LA CORTE DI APPELLO Ha pronunciato la seguente ordinanza nel procedimento penale contro: 1) Ghisu Sebastiano, nato a Bitti il 10 giugno 1955 ivi res. via G. B. Vico n. 2; 2) Farre Giuseppe, nato a Bitti il 17 febbraio 1978 ivi res. via Monte Zebio n. 2; 3) Orunesu Pietro, nato a Sassari il 27 ottobre 1976 res. a Bitti, via Buggerru n. 26; 4) Malduca Sandro, nato a Sassari il 22 giugno 1976 res. a Bitti, via Firenze n. 2; 5) Calvisi Gianfranco, nato a Nuoro il 13 giugno 1977 res. a Bitti, via Brigata Sassari n. 141. Appellanti: il p.m. c/o il Tribunale di Nuoro e i difensori. Dalla sentenza n. 24 in data 17 gennaio 2005 del Tribunale di Nuoro, con la quale: visti gli artt. 62-bis, 69, 81 cpv. c.p., 521, 533, 535 c.p.p. dichiara Ghisu Sebastiano, Farre Giuseppe e Malduca Sandro colpevoli del reato di cui all'art. 609-bis c.p., cosi' diversamente qualificata l'imputazione sub A) e ritenuti i fatti di minore gravita' ai sensi del terzo comma dell'art. 609-bis c.p., nonche' il Ghisu colpevole anche del reato di cui al capo C), riconosciute in favore dei soli Farre e Malduca le attenuanti generiche, ritenuti i reati ascritti al Ghisu uniti dal vincolo della continuazione, condanna il predetto Ghisu, con la contestata recidiva, alla pena di anni 3 e mesi 4 di reclusione, il Farre e il Malduca ciascuno alla pena di anni 1 e mesi 10 di reclusione. Dichiara inoltre Orunesu Pietro colpevole del reato continuato di cui al capo D), Farre Giuseppe colpevole del reato continuato di cui al capo E), Malduca Sandro colpevole dei reati a lui ascritti ai capi F), G), H), I), J) e K), ritenuti gli stessi uniti dal vincolo della continuazione, e riconosciute al Farre e al Malduca le attenuanti generiche, ritenute per il Malduca equivalenti all'aggravante contestata per il capo K), condanna l'Orunesu, con la contestata recidiva, alla pena di euro 70,00 di multa, il Farre alla pena di euro 500,00 di multa e il Malduca alla pena di mesi 2 di reclusione e quindi tale ultimo imputato in cumulo con la pena inflitta per il reato di cui all'art. 609-bis c.p., alla pena complessiva di anni 2 di reclusione. Condanna inoltre i predetti imputati in solido al pagamento delle spese processuali. Visto l'art. 29 c.p. dichiara il Ghisu interdetto dai PP.UU. per anni cinque. Visto l'art. 163 c.p. ordina che le pene inflitte al Farre e al Malduca rimangano sospese per i termini e alle condizioni di legge. Visti gli artt. 538 e s.s. c.p.p. condanna Ghisu, Farre, Orunesu e Malduca al risarcimento dei danni in favore delle costituite parti civili De Francesco Giuseppina e De Francesco Nicola, per la cui liquidazione rimette le parti dinanzi al competente giudice civile, nonche' alla rifusione delle spese di costituzione e difesa che liquida in complessivi euro 5.280,00 (euro 4.400,00 per la prima posizione, aumentata del 20% per la seconda), oltre accessori di legge. Visto 1'art. 530 primo e secondo comma c.p.p. assolve tutti gli imputati dal reato loro ascritto al capo B) perche' il fatto non sussiste e Orunesu Pietro e Calvisi Gianfranco dal reato di cui al capo A) per non aver commesso il fatto. Nuoro, 17 gennaio 2005 Essendo imputati Tutti: A) del reato p. e p. dall'art. 609-octies c.p. perche', riuniti tra loro presso l'abitazione nella disponibilita' di Ghisu Sebastiano in Bitti alla via Buffoni, partecipavano ad atti di violenza sessuale commessi in danno di Defrancesco Giuseppina - cui il Farre ed il Malduca ripetutamente toccavano il seno - trasportandola poi di peso in un locale ubicato al piano sovrastante della predetta abitazione ed appoggiandola sul pavimento di detto locale, ove le venivano tolte le scarpe e sbottonati i pantaloni ed ove il Ghisu, dopo avere intimato agli altri di andarsene, saliva sul suo corpo, baciandola sul collo e tentando di baciarla sulla bocca, nel contempo percuotendola per vincerne la resistenza, finche' la vittima non perdeva i sensi. B) del reato p. e p. dagli artt. 61 n. 2, 110 e 605 c.p. perche' in concorso tra loro ed al fine di commettere il reato come sopra contestato al capo A), privavano Defrancesco Giuseppina della liberta' personale costringendola a trattenersi contro la sua volonta' nell'abitazione in Bitti