LA CORTE DI APPELLO

    Ha pronunziato la seguente ordinanza nel procedimento in epigrafe
indicato  a  carico  di  De  Luca Vincenzo, nato a Ruvo del Monte l'8
maggio 1949, residente a Salerno, via Lanzalone.
    Con  sentenza  dell'1l  ottobre  2001  il G.u.p. del Tribunale di
Salerno  dichiarava  non  doversi  procedere nei confronti di De Luca
Vincenzo in ordine al reato di cui all'art. 317 c.p. ascritto perche'
il fatto non sussiste.
    Avverso  la predetta sentenza proponeva ricorso per cassazione il
procuratore  della  Repubblica  ed  appello  il procuratore generale,
chiedendo che la Corte volesse disporre il giudizio nei confronti del
De Luca davanti al Tribunale di Salerno.
    All'udienza  odierna  il  p.g.  ha  depositato una memoria con la
quale  ha  chiesto  a questa Corte di voler sollevare la questione di
legittimita'  costituzionale  dell'art. 428  c.p.p.,  come modificato
dall'art. 4  della  legge  9  marzo 2006, n. 46, e dell'art. 10 della
predetta  legge  perche'  in  contrasto con gli articoli 3, 111 e 112
della Costituzione.
    Il     difensore    dell'imputato    ha    chiesto    dichiararsi
l'inammissibilita' dell'appello.
    Tanto  premesso,  questa  Corte, sotto il profilo della rilevanza
della  questione.  osserva  che l'art. 10, secondo comma, della legge
prevede  l'immediata dichiarazione di inammissibilita', con ordinanza
non  impugnabile, dell'appello contro una sentenza di proscioglimento
proposto  dall'  imputato o dal pubblico ministero, con una esplicita
deroga  al  principio  tempus  regit actum, che normalmente regola la
successione delle norme processuali.
    L'inesistenza di eccezioni alla dichiarazione di inammissibilita'
e  di  qualsiasi valutazione da parte del giudice, diversa dalla mera
constatazione  che  e' stato proposto un appello dal p.m. avverso una
sentenza  di  proscioglimento  (per  cui  si  prevede  anche  la  non
impugnabilita'  della  relativa ordinanza) non consente di pervenire,
con il mezzo della interpretazione, ad altra soluzione.
    Ne  consegue  che la questione di legittimita' costituzionale del
nuovo testo dell'art. 428 c.p.p. e dell'art. 10 della legge n. 46 del
2006  proposta dal p.g. e' rilevante perche' solo la dichiarazione di
incostituzionalita'  delle  citate norme consentirebbe a questa Corte
di  appello  di  esaminare  i  motivi  di  appello  proposti dal p.m.
appellante.
    Passando   ora  ad  esaminare  il  profilo  della  non  manifesta
infondatezza,  si  osserva  che  la  proposta  questione  appare  non
manifestamente  infondata  in relazione agli articoli 3, 111, secondo
comma,  e  112  della  Costituzione  per  i  motivi  che  di seguito,
sinteticamente, si espongono.
    A)  L'art. 111,  secondo  comma,  della Costituzione prevede che:
«Ogni  processo  si  svolge  nel  contradclittorio  tra  le parti, in
condizioni  di  parita', davanti ad un giudice terzo e imparziale. La
legge ne assicura la ragionevole durata».
    Dunque:
        a)  la  parita' delle parti deve connotare l'intero processo,
quindi  anche  ogni  sua  singola fase (esclusa quella delle indagini
preliminari);
        b)  in  ogni  momento  del  processo deve essere garantito il
contraddittorio delle parti.
    Attraverso  questi due momenti si svolge il tentativo di giungere
all'accertamento della verita', in cui si sostanzia il processo.
    Il  quarto comma della stessa norma prevede poi che: «il processo
penale e' regolato dal contradddtorio nella formazione della prova».
