IL TRIBUNALE AMMINISTRATIVO REGIONALE

    Ha  pronunciato  la  seguente  ordinanza sul ricorso n. 958/2006,
sezione  III,  proposto  da  Puccio  Diego,  rappresentato  e  difeso
dall'avv.  Marcello  Madonia,  presso  il cui studio, in Palermo, via
Notarbartolo n. 15/b, e' elettivamente domiciliato;
    Contro la S.p.A. Montepaschi Serit - Servizio riscossione tributi
(concessione  n. 296  Palermo),  in persona del legale rappresentante
pro  tempore,  non costituito in giudizio; l'Agenzia delle Entrate di
Palermo, Direzione Generale, in persona del legale rappresentante pro
tempore,  non  costituito  in giudizio; e nei confronti del Ministero
dell'economia  e  delle  finanze,  in  persona  del  Ministro; legale
rappresentante   pro   tempore,   non  costituito  in  giudizio;  per
l'annullamento,    previa   sospensiva   della   nota   (n. preavviso
29620060000489563/000)   emessa   dal   concessionario  del  servizio
riscossione  tributi  Montepaschi  Serit  S.p.A. di Palermo (n. 296),
avente  ad oggetto il preavviso di fermo di beni mobili registrati ex
art. 86 d.P.R. n. 602/1973.
    Visto il ricorso con i relativi allegati;
    Letti  ed esaminati gli scritti difensivi ed i documenti prodotti
dalla parte ricorrente;
    Visti gli atti tutti di causa;
    Relatore il referendario Giovanni Tulumello;
    Uditi,  all'udienza  camerale  del  24 maggio 2006, i procuratori
delle parti come da verbale;
    Ritenuto in fatto e considerato in diritto:

                     F a t t o  e  d i r i t t o

    1. - Svolgimento del processo.
    Con  ricorso  notificato  il  14  aprile  2006,  e  depositato il
successivo  4  maggio,  il  sig.  Diego  Puccio  ha impugnato la nota
indicata in epigrafe, deducendone l'illegittimita'.
    Osserva  in  particolare  il ricorrente che con la nota impugnata
l'amministrazione  intimata,  per  mezzo del suo concessionario (pure
intimato),  ingiunge  il  pagamento  di  un credito erariale entro un
breve   termine,   pena   l'applicazione  della  procedura  di  fermo
amministrativo  di  un  bene  mobile  registrato  di  proprieta'  del
predetto ricorrente.
    Nel ricorso si lamentano le seguenti censure:
        1)  «Violazione  dell'art. 97  Cost.  -  Violazione  e  falsa
applicazione dell'art. 86, d.P.R. 602/1973»;
        2) «Eccesso di potere per difetto di motivazione»;
        3)   «Eccesso  di  potere  per  violazione  dei  principi  di
idoneita' e non contrarieta' ai precetti di logica».
    Il  ricorrente  ha  inoltre  proposto  una  domanda  cautelare di
sospensione degli effetti del provvedimento impugnato.
    All'udienza  camerale  del  24  maggio 2006 e' stata esaminata la
predetta domanda cautelare.
    In   sede   di   deliberazione   dell'esistenza  dei  presupposti
processuali, osserva il Collegio che appare pregiudiziale la verifica
della giurisdizione del giudice amministrativo.
    2.  - L'individuazione della disposizione oggetto della questione
di legittimita' costituzionale.
    Nessuna  disposizione  regola espressamente l'indicato profilo di
giurisdizione,   nel  senso  che  non  e'  dato  rinvenire  enunciati
normativi  che individuino la giurisdizione competente a conoscere le
liti  relative  all'applicazione  dell'art. 86  del d.P.R. n. 602 del
1973, nel testo attualmente vigente 1).
    Conseguentemente,  la  norma  che,  interpretata  nel senso della
qualificazione  del  potere  da essa previsto come riconducibile alla
fattispecie    processualcivilistica    -   di   diritto   comune   -
dell'esecuzione    forzata,    determina    l'individuazione    della
giurisdizione  (secondo  l'ordinaria  regola  di  riparto), e' tratta
proprio dal citato art. 86.
    In relazione all'esercizio di detto potere, non sembra sussistere
la  giurisdizione  del  giudice  tributario, sia perche' l'art. 2 del
d.lgs.  31  dicembre  1992,  n. 546, esclude da tale ambito «gli atti
della  esecuzione  forzata  tributaria successivi alla notifica della
cartella   di   pagamento  e,  ove  previsto,  dell'  avviso  di  cui
all'art. 50,  d.P.R.  n. 602  del 1973» (Consiglio di Stato, sez. VI,
ordinanza  13  aprile  2006,  n. 2032); sia perche' il fermo dei beni
mobili  registrati  non compare nell'elencazione degli atti tipici di
cui all'art. 19 del citato d.lgs. 546/1992.
    Ne   consegue   che   la   questione   va  risolta  alla  stregua
dell'alternativa  fra  giurisdizione  del  giudice  amministrativo  e
giurisdizione del giudice ordinario.
    Non  dettando  il  d.P.R.  n. 602  del  1973  alcuna  norma sulla
giurisdizione,  e  non  potendosi applicare analogicamente la norma -
derogatoria  dell'ordinario  criterio di riparto, nella misura in cui
attribuisce  al  giudice  ordinario  poteri di annullamento dell'atto
amministrativo di cui all'art. 214 del d.lgs. n. 285 del 1992 (che in
relazione  alla  specifica  fattispecie  di  fermo amministrativo del
veicolo  previsto  dal  codice della strada attribuisce la cognizione
delle  relative  liti  al giudice ordinario), la questione va risolta
alla  stregua  del tradizionale criterio di riparto: nel senso che la
norma   di  diritto  sostanziale,  regolante  l'istituto  (il  citato
art. 86)  va  interpretata allo scopo di ricavare la natura giuridica
dell'atto   che   impone   il   fermo  amministrativo,  nonche'  -  e
conseguentemente  -  la natura giuridica delle sottostanti situazioni
giuridiche soggettive.
    In argomento, e' intervenuta la sentenza delle ss.uu. della Corte
di  cassazione, 31 gennaio 2006, n. 2053, che pone a fondamento della
soluzione  adottata  in  favore  della  giurisdizione  dell'a.g.o. la
duplice considerazione secondo la quale:
        a)  secondo il criterio di riparto della giurisdizione basato
sulla natura delle situazioni giuridiche soggettive azionate, volto a
definire   i   confini   fra   la   giurisdizione  dell'a.g.o.  e  la
giurisdizione  generale  di  legittimita' del giudice amministrativo,
non  vi sarebbe questione di una dialettica fra potere e interesse, o
tra  autorita' e liberta', in quanto «Il fermo amministrativo e' atto
funzionale   all'espropriazione   forzata   e,   quindi,   mezzo   di
realizzazione del credito (...)»;
        b)  ove si ipotizzasse una ipotesi di giurisdizione esclusiva
del   giudice   amministrativo,  connessa  al  servizio  pubblico  di
riscossione   dei   tributi  erariali,  dovrebbe  rilevarsi  che  «il
concessionario  non esercita alcun potere di supremazia in materia di
pubblici   servizi   che,  alla  luce  della  pronuncia  della  Corte
costituzionale n. 204/2004, giustifichi questa forma di giurisdizione
amministrativa».
    Secondo  il diritto vivente, dunque, ricavabile dall'orientamento
del  giudice  del riparto, il giudice amministrativo sarebbe sfornito
di  giurisdizione  in  merito  all'esame  di  domande  concernenti la
legittimita'    delle   procedure   di   fermo   amministrativo   (e,
conseguentemente, delle connesse domande di cautela processuale).
    Tuttavia,  ritiene  il  collegio  che  i  dubbi  di  legittimita'
costituzionale, recentemente manifestati anche dal Consiglio di Stato
in  merito  alla  richiamata  disciplina del riparto di giurisdizione
concernente   le   procedure   di  fermo  amministrativo,  siano  non
manifestamente  infondati,  e  siano  rilevanti nella decisione della
controversia in esame, per i motivi che si stanno per esporre.
    L'oggetto  della  questione  di  legittimita'  costituzionale e',
secondo   quanto  riferito,  l'art. 86  del  d.P.R.  n. 602/1973:  il
riferimento,   nella   richiamata   sentenza   delle   Sezioni  Unite
n. 2053/2006,   all'art. 57   del   citato  d.P.R.,  attiene  infatti
unicamente   al   profilo  dell'individuazione  del  rito  una  volta
individuata la giurisdizione competente a conoscere della tutela («si
deve  realizzare davanti al giudice ordinario con le forme consentite
dal  citato d.P.R. n. 602 del 1973, vigente art. 57, dell'opposizione
all'esecuzione  o agli atti esecutivi»), ma non costituisce argomento
-  nel ragionamento della Corte di cassazione - per l'individuazione,
a  monte,  della  regola  di  riparto, che e' incentrata sulla natura
dello strumento previsto dall'art. 86.
    3.   -   Profili  processuali  e  rilevanza  della  questione  di
legittimita' costituzionale.
    In  relazione al descritto svolgimento del processo, vanno svolte
alcune  brevi  considerazioni  quanto  alla  rilevanza  nel  presente
giudizio   della  questione  di  legittimita'  costituzionale,  sopra
sommariamente esposta nei suoi termini generali, nonche' in relazione
alla  possibilita' di sollevare tale questione con riferimento ad una
norma risultante dal diritto vivente.
    3.1.   -  Quanto  al  primo  profilo,  osserva  il  collegio  che
l'individuazione  della  norma attributiva del potere giurisdizionale
e'  pregiudiziale  rispetto  ad  ogni  altra delibazione: tale norma,
della  cui  legittimita'  costituzionale  il  collegio  ha  motivo di