LA CORTE DI APPELLO

    Sulla  eccezione  di  illegittimita' costituzionale dell'art. 593
c.p.p.,  come  modificato  dall'art. 1,  legge  n. 46/2006,  proposta
all'odierna udienza dal procuratore generale;

                          Osserva in fatto

    Con  sentenza  del  Tribunale  di  Mantova, sezione distaccata di
Castiglione  dello  Stiviere,  in data 10 febbraio 2004, gli imputati
erano  assolti  dai  reati  di  cui  agli art. 5, lett. a) e 6, legge
30 aprile  1962,  n. 283  fatti  commessi  fino al 20 agosto 2002. Il
giudice   osservava  come  la  ASL  di  Brescia  aveva  segnalato  il
rinvenimento  di  tracce di boldenone nelle urine di vitelli allevati
presso  la  azienda  agricola  Medeghini  collegata  a  quella  degli
imputati; la sostanza e' un anabolizzante il cui uso e' vietato negli
animali  utilizzati per alimentazione; le analisi ne evidenziavano la
presenza  in  5  campioni  di  cui  uno solo di poco superiore ai due
nanogrammi; il teste Mazzefoli responsabile del servizio veterinario,
dichiarava  che  la  presenza  della  sostanza in misura inferiore al
limite  di  «2 ppb» non puo' essere considerato indice di trattamento
illecito.
    Il  consulente  della  difesa  esponeva  come  recenti  studi  ed
esperimenti  abbiano  dimostrato che il boldenone che e' una sostanza
simile  al  testosterone,  viene prodotta dall'animale alimentato con
sostanze vegetali e puo' risultare pertanto presente senza che vi sia
stata  somministrazione  illecita;  solo il rinvenimento di boldenone
coniugato  puo'  dimostrare  che  la sostanza sia stata metabolizzata
dopo  la  somministrazione;  nel  caso  di  specie  fu, al contrario,
individuato  di  solo  boldenone  in  forma  libera  di  per  se  non
indicativo di trattamento.
    Avverso   detta   decisione  presentava  appello  il  procuratore
generale  presso  la  Corte  di  appello di Brescia chiedendo venisse
invece   affermata   la   penale   responsabilita'   degli   imputati
condannandoli alla pena di giustizia.
    All'odierna  udienza  il  procuratore  generale, preso atto delle
limitazioni   alla   facolta'   di  appello  del  pubblico  ministero
introdotte  dalla  sopravvenuta  modifica  dell'art. 593  c.p.p.  per
effetto  della  previsione  di  cui  all'art. 1,  legge n. 46/2006, e
ritenute dette limitazioni operanti per l'impugnazione in discussione
nel  presente  procedimento,  eccepiva  illegittimita' costituzionale
della norma da ultima citata con riferimento agli artt. 3, 24, 25, 11
e 112 Cost.

                       Motivi della decisione

    Con   la   norma,   della   cui  legittimita'  costituzionale  il
procuratore  generale  dubita,  la  disciplina  dei  casi  di appello
prevista  dall'art. 593  c.p.p. e' stata profondamente modificata con
particolare    riguardo    all'appellabilita'   delle   sentenze   di
proscioglimento  pronunciate  in  primo  grado,  ad  eccezione  delle
sentenze   emesse  a  seguito  di  giudizio  abbreviato  e  di  altre
specificamente indicate.
    La  previgente  normativa  escludeva tale appellabilita' al terzo
comma  del  citato  art. 593,  sia  per il pubblico ministero che per
l'imputato,  con riferimento alle sentenze relative a contravvenzioni
punite con la pena dell'ammenda o con pena alternativa, ed al secondo
comma,   limitatamente   al   solo   imputato,  per  le  sentenze  di
proscioglimento perche' il fatto non sussiste o per non aver commesso
il fatto.
    Per   effetto  della  recentissima  modifica,  il  secondo  comma
dell'art. 593,  nell'attuale  formulazione,  consente ora al pubblico
ministero ed all'imputato di appellare le sentenze di proscioglimento
solo allorche' con i motivi di appello, ai sensi dell'art. 603 c.p.v.
c.p.p.,    venga    richiesta    la    rinnovazione   dell'istruzione
dibattimentale per l'assunzione di prove sopravvenute o scoperte dopo
il  giudizio di primo grado, e dette prove abbiano il carattere della
decisivita';  prevedendosi  dal  punto  di  vista  procedurale che il
giudice   dell'appello,   ove  in  via  preliminare  non  ammetta  la
rinnovazione   dell'istruttoria,   dichiari   l'inammissibilita'  del
gravame,  e  che  entro  il  termine  di  quarantacinque giorni dalla
notificazione  della  relativa  ordinanza  le  parti possano proporre
ricorso per cassazione anche avverso la sentenza di primo grado.