    A  meno  di non voler interpretare quest'ultima disposizione come
una  inutile  ripetizione  del  primo  comma,  se ne deve dedurre che
questo afferma la necessita' che il processo, nella sua interezza, si
svolga  nel  contraddittorio fra le parti ed in condizioni di parita'
delle  stesse  ed  il  quarto  regoli specificamente il principio del
contraddittorio  nella  fase della formazione della prova, tanto piu'
che, nel secondo comma dell'art. 111 vi e' un espresso riferimento al
fatto  che  la  parti  si  muovono, in parita', davanti ad un giudice
terzo  ed imparziale e queste sue qualita' hanno modo di oggettivarsi
non  solo  nel  momento  della  acquisizione della prova, ma anche in
quello della decisione del processo.
    Gia'  dalla ordinanza della Corte costituzionale n. 421 del 2001,
peraltro,  si  evince  che il Giudice delle leggi non ha condiviso la
tesi  di  chi  sostiene  che  il  principio della parita' delle parti
sarebbe  limitato alla fase del contraddittorio, perche', in realta',
il principio introdotto dal secondo comma dell' art. 111 Cost. non e'
altro  che  la  veste  autonoma  data  ad un principio desumibile dal
sistema dei valori costituzionali (art. 3 Cost. in particolare).
    La  parita'  delle  parti deve dunque caratterizzare ogni momento
del  processo in ragione di quegli che sono gli interessi di cui ogni
parte e' portatrice:
        il  p.m. esercita la pretesa punitiva dello Stato, per vedere
affermata la responsabilita' di chi ha violato la legge penale, ed in
questo tende a realizzare gli interessi generali della giustizia;
        l'imputato  esercita la pretesa, costituzionalmente garantita
(art. 24 Cost.) di vedersi riconosciuto innocente.
    La  parita'  delle  parti deve, per quanto si e' detto, avere per
oggetto  anche la fase dell'appello e sin dal suo inizio, ossia dalla
determinazione dei casi in cui e' consentito proporlo.
    B)  L'art. 428 c.p.p., come novellato dalla legge 46 del 2006, ha
previsto  che  il  p.m.  e  l'imputato  possano  proporre ricorso per
cassazione  avverso  le sentenze di non luogo a procedere pronunziate
dal g.u.p. al termine della udienza preliminare.
    Il  principio  di  parita'  di cui all'art. 111 Cost. sembrerebbe
rispettato,  ma  cosi' non e' trattandosi di una parita' solo formale
ed   irragionevole  in  quanto  e'  assolutamente  ovvio  che  nessun
interesse  ha  l'imputato  ad  appellare  la  sentenza di non luogo a
procedere,  che  nessun  pregiudizio, puo' produrgli sotto il profilo
civile,   perche'  non  e'  pronunziata  a  seguito  di  dibattimento
(art. 652 c.p.p.), mentre fa stato (e dunque costituisce un vantaggio
per l'imputato) nel giudizio disciplinare (art. 653 c.p.p.).
    La  nuova  norma  quindi  limita il potere di impugnare all'unica
parte che ha reale interesse ad impugnare una sentenza di non luogo a
procedere, vale a dire il p.m.
    Si  abolisce  quindi  del  tutto  il  potere  del  p.m.  di poter
impugnare  le  decisioni  che lo vedono soccombente rispetto alla sua
pretesa   punitiva,   e,  dunque,  gli  si  impedsice  di  ricercare,
attraverso     l'impugnazione,     di     pervenire    all'attuazione
dell'accertamento della verita' materiale cui il processo penale deve
tendere (Corte cost. sent. n. 254 e 255/1992).