alla via Buffoni per poi trasportarla, priva di sensi, a bordo di un'auto ed abbandonarla riversa sull'asfalto della via Isonzo di quel centro. Fatti commessi in Bitti nella notte tra il 1° ed il 2 luglio 1999. Ghisu Sebastiano: C) del reato p. e p. dagli artt. 582 e 585 (in relazione all'art. 576 n. 1) c.p. perche' al fine di commettere il reato come sopra contestato al capo A), percuotendola con pugni e schiaffi, cagionava a Defrancesco Giuseppina lesioni personali, consistite in traumi contusivi alla mano destra ed alle ossa nasali, in escoriazioni alla cute laterale del collo, dalle quali derivava una malattia della durata prevedibile di giorni sette. In Bitti nella notte tra il 1° ed il 2 luglio 1999. Orunesu Pietro: D) del reato p. e p. dagli artt. 61 n. 2, 81 cpv. e 612 c.p. perche', al fine di conseguire l'impunita' per i reati di cui ai capi A) e B) minacciava a Defrancesco Anna - sorella minore di Defrancesco Giuseppina - ed alle di lei amiche Ligios Pamela, Ligios Paola e Giovanetti Alessandra un ingiusto danno, proferendo, in particolare rivolto alla Defrancesco, la frase in lingua sarda, cosi' traducibile in italiano: «adesso vengo a pestarti, anzi a tutte e quattro»; ponendosi subito a rincorrere per alcuni metri le predette, allontanatesi intimorite. In Bitti il 2 ottobre 1999. Querela sporta da Defrancesco Anna il 4 ottobre 1999. Farre Giuseppe: E) del reato p. e p. dagli artt. 61 a. 2, 81 e pv. 594, commi primo e quarto, e 612 c.p. perche' al fine di conseguire l'impunita' per i reati di cui ai capi A) e B), ed in esecuzione di un medesimo disegno criminoso minacciava a Defrancesco Anna - sorella minore di Defrancesco Giuseppina - un ingiusto danno, nel contempo offendendone l'onore e il decoro, proferendo al suo indirizzo la seguente frase: «Bagassa, il giorno che ti trovo da sola, non lo so...». Con l'aggravante di aver commesso l'offesa in presenza di piu' persone. In Bitti il 18 agosto 1999. Querela sporta da Defrancesco Anna il 30 settembre 1999. Malduca Sandro: F) del reato p. e p. dagli artt. 61 n. 2 e 612 c.p. perche', al fine di conseguire l'impunita' per i reati di cui A) e B), nell'incrociare, alla guida di una Fiat Uno di colore bianco lungo la piazza Asproni di Bitti, l'automobile Fiat 600 condotta da Mannu Loredana, in cui viaggiava, sul sedile anteriore destro, Defrancesco Giuseppina, effettuava una brusca manovra di sterzata per dirigere il suo veicolo contro la fiancata anteriore destra dell'autoveicolo ove si trovava la Defrancesco, frenando solo un attimo prima della collisione; con cio' minacciando a quest'ultima un danno ingiusto. In Bitti il 4 agosto 1999. Querela sporta da Defrancesco Giuseppina il 4 ottobre 1999. G) del reato p. e p. dagli artt. 81 cpv., e 594 c.p. perche', con piu' azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, nell'incontrare Defrancesco Anna nella piazza Asproni di Bitti, ne offendeva l'onore e il decoro, rivolgendo al suo indirizzo le espressioni: «Bottana, cogliona»; reiterando le medesime ingiurie a distanza di alcune ore, nell'incontrare la Defrancesco, sempre nella piazza Asproni di Bitti. Con l'aggravante di avere commesso l'offesa in presenza di piu' persone. In Bitti il 29 settembre 1999 alle ore 22,30 e il 30 settembre 1999 alle ore 00,30. Querela sporta in data 30 settembre 1999. H) del reato p. e p. dall'art. 581 c.p. perche' percuoteva Defrancesco Anna, tirandole i capelli. In Bitti il 30 settembre 1999. Querela sporta in pari data. I) del reato p. e p. dagli artt. 61 n. 2 e 612 c.p. perche', al fine di conseguire l'impunita' per i reati di cui ai capi A) e B), nell'incrociare, alla guida dell'autovettura Alfa Romeo di colore verde, Defrancesco Anna, che percorreva a piedi la via adiacente la Caserma dei Carabinieri di Bitti, effettuava una brusca manovra di sterzata e di contemporanea accelerazione, per orientare il veicolo in direzione della predetta, come per volerla investire, riprendendo subito dopo la normale andatura di marcia; con cio' minacciando alla Defrancesco un danno ingiusto. In Bitti il 12 luglio 1999. Querela sporta il 30 settembre 1999. J) del reato p. e p. dagli artt. 61 n. 2, 81 cpv., 612 c.p. perche' al fine di