    L'art. 10, legge n. 46/2006 prevede poi che la legge stessa trovi
applicazione  per  i  procedimenti in corso; disponendo che l'atto di
appello  proposto  avverso  una  sentenza  di  proscioglimento  prima
dell'entrata   in   vigore   della  nuova  normativa  sia  dichiarato
inammissibile  con  ordinanza non impugnabile, e che entro il termine
di  quarantacinque  giorni  dalla notificazione di quest'ultima possa
essere  presentato  ricorso  per  cassazione  avverso la decisione di
primo grado.
    Tanto  premesso,  e  richiamando  quanto  precedentemente esposto
sulla  vicenda  processuale,  e'  evidente  la rilevanza nel presente
giudizio  della  questione  proposta  dal  procuratore  generale.  Al
procedimento  in  esame,  per effetto della citata norma transitoria,
deve  senz'altro  applicarsi, invero, la nuova disciplina; essendo di
conseguenza  l'appello  in  discussione  soggetto  a  declaratoria di
inammissibilita',  con  la  conseguente possibilita', per il pubblico
ministero  appellante,  di  esperire il ben diverso e piu' delimitato
rimedio del ricorso per cassazione 1).
    Il   requisito   della   rilevanza   dell'eccezione   e'   dunque
sussistente.
    Altrettanto  deve  concludersi, peraltro, in ordine all'ulteriore
presupposto della non manifesta infondatezza della questione.
    E'  opportuno  premettere  che, per quanto la novella legislativa
abbia  ad  oggetto l'appellabilita' delle sentenze di proscioglimento
da  parte  sia  dell'imputato  che  del  pubblico  ministero,  e' nei
confronti  di quest'ultimo che la limitazione dell'accesso al gravame
in  discussione  assume  portata  preponderante  e,  sostanzialmente,
rilievo  centrale.  All'  imputato  era  invero  gia'  inibita  dalla
precedente   normativa  la  possibilita'  di  appellare  sentenze  di
proscioglimento  con  formula  piena. Ma, a prescindere da questa pur
pregnante   circostanza,   non  occorre  spendere  molte  parole  per
evidenziare  come in generale, a fronte di una pronuncia assolutoria,
l'interesse  ad  impugnare  si  concentri  in  concreto  sul pubblico
ministero piu' che sull'imputato.
    L'incidenza   di   una   siffatta   limitazione   sui  poteri  di
impugnazione  del  pubblico  ministero  non  richiede,  a  sua volta,
particolare  commento.  E'  sufficiente osservare come per effetto di
essa   l'ufficio   della   pubblica  accusa  si  veda  privato  nella
grandissima maggioranza dei casi del potere di appellare una sentenza
di  proscioglimento  in  primo  grado.  L'esercizio  di  tale  potere
presuppone  infatti,  nell'attuale  previsione  normativa,  che nuove
prove  siano  emerso  dopo il giudizio di primo grado; e, per giunta,
che  esse  si  presentino  come  decisive  per  il  giudizio.  Ove la
marginalita' statistica di una situazione cosi' descritta puo' essere
agevolmente apprezzata da chiunque abbia minima esperienza delle cose
giudiziarie.
    Una  deprivazione  di facolta' processuali di tale portata impone
un   controllo   sulla   ragionevolezza   della  relativa  previsione
normativa;  e  cio'  soprattutto  nel  momento  in  cui  le  predette
facolta',  in  quanto riferite alla figura istituzionale del pubblico
ministero,   si   ricollegano  a  valori  di  fondamentale  rilevanza
costituzionale.
    Viene in risalto in primo luogo, a questo proposito, il principio
dell'obbligatorieta'  dell'esercizio dell'azione penale, da parte del
pubblico ministero, di cui all'art. 112 Cost.
    La  centralita'  del  principio in parola nel sistema complessivo
della  giurisdizione penale e' data, vale la pena qui ricordarlo, non
solo dal suo contenuto specifico; ma altresi' dalla sua funzionalita'
alla  concreta  attuazione  di  valori a loro volta caratterizzati da
valenza costituzionale.