    C)  Gia'  all'indomani  della  soppressione  del  requisito dell'
evidenza  nel  corpo  del  primo comma dell'art. 425 c.p.p., (art. 1,
legge  8 aprile 1993, n. 105) la giurisprudenza affermo' il principio
della necessita' di pronunziare sentenza di non luogo a procedere sia
nel caso di prova positiva della innocenza, sia nel caso di mancanza,
insufficienza  o  contraddittorieta'  della  prova  di  colpevolezza,
sempre  che  essa non apparisse integrabile nella successiva fase del
dibattimento  (Cass.  5 febbraio 1999 n. 1490), ossia in tutti i casi
in cui fosse accertata la «inidoneita' delle fonti di prova acquisite
ad   un   adeguato   sviluppo   probatorio,   nella   dialettica  del
contraddittorio  dibattimentale» (Cass., 3 novembre 1998, Annunziata;
30  gennaio  1995,  Valle;  18  novembre 1998, Gabriele); o, in altri
termini,  come  affermato  dalla  Corte costituzionale nella sentenza
n. 71  del  1996,  nei  casi  in cui «si appalesi la superfluita' del
giudizio» e cioe' solo qualora sia «fondato prevedere che l'eventuale
istruzione   dibattimentale  non  possa  fornire  utili  apporti  per
superare il quadro di insufficienza o contraddittorieta' probatoria».
    In  ordine  ai  poteri  del g.u.p. dopo la riforma operata con la
legge  479  del  1999,  la  Corte  di  cassazione  ha rilevato che la
sentenza  di  non  luogo  a  procedere emessa all'esito della udienza
preliminare,  a  norma  dell'art. 425  cod. proc. pen., anche dopo le
modifiche  citate,  mantiene  la  sua natura «processuale», destinata
esclusivamente  a  paralizzare  la  domanda di giudizio formulata dal
pubblico ministero (Cass. 1° agosto 2000 n. 1662).
    Il  g.u.p.  deve  operare  le  sue valutazioni anche di merito in
funzione  della idoneita' o meno degli elementi acquisiti a sostenere
l'accusa   in  giudizio,  non  senza  aver  verificato,  prima  della
decisione,  la possibilita' di completare le risultanze investigative
attraverso un supplemento di indagini (art. 421-bis c.p.p.).
    Il giudice dell'udienza preliminare puo' prosciogliere nel merito
l'imputato - in forza di quanto disposto dall'art. 425, comma 3, cod.
proc.   pen.   -   anche  quando  gli  elementi  acquisiti  risultano
insufficienti  e  contraddittori  e  simile  esito  e'  imposto, come
previsto   dall'ultima   parte  del  comma  3  dell'art. 425  citato,
allorche'  detti  elementi  siano  comunque  non  idonei  a sostenere
l'accusa  in giudizio (Cass. 19 dicembre 2001 n. 45275, sul c.d. lodo
Mondadori).
    Dunque,  la  insufficienza  o contraddittorieta' degli elementi a
carico  dell'imputato  deve  essere  parametrata  alla prognosi della
inutilita'  del  dibattimento; sicche' esattamente deve escludersi un
esito liberatorio in tutti i casi in cui detti elementi si prestino a
soluzioni  alternative  e  «aperte»  (Cass., 9 ottobre 1995, n. 3467;
Cass.,  21 aprile 1997, n. 2875; Cass. 5 febbraio 1998 n. 687 e Cass.
19 dicembre 2001 n. 45275).
    Se questa e' la funzione che il giudice della udienza preliminare
deve svolgere, non si puo' negare che al p.m. si debba riconoscere il
potere di proporre appello avverso le sentenze di proscioglimento per
far  valere  l'erronea  valutazione operata dal g.i.p. della prognosi
della   inutilita'   del   dibattimento   che  incide  sull'esercizio
dell'azione penale.
    L'art. 428   c.p.p.   nel   testo   ante  riforma  prevedeva  una
impugnazione  nel  merito della sentenza di non luogo a procedere del
g.u.p.,  con  una  «rivalutazione» nel merito da parte del giudice di
appello  relativa proprio alla fondatezza della richiesta di rinvio a
giudizio  e  quindi  la  valutazione  della  sufficienza o meno degli
elementi addotti dal p.m. ai fini della celebrazione del giudizio, il
che  e' come a dire sui presupposti stessi dell'esercizio dell'azione
penale.