conseguire l'impunita' per i reati di cui ai capi A) e B) e con piu' azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, minacciava a Defrancesco Anna un danno ingiusto, proferendo al suo indirizzo, rispettivamente in data 27 agosto 1999 e 14 settembre 1999, le seguenti frasi: «la prossima volta che ti trovo da sola ti faccio tappare la bocca per sempre», «incomincia a scavarti la fossa che una di queste sere arriveremo». In Bitti il 27 agosto 1999 e il 14 settembre 1999. Querela sporta il 30 settembre 1999. K) del reato p. e p. dagli artt. 61 n. 2, 56 e 610 c.p. perche', al fine di conseguire l'impunita' per i reati di cui ai capi G), H), I) e J), proferendo all'indirizzo di Defrancesco Anna la seguente frase: «ritira le denunce se no buschi pure tu», compiva atti idonei, diretti in modo non equivoco a costringere con minaccia la Defrancesco a ritirare la querela sporta nei confronti del Malduca in data 30 settembre 1999. In Bitti il 24 dicembre 1999. Con la recidiva semplice per Ghisu Sebastiano ed infraquinquennale per Calvisi Gianfranco e Orunesu Pietro. la Corte ritenuto che con memoria presentata in data 20 u.s. il p.g. ha osservato che, a seguito della entrata in vigore della legge 20 febbraio 2006 n. 46, applicabile, a norma dell'art. 10 di essa, anche ai procedimenti in corso, il gravame del Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Nuoro dovrebbe essere, con ordinanza inoppugnabile giusta l'art. 10.2 della legge citata, dichiarato inammissibile avendo l'art. 2 della medesima legge reso inappellabili le sentenze di assoluzione, e che tuttavia, essendo ravvisabile contrasto fra gli articoli 1, 2 e 10 della legge 46/2006 e gli artt. 3 e 111 della Costituzione, la corte dovrebbe rimettere gli atti alla Corte costituzionale; Sentito il difensore di parte civile che si rimette e i difensori degli imputati che chiedono il rigetto dell'eccezione; O s s e r v a I profili di incostituzionalita' proposti dal procuratore generale sono non manifestamente infondati: l'art. 111 della Costituzione garantisce il principio della parita' delle parti nel processo, e questo principio, nella previsione costituzionale, non soffre di eccezioni di sorta (come invece puo' avvenire per altri principi, come quello della formazione della prova in contraddittorio pure stabilito dal medesimo articolo 111). L'esclusione della possibilita' che il pubblico ministero possa gravarsi contro le sentenze di assoluzione con lo stesso mezzo riconosciuto all'imputato avverso le sentenze di condanna comporta l'introduzione nel sistema delle impugnazioni di una evidente irragionevole disparita' di trattamento che contrasta con il richiamato principio della parita' delle parti nello svolgimento del processo. Giustamente ha poi osservato il p.g. che questo enunciato non confligge con le ripetute pronunce negative della Corte costituzionale chiamata ad esprimersi sulle limitazioni al potere d'appello del pubblico ministero stabilite dall'art. 443.3 c.p.p., essendo le disparita' derivanti da questa disposizione ragionevolmente giustificabili alla luce del risultato perseguito con il ricorso al rito abbreviato e delle peculiarita' di questo. Il risultato e' quello della rapida definizione dei processi penali conseguita attraverso la decisione del processo solo sulla base del materiale probatorio raccolto dalla parte pubblica fuori del contraddittorio, e pertanto con una correlativa rinuncia dell'imputato ad intervenire nel delicato momento della formazione della prova, in vista del miglior trattamento sanzionatorio a lui riservato in caso di affermazione di responsabilita'. E tuttavia, se in un quadro siffatto e' parso ragionevole limitare la facolta' di impugnazione del pubblico ministero quanto alle sentenze di condanna (e pertanto in relazione alla quantificazione della pena), altrettanto non pare proprio possa dirsi in relazione alle sentenze di assoluzione, pur pronunciate a seguito di rito abbreviato, stante il perdurante interesse della parte pubblica all'accertamento della verita' (e quindi della responsabilita' dell'imputato che dall'acclaramento della verita' possa risultare), come d'altro canto dimostra il fatto che e' stata conservata