    E'   dato   acquisito   da   tempo  nella  stessa  giurisprudenza
costituzionale,  formatasi sulle norme del codice di procedura penale
ora  vigente  a  partire dalla sua entrata in vigore, che l'esercizio
dell'azione  penale  da  parte  del pubblico ministero, ufficio non a
caso  interno ed integrante dell'ordine giudiziario nella visione del
legislatore   costituente,   sia   manifestazione   del  fondamentale
principio  di  legalita',  di  cui all'art. 25 Cost., nel suo aspetto
sostanziale;  in  quanto  esso esprime, cioe', la necessita' che alla
commissione  di  reati,  lesivi  di  interessi e valori spesso a loro
volta  di  rango  costituzionale  o  comunque  di  elevata  rilevanza
sociale, segua l'inflizione di una pena 2).
    Non va peraltro trascurato, in questa prospettiva, il rilievo del
diritto  di  difesa  garantito  dall'art. 24  Cost.  anche alle parti
offese  dei  reati. Diritto che non puo' ritenersi attuato dalle sole
norme  connesse  all'istituto  della costituzione di parte civile nel
processo  penale;  rispetto  al quale, a dire il vero, l'art. 6 legge
n. 46/2006,   modificando   l'art. 576   c.p.p.  con  l'escludere  il
riferimento  operativo  della  facolta'  di  impugnazione della parte
civile  al  mezzo  di  gravame  previsto  per  il pubblico ministero,
continua  a  rendere possibile l'appello di essa parte civile avverso
la  sentenza  di  proscioglimento  di  primo  grado, sia pure ai soli
effetti  della responsabilita' civile. L'esercizio dell'azione penale
da  parte del pubblico ministero vale infatti ad offrire alle vittime
dei  reati  l'essenziale  tutela  del  loro  legittimo  interesse  ad
ottenere  giustizia,  a  prescindere  dalle  possibilita'  che  dette
vittime  in  concreto  abbiano  di  accedere  al processo nelle forme
dell'azione civile ivi direttamente intrapresa.
    Detto  questo,  e'  ben  vero  che  la giurisprudenza della Corte
costituzionale  ha  affermato  come il potere di appello del pubblico
ministero  non  possa  essere  ricondotto  all'obbligo  di esercitare
l'azione  penale.  3)  Ma  e' vero altresi' che il principio e' stato
dalla stessa giurisprudenza successivamente chiarito nel senso che la
facolta'  di impugnazione non costituisca «estrisecazione necessaria»
dell'esercizio  dell'azione  penale.  4)  Detta  facolta' rappresenta
dunque  non  piu' che uno dei possibili sviluppi, e non il necessario
prolungamento   dell'azione   penale;   ma,  in  questa  prospettiva,
limitazioni particolarmente consistenti al potere di impugnazione non
possono  che  riverberarsi  sulla  completezza  delle possibilita' di
esercizio dell'azione. E qui ci troviamo di fronte, come si e' visto,
ad una deminutio del potere di appello del pubblico ministero tale da
ridurre lo stesso a casi marginali, per non dire estremi.
       Avuto   riguardo  al  contesto  di  valori  costituzionalmente
rilevanti  di  cui  le  opportunita'  di esercizio dell'azione penale
sono, per quanto esposto, espressione, diviene assolutamente doveroso
interrogarsi  sulla  possibilita',  per  il legislatore ordinario, di
apporre  a  detto  esercizio  limitazioni di tale entita' nell'ambito
della  normale  discrezionalita'  legislativa; e sulla necessita', di
contro,  che  una  scelta  di  questo  genere  debba  essere ancorata
rigorosamente ad un canone di ragionevolezza.
    Vi  e'  pero'  anche un altro profilo di rilevanza costituzionale
che deve essere oggetto di analisi in questa prospettiva; profilo che
attiene   al   principio   del   contraddittorio   processuale  posto
dall'art. l11 Cost.
    E'  appena  il  caso  di  precisare  che  qui non si intende fare
riferimento  al  principio del contraddittorio nella formazione della
prova,  di  cui  al  quarto  comma  della norma costituzionale appena
citata.  Oggetto  di  attenzione  deve essere invece il piu' generale
richiamo  del  secondo  comma  dell'articolo  alla  necessita' che il
processo  si svolga nel contraddittorio fra le parti ed in condizioni
di parita' delle stesse.
    Il  contraddittorio,  invero, assurge qui a valore che pervade il
processo  nella  sua interezza; e quindi necessariamente coinvolge la
fase dell'appello, che del processo costituisce passaggio essenziale.