    Con  la nuova normativa in maniera del tutto irragionevole, viene
eliminata    tale   rivalutazione   cosi'   creando   sostanzialmente
l'impossibilita'  di  rivedere  nel merito la valutazione del giudice
dell'udienza  preliminare  che  pertanto rimane sottratta a qualsiasi
impugnazione:  invero  l'appello  non  e'  piu' ammissibile e d'altra
parte  il  ricorso per Cassazione e' dichiarato ammissibile dall'art.
606  c.p.p. solo per specifici motivi, tra i quali non e' sicuramente
compresa  la  semplice  valutazione  o  la «sufficienza o meno» degli
elementi per il giudizio.
    Tale  ingiustificata  anomalia  si concretizza in tutti i casi in
cui  non  vi  e'  ne' mancanza, ne' contraddittorieta', ne' manifesta
illogicita'   della   motivazione,  ma  solo  appunto  una  possibile
alternativa valutazione degli elementi addotti.
    L'anomalia  e'  ancora  piu'  grave  e  irragionevole  laddove si
consideri  che,  in  ragione  della  esigenza  di  completezza  delle
indagini  preliminari  (Corte  cost.,  sentenza  n. 88  del 1991), il
pubblico  ministero,  gia' prima della udienza preliminare, deve aver
gia'  esercitato  il  potere e assolto al dovere di svolgere tutte le
attivita'   necessarie   in   vista   delle  determinazioni  inerenti
all'esercizio  dell'azione  penale, tenendo anche conto del fatto che
sulla  base  degli  elementi  raccolti  l'imputato potra' chiedere ed
ottenere di essere giudicato con il rito abbreviato, per cui non puo'
esimersi  dal  predisporre  un  esaustivo  quadro probatorio in vista
dell'esercizio dell'azione penale (Corte cost. sent. 115/2001).
    Se  dunque le indagini preliminari devono essere complete e tener
conto  anche del diritto dell'imputato di chiedere il rito abbreviato
davanti  al  g.u.p.,  si  converra'  che  l'inappellabile giudizio di
questi  sulla  inutilita'  del  dibattimento incide indiscutibilmente
sull'esercizio  della  azione penale, negando addirittura l'esistenza
dei  suoi presupposti in fatto, con una evidente violazione dell'art.
112   della   Costituzione,  essendo  possibile  il  nuovo  esercizio
dell'azione  penale  solo  sulla scorta di nuove prove decisive e non
per la pretermissione di quelle gia' esistenti.
    In  altri  termini,  e'  proprio l'esercizio dell'azione penale a
subire  una limitazione tanto drastica da incrinarne irreparabilmente
il carattere obbligatorio da un lato e da sottrarne la titolarita' al
p.m.  dall'altro:  di  fatto  la  scelta  tra  il perseguimento della
pretesa  punitiva  ed il suo definitivo abbandono e' rimessa non gia'
all'apprezzamento    dell'organo    dell'accusa,   ma   al   giudizio
inappellabile  del  g.u.p.,  il  quale diviene in tal modo arbitro di
impedire  -  attraverso  una  pronunzia,  che  per  come rilevato, il
diritto  vigente considera meramente processuale - una cognizione del
fatto piena e pienamente attuativa del principio del contraddittorio;
la qual cosa e' tanto piu' irragionevole in quanto, per taluni reati,
anche  di  rilevante  gravita'  (art. 550  c.p.p.)  la  pretesa viene
esercitata senza alcun filtro ed in forma diretta.
    D)  La  Corte  costituzionale  ha  affermato  il principio che il
potere  di  appello del pubblico ministero non puo' essere ricondotto
all'obbligo  di  esercitare  l'azione  penale.  (Corte cost. sentenze
n. 280  del  1995,  n. 206  del  1997,  ord.  426/1998  ), per cui la
configurazione   dei  relativi  poteri  rimane  affidata  alla  legge
ordinaria,  censurabile  per  irragionevolezza se i poteri stessi nel
loro  complesso,  dovessero  risultare  inidonei all'assolvimento dei
compiti previsti dall' art. 112 della Costituzione (Corte cost. sent.
