di
merito   troverebbe   fondamento   nell'art. 2   del  VII  Protocollo
addizionale  alla Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti
dell'uomo,  firmato  a  Strasburgo  il  22  novembre  1984, rubricato
«Diritto  ad un doppio grado di giurisdizione in materia penale», che
al  suo  primo  comma sancisce il diritto di «ogni persona dichiarata
rea da un tribunale di far esaminare la dichiarazione di colpevolezza
o la condanna da un tribunale della diurisdizione superiore».
    Ma  a tale osservazione si obietta fondatamente che e' proprio la
medesima  fonte  internazionale  a  prevedere  il  riconoscimento del
«diritto  ad  un  doppio grado di giurisdizione» anche a favore della
parte pubblica, se e' vero che il secondo comma del menzionato art. 2
sancisce  che  il  diritto al secondo giudizio di merito «puo' essere
oggetto  di  eccezioni»,  tra  l'altro,  proprio  nell'ipotesi in cui
l'imputato  «e'  stato dichiarato colpevole e condannato a seguito di
un ricorso avverso il suo proscioglimento».
    Se  dunque  il legislatore consente ad una parte di sottoporre la
decisione   ad   un   controllo   critico  da  parte  di  un  giudice
sovraordinato,  tale  diritto  non  puo'  non essere assicurato anche
all'altra   parte,   salvo  che  sussistano  ragionevoli  motivi  che
legittimino la disparita' di trattamento.
    Il contrasto con il canone della irragionevolezza emerge altresi'
dal   rilievo  -  anch'esso  sottolineato  nel  menzionato  messaggio
Presidenziale  del  20 gennaio 2006 («Un'ulteriore incongruenza della
nuova  legge  sta  nel  fatto  che  il  pubblico ministero totalmente
soccombente  non puo' proporre appello, mentre cio' gli e' consentito
quando  la  sua  soccombenza  sia  solo parziale, avendo ottenuto una
condanna  diversa  da  quella richiesta») - che la nuova normativa fa
salvo  il potere del p.m. di appellare la sentenza di condanna ad una
pena  ritenuta  inadeguata,  laddove  e'  incontestabile  il maggiore
interesse  della  parte  pubblica  ad appellare la sentenza che abbia
respinto l'istanza punitiva.
    Ne'  pare  conducente  l'osservazione  secondo  cui  la  modifica
apportata  dall'art. 5,  legge  n. 46  del 2006 all'art. 533, comma 1
c.p.p.,  nella  parte in cui impone che il giudice pronuncia sentenza
di  condanna  solo  se l'imputato risulta colpevole «al di la di ogni
ragionevole  dubbio»,  giustificherebbe la soppressione del potere di
appello della sentenza assolutoria da parte del p.m., sul rilievo che
non  puo'  ammettersi  la  condanna  di  un  imputato pronunciata dal
giudice  di appello dopo che il giudice di primo grado lo ha assolto,
cosi'  ritenendo sussistente almeno il «ragionevole dubbio» della sua
colpevolezza.
    La  regola  introdotta  dalla  nostra legge, invero, non presenta
sostanziali  caratteri di novita rispetto al la previgente disciplina
limitandosi a prevedere espressamente sul piano norinativo quanto era
stato  gia'  affermato  in  giurisprudenza  anche dalle Sezioni Unite
della    suprema    Corte    in    ordine    alla    riconducibilita'
dell'insufficienza,   della   contraddittorieta'   e  dell'incertezza
probatoria, previste dall'art. 530, comma 2, c.p.p., al «plausibile e
ragionevole dubbio» (cfr. sez. unite sent. n. 30328 del 2002).
    Nulla  da  osservare  sulla  dedotta  questione  di  legittimita'
costituzionale  per  violazione  dell'art. 112 della Costitutione che
risulta  soltanto  affermata  senza  alcuna argomentazione a supporto
dell'eccezione formulata.
    Rileva  infine la Corte che ai sensi dell'art. 18, comma 1 c.p.p.
l'assoluta   esigenza   dell'unitarieta'   del   giudizio   ai   fini
dell'accertamento  dei  fatti  e'  di ostacolo alla separazione delle
posizioni  processuali  e  delle  imputazioni  per  le quali e' stato
proposto appello soltanto da parte degli imputati condannati.