Ed  e',  soprattutto,  valore  in  se' considerato, a prescindere dai
contingenti  interessi  delle  parti;  il  contraddittorio e' binario
privilegiato  del  percorso  processuale, garanzia di approssimazione
quanto  piu'  efficace possibile alla verita'. Ed in questa linea, la
parita'  fra  le  parti,  prima che tutela delle stesse, e' oggettiva
esigenza di un contraddittorio reale.
    Se  cosi'  e',  la  parita'  di cui si parla non puo' che inerire
anche  alla fase dell'appello; e, nell'ambito di essa, al suo momento
introduttivo  e  fondante,  ossia  la  definizione dei casi in cui e'
consentito appellare.
    Ed  allora,  non  e'  chi  non  veda  come  la  norma  della  cui
legittimita'  si discute introduca un evidente dato di squilibrio fra
le  parti; impedendo quasi totalmente al pubblico ministero l'appello
in  caso  di  esito  assolutorio del giudizio di primo grado, laddove
nell'opposto risultato della pronuncia di responsabilita' e' concessa
all'imputato piena facolta' di impugnazione.
    Questa   Corte   non   ignora   che   la  recente  giurisprudenza
costituzionale  5)  ha  ritenuto  che  il principio della parita' nel
contraddittorio non comporti necessariamente l'identita' fra i poteri
processuali  delle parti. Ma, anche in questo caso, cio' che e' stato
escluso e' un vincolo di derivazione necessaria ed assoluta fra i due
elementi.  Rimane  tutto  da  valutare,  quindi,  se  in  concreto la
disparita'  fra  determinati  poteri, a cagione della loro rilevanza,
non  alteri  in misura intollerabile l'equilibrio imposto dalla norma
costituzionale;  e,  soprattutto,  se  di  tale  disparita'  non vada
pretesa una giustificazione che la renda ragionevole.
    In  questa  ottica,  le possibilita' di appello, per quanto detto
pocanzi,  ineriscono ad uno snodo fondamentale del processo; una loro
impari   distribuzione   fra  le  parti  rientra  dunque  fra  quelle
situazioni   nelle   quali   la   non  sovrapponibilita'  dei  poteri
processuali    pregiudica   significativamente   il   principio   del
contraddittorio.
    Anche  per questo aspetto dunque, come per quello precedentemente
esaminato,  occorre  sottoporre la scelta legislativa che ha prodotto
la   modifica  dell'art. 593  c.p.p.  ad  un  accurato  scrutinio  di
ragionevolezza.
    Le  diverse  considerazioni che precedono portano a quello che, a
questo punto, si presenta come il cuore del problema; vale a dire, la
compatibilita'   della   norma   esaminata   con   il   principio  di
ragionevolezza,   desumibile,   come   e'   noto,  dall'art. 3  Cost.
Ragionevolezza che deve pero' essere valutata nella prospettiva della
tollerabilita'  del  sacrificio che la norma impone agli altri valori
costituzionali   fin   qui   menzionati;  segnatamente  il  principio
dell'obbligatorieta'  dell'azione  penale, nel suo profilo di stretta
funzionalita'  ai valori del principio di legalita' sostanziale e del
diritto  di  difesa  delle  vittime  dei  reati,  ed il principio del
contraddittorio  nella  parita'  delle parti, che da' forma al giusto
processo.
    Ebbene,  un  esame  condotto  in  questa  direzione  non puo' che
condurre  ad  un  giudizio di irragionevolezza della norma; dovendosi
ritenere il vulnus inferto ai principi appena citati non giustificato
da alcuna esigenza meritevole di considerazione.
    E'  da  escludersi in primo luogo la ricorrenza nella fattispecie
di  ragioni  corrispondenti  o  similari  a  quelle  che  ispirano la
previsione  di altre e diverse limitazioni dei poteri processuali del
pubblico ministero; giudicate coerenti con il dettato costituzionale,
sotto  il  profilo  del  principio  del  contraddittorio,  dalle gia'
segnalate  decisioni  della  Corte costituzionale. Quali l'esclusione
della  possibilita' per il pubblico ministero di presentare l'atto di
impugnazione  nella  cancelleria  del tribunale, diversa dal luogo di
emissione del provvedimento impugnato, ove lo stesso si trovi, di cui
all'art. 582  cpv.  c.p.p.  6),  evidentemente  sorretta da motivi di
celerita'   processuale   e   comunque  posta  a  fondamento  di  una
limitazione  di  ben  minore  consistenza  delle facolta' dell'organo
dell'accusa;  o l'inappellabilita', anche in prospettiva incidentale,
da  parte  del pubblico ministero, della sentenza emessa a seguito di
giudizio  abbreviato,  di cui all'art. 443 comma terzo c.p.p., ove ad
analoghe  ragioni  di  speditezza si aggiunge l'intento di favore per
l'adozione  di  riti  deflattivi  7).  Nel  caso  di  specie,  non e'
ravvisabile  alcun  risultato  di accelerazione dell'iter processuale
che  giustifichi la scelta legislativa la sostanziale soppressione di
un mezzo di impugnazione disponibile al pubblico ministero.