98 del 1994).
    Tale indirizzo, tuttavia, si e' formato ed e' stato affermato con
riferimento  alla  impugnazione di provvedimenti emessi «a cognizione
piena»,  cioe' nei casi in cui, a seguito di regolare giudizio, vi e'
stata   decisione   nel   merito   della   imputazione,  ossia  sulla
responsabilita' o meno dell'imputato, da parte del giudice e non solo
sulla  idoneita'  o meno delle prove raccolte a sostenere l'accusa in
giudizio, ossia sulla concreta esperibilita' dell'azione penale in un
giudizio  a  cognizione piena. Non si puo' dire dunque che il sistema
creato  con  la riforma sia idoneo a garantire al p.m. l'assolvimento
dei compiti previsti dall'art. 112 della Costituzione che, dunque, ne
risulta violato.
    E)  Parte  della  dottrina  ha sostenuto, a giustificazione della
riforma con la eliminazione del potere di appello del p.m. avverso le
sentenze  di  proscioglimento  pronunziate  in  primo grado, che esso
sarebbe   giustificato   dalla   necessita'  di  evitare  di  esporre
l'imputato  al  pericolo di un ribaltamento della decisione del primo
giudice,  davanti al quale si sono formate, nel contraddittorio delle
parti,  le  prove,  da  parte  di  un  giudice  (di appello) che solo
eccezionalmente   procede   alla   rinnovazione   della   istruttoria
dibattimentale  (essendo  l'attuale  appello  solo  una revisione del
primo giudizio e non un giudizio nuovo).
    E' del tutto evidente che questa obiezione non puo' riguardare il
caso  della  sentenza del g.u.p. ex art. 428 c.p.p. in cui ancora non
vi  e'  stata  alcuna  formazione  della  prova,  nella sua pienezza,
davanti  al  giudice  del dibattimento, ma solo una valutazione della
sua idoneita' a sostenere l'ipotesi dell'accusa.
    Sotto  questo  profilo  il  sistema  precedente  alla riforma era
perfettamente  coerente  perche'  all'esito  del  giudizio di appello
questo  giudice  si  limitava  ad  emettere  il  decreto di citazione
davanti  al  giudice  di  primo  grado che, nel contraddittorio delle
parti,  avrebbe  poi  proceduto  al  giudizio  per  la verifica della
responsabilita' o meno dell'imputato.
    E'   giocoforza  allora  concludere  che  nella  riforma  non  si
intravede  nessuno  scopo  diverso  da quello di privare, puramente e
semplicemente,  il  pubblico  ministero  del  potere  di appellare le
sentenze  di  non  luogo  a procedere, che costituiscono la negazione
addirittura  della  idoneita'  della  sua pretesa punitiva a avere un
possibile  esito  positivo  nel giudizio di primo grado, operando una
diminuzione  dei  poteri processuali di quella parte senza rispettare
alcun  canone  di ragionevolezza, non essendo la pronunzia del g.u.p.
pronunziata a seguito di contraddittorio pieno sulle prove.
    G)  Nel  momento  in  cui si incide sul potere processuale di una
delle  parti  del  processo,  deve  esistere  un  altro interesse che
giustifichi  quella  privazione, come si ricava dalle pronunzie della
Corte   costituzionale   sulla  questione  della  legittimita'  degli
artt. 443,  comma 3 e 595 c.p.p. nella parte in cui non consentono al
p.m.  di  proporre  appello,  sia  in  via  principale,  che  in  via
incidentale  avverso  le  sentenze  di  condanna, emesse a seguito di
giudizio abbreviato.
    E'  noto  che  in  proposito  il  Giudice delle leggi ha ritenuto
ragionevole  che  il  potere  di  impugnazione  del p.m. possa cedere
rispetto  all'obiettivo primario di una rapida e completa definizione
dei  processi  svoltisi  in primo grado secondo il rito abbreviato in
base, cioe', ad una decisione:
        richiesta  dall'imputato  che  ha  rinunziato  all'istruzione
dibattimentale,  fondata,  di  conseguenza,  sul materiale probatorio
raccolto  dal  p.m.  nel  corso delle indagini preliminari e, dunque,
dalla  parte  che  subisce  la  successiva  limitazione in termini di
appello;
        decisione  che,  comunque,  ha  visto  realizzare  la pretesa
punitiva  fatta  valere  (sent.  98  del  1994;  ord. 421/2001, sent.
115/2001; ord. 46/2004).
    Proprio la mancata, parziale realizzazione della pretesa punitiva
ha consentito, al contrario, di ritenere costituzionalmente legittimo
il potere del p.m. di impugnare una sentenza di condanna nel processo
conclusosi  con  il  rito  abbreviato  se  l'impugnazione riguarda il
titolo del reato.
    In questo caso, come in quello della sentenza emessa a seguito di
patteggiamento,   anch'essa  inappellabile,  il  ricorso  alla  prova
contratta,  l'attuazione  del  principio  di  economia processuale e,
soprattutto,  la  realizzazione della pretesa punitiva di cui il p.m.
e'  portatore  nell'interesse  della  collettivita',  giustificano la
contrazione  del  potere  di  iniziativa  della parte pubblica, cosi'
come,  nel  caso  delle  sentenze  del  giudice di pace, e' la minore
offensivita'  dei  reati che ne sono oggetto a giustificare la scelta
legislativa.
    Non  si  individua, invece, alcuna ragione che possa giustificare
la  privazione  del potere del p.m. di impugnare una sentenza che gli
impedisce  di  accedere  alla  fase del giudizio senza che questa sua
privazione   sia   conseguenza   del  raggiungimento  di  altri  piu'
importanti obiettivi processuali.
    H)   Anche   la  normativa  transitoria  dettata  con  l'art. 10,
applicabile  anche  alle  sentenze  ex  art. 425  c.p.p., presenta un
evidente  profilo  di  incostituzionalita' ex art. 111, secondo comma
Cost.  essendo  innegabile  che per i procedimenti in corso nei quali
sia  stato  gia'  proposto  l'appello  ex art. 428 c.p.p., non appare
giustificata,  anche  in  termini di ragionevole durata del processo,
una   dilazione   dei  termini  cosi'  come  stabiliti  dalla  norma:
dichiarazione   di   inammissibilita',   proposizione   ricorso   per
cassazione   entro  il  termine  di  gg.  45  (ove  ne  sussistano  i
presupposti),  celebrazione  del  giudizio  di  Cassazione, eventuale
accoglimento   con   giudizio   di  rinvio  al  giudice  dell'udienza
preliminare,  fissazione  della  nuova  udienza  innanzi  al  g.u.p.,
decisione sulla richiesta di rinvio a giudizio.
    Se tale innegabile ritardo - peraltro in presenza di disposizioni
legislative  che  hanno ridotto il termine per l'estinzione del reato
per  intervenuta  prescrizione  -  e'  comunque evidente per la nuova
disciplina  a  regime  pieno  (sentenza  g.u.p.  ex  art. 425 c.p.p.,
ricorso  in  Cassazione, eventuale annullamento con rinvio al g.u.p.,
nuova udienza preliminare e nuova dcisione) assume i caratteri propri
della irragionevolezza e comunque della incostituzionalita', sotto il
profilo  evidenziato,  quantomeno  in relazione a quei processi, come
quello  in  esame,  nei  quali  il  giudice, nella specie la Corte di
appello,  avrebbe  dovuto  solo  esprimere  nell'immediatezza  la sua
decisione  circa  l'eventuale  rinvio  a  giudizio  dell'imputato con
fissazione dell'udienza innanzi al tribunale.
    Per tutti i suesposti motivi, la Corte di appello di Salerno.