al p.m. la facolta' di appellarsi contro le sentenze di condanna che modifichino il titolo del reato. A proposito del generale interesse del p.m. a proporre appello contro le sentenze di proscioglimento conserva piena validita' il richiamo contenuto nel messaggio del Presidente della Repubblica alle Camere la' dove si osserva che «la soppressione dell'appello delle sentenze di proscioglimento ... fa si' che la stessa posizione delle parti nel processo venga ad assumere una condizione di disparita' che supera quella compatibile con la diversita' delle funzioni svolte dalle parti stesse nel processo. Le asimmetrie tra accusa e difesa costituzionalmente compatibili non devono mai travalicare i limiti fissati dal secondo comma dell'art. 111 della Costituzione». Ed e' appena il caso di notare come le osservazioni sopra svolte debbano valere, a maggior ragione quando, come nel caso in esame, si verta in materia di assoluzione pronunciata ad esito di dibattimento: in questa ipotesi disparita' di trattamento risulta in maniera ancor piu' evidente e incontestabile, dato che non e' stato salvaguardato in alcun modo l'interesse dell'ordinamento alla celere definizione del processo ne', tanto meno, all'accusa, che si e' confrontata con la difesa su un piano di parita', e' stato riconosciuto alcun vantaggio processuale. Davvero non si comprende come limitare la facolta' d'appello del p.m. in casi come questo possa dirsi ragionevole. Degne di piena approvazione appaiono poi le notazioni svolte dal procuratore generale in risposta alle obbiezioni che potrebbero farsi alla sua tesi e secondo le quali la soppressione della facolta' d'appello del p.m. contro le sentenze di assoluzione risponderebbe a generali esigenze di celerita' del processo, e sarebbe per altro verso coerente con la presunzione di innocenza dell'imputato o con il precetto per il quale la colpevolezza deve essere dimostrata oltre ogni ragionevole dubbio. Quanto alla prima di tali osservazioni giustamente si e' ricordato che le esigenze di celerita' non hanno impedito la conservazione della facolta' di cui all'art. 443.3 c.p.p., e che, al contrario, saranno proprio le esigenze di celerita' ad essere sacrificate quando, nel caso di accoglimento del ricorso per cassazione proposto dal p.m. contro la sentenza assolutoria, il processo ritornera' in primo grado con la prospettiva della celebrazione (anche) del giudizio d'appello in caso di condanna dell'imputato. Il principio di non colpevolezza comporta soltanto che le conseguenze pratiche della condanna possano discendere solo dalla sentenza definitiva, e nessuna conseguenza puo' trarsi da esso circa l'iter per il quale si debba pervenire al giudicato. Quello per il quale la colpevolezza puo' essere affermata solo quando sia provata oltre ogni ragionevole dubbio sembra, invece, in questo caso, un principio di lettura equivoca, posto che se si sostiene la inappellabilita' della sentenza con la quale un giudice abbia pronunciato assoluzione poiche' l'eventuale successiva condanna non potrebbe essere pronunciata fuor di ogni ragionevole dubbio, potrebbe altrettanto legittimamente sostenersi che sarebbe del pari inutile un giudizio d'appello contro una sentenza di condanna che, ad esito di un processo celebrato in condizioni di parita' delle parti, sarebbe pronunciata sulla scorta di prove che dimostrino con la stessa sicurezza la colpevolezza. che poi l'esclusione della appellabilita' delle sentenze di assoluzione da parte della accusa pubblica sia coerente all'esplicazione dei diritti della difesa e' stato giustamente contestato dal procuratore generale osservandosi che insopprimibile funzione del processo penale e' quello dell'accertamento della verita', e tale prospettiva deve essere perseguita nel rispetto dei, piu' che giusti, diritti della difesa, da far valere tuttavia nell'ambito del processo e non nel senso che il confronto fra le tesi debba essere evitato (in altri termini deve potersi esercitare la difesa nel processo e non gia' dal processo). Nessuno dubita che nel giudizio d'appello l'imputato debba poi godere del pieno dispiegamento dei diritti che la legge giustamente gli riconosce: ma non si vede in che cosa la celebrazione del secondo grado del giudizio di merito, sia pure ad istanza del pubblico ministero, possa compromettere il diritto di difesa (diverso sarebbe se ci si appellasse al principio del favor rei, che pero' vale nei soli casi in cui la legge faccia ad esso riferimento e non risulta essere stato ricompreso fra quelli garantiti dalla Costituzione). A tutte le notazioni svolte dal procuratore generale, che questa Corte condivide e fa proprie, puo' aggiungersi che il contrasto delle disposizioni denunciate rispetto all'art. 111 (ed anche, a questo punto, all'art. 3) della Costituzione apparira' ancor piu' evidente quando si osservi che nella stesura definitiva della legge 20 febbraio 2006 n. 46 alla parte civile e' stato invece conservato il diritto d'appello avverso le sentenze di assoluzione (la genesi della locuzione del secondo periodo dell'art. 576 c.p.p. alinea nell'attuale formulazione persuade che l'impugnazione ivi menzionata consista nell'appello). Si deve constatare pertanto che alla parte pubblica, portatrice degli interessi rilevantissimi su cui si tornera' tra breve, e' stato del tutto irragionevolmente riservato un potere di impugnazione piu' ridotto che alle parti private e questo dato, indubitabile, non puo' che far risaltare in maniera ancor piu' evidente il vulnus subito, per effetto delle norme che vengono sottoposte al giudice delle leggi, dal principio della parita' delle parti. Oltre a tutto quanto sopra enunciato, partendo dalla constatazione che gli interessi tutelati dal pubblico ministero sono, in uno Stato di diritto, apprezzabili quanto quelli delle altre parti, compreso l'imputato (ed in realta', per quanto le ultime riforme in materia processuale abbiano avuto di mira soprattutto il riequilibrio della posizione dell'imputato rispetto a quella del p.m., mai l'importanza degli interessi tutelati attraverso l'azione di questo era stata reputata sottovalente rispetto a quella degli interessi delle altre parti), puo' ancora osservarsi che sottrarre al pubblico ministero il potere di appellarsi contro le sentenze di assoluzione o di proscioglimento significa rendere piu' difficoltosa l'attuazione della ricerca della verita' e quindi dell'istanza di giustizia propria della collettivita', istanza che e' addirittura pregiuridica, posto che su di essa si basa qualsiasi civile convivenza nella quale si voglia evitare che i consociati siano tentati di ricorrere a forme private di giustizia. Di questo primario interesse della collettivita' e' espressione la previsione dell'art. 112 della Costituzione e, in definitiva, anche quella circa l'emenda del condannato sancita dal comma terzo dell'art. 27 della stessa Costituzione: dalla lettura coordinata di queste due norme si ricava che l'ufficio del pubblico ministero (parte pubblica, e quindi tenuta al rispetto di comportamenti ispirati a massima correttezza e moralita', oltre che onerata anche della ricerca degli elementi favorevoli all'imputato) non e' quello di ottuso persecutore degli incolpati, ma di soggetto che persegue il compito, della cui primaria importanza si e' detto, di far si' che i soggetti devianti vengano recuperati ad una convivenza civile e ordinata. E menomare i mezzi attraverso i quali l'azione del Pubblico Ministero, nel rispetto del principio di parita' delle parti, si deve esplicare significa in definitiva legiferare in contrasto, anche, con le due previsioni costituzionali ora richiamate. La corte, riconosciuta pertanto la non manifesta infondatezza della questione di legittimita' costituzionale sollevata dal procuratore generale e ritenuto di dovere sollevare d'ufficio l'ulteriore questione di legittimita' costituzionale sopra illustrata, riconosciuta la impossibilita' di addivenire alla decisione del processo sottoposto al suo giudizio indipendentemente dalla risoluzione delle cennate questioni (l'applicazione delle norme denunciate impedirebbe infatti la definizione del processo con il possibile ribaltamento della decisione di primo grado e la condanna degli imputati nei termini sollecitati dall'appellante pubblico), dispone la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale sospendendo il giudizio in corso.