    Neppure  puo'  attribuirsi  rilievo  alla  particolare  posizione
istituzionale che il pubblico ministero assume nel nostro ordinamento
giudiziario; posizione caratterizzata dalla doverosa ricerca di prove
favorevoli  all'imputato  in  sede  di  indagine  e  da  un'obiettiva
considerazione  degli elementi a carico dell'imputato stesso, che non
vincola  l'ufficio  dell'accusa a richieste che siano necessariamente
intese  a  sollecitare una conclusione in termini di condanna. Questi
rilievi  sono  infatti  superati nel momento in cui ci si trova nella
fase   processuale  a  cui  attiene  la  norma  in  discussione;  che
presuppone  la  conseguita  determinazione  del pubblico ministero di
impugnare  la  pronuncia  assolutoria di primo grado per ottenere una
sentenza  di  condanna, e quindi una valutazione culminata, pur nella
particolare  prospettiva che connota l'operato dell'ufficio d'accusa,
nel  giudizio di sussistenza di congrue prove a carico dell'imputato.
Il  che  da  un  lato  pone il pubblico ministero nella condizione di
proseguire  in  secondo  grado  nell'esercizio  dell'azione penale in
attuazione  dei  valori  di  legalita'  e difesa sociale di cui si e'
ampiamente  detto;  e  dall'  altro esige che il processo mantenga un
equilibrato  contraddittorio  fra  tali ragioni e quelle della difesa
dell'imputato,  perche' nessuna opportunita' di ricerca della verita'
venga ad essere sottratta al giudizio.
    Non  puo'  sottacersi,  come  la  nuova  disciplina dell'art. 593
c.p.p. crei un'irragionevole disparita' di trattamento laddove per un
verso  impedisce  al  pubblico ministero l'appello contro sentenze di
proscioglimento  e  per  altro mantiene la possibilita' per lo stesso
pubblico ministero di appellare una sentenza di condanna; in tal modo
privilegiando  la  cura  di un interesse processuale di indubbiamente
minore consistenza.
    Queste  considerazioni  inducono  a  ritenere  non manifestamente
infondata  la  questione di legittimita' della norma in oggetto con i
richiamati artt. 24, 111 e 112 della Costituzione; e quindi esistenti
i  presupposti di legge perche' gli atti vengano trasmessi alla Corte
costituzionale  per  la  decisione  in  merito,  con  la  conseguente
sospensione del procedimento.
          1)  Pur avuto riguardo all'ampliamento dei casi del ricorso
          per  cassazione  operato  dall'art. 8  della  stessa  legge
          n. 46/2006   con  l'inserimento,  nel  testo  dell'art. 606
          c.p.p.,  della  mancata  assunzione  di  una prova decisiva
          anche   laddove   richiesta   nel   corso   dell'istruzione
          dibattimentale  e  della  contraddittorieta'  o illogicita'
          della   motivazione   risultante   da   atti  del  processo
          specificamente indicati dal ricorrente.
          2) Il relativo percorso culminava nella sentenza n. 111 del
          26   marzo   1993,  con  la  quale  si  riteneva  infondata
          l'eccezione  di illegittimita' costituzionale dell'art. 507
          c.p.p.   sul   presupposto  che  detta  norma  subordinasse
          l'assunzione  di  prove  non  indicate  dalle parti al solo
          requisito  dell'assoluta necessita' ai fini del giudizio, a
          prescindere  dall'eventuale inerzia o intempestivita' delle
          parti.
          3) V. sent. n. 206 del 27 giugno 1997.
          4)  Sent.  n. 110  del  1° aprile 2003; n. 165 del 9 maggio
          2003.
          5)  Sent.  n. 110  del  1° aprile 2003; n. 165 del 9 maggio
          2003; n. 46 del 27 gennaio 2004.
          6) Sent. n. 110 del 1° aprile 2003.
          7)  Sent.  n. 165  del  9 maggio 2003; n. 46 del 27 gennaio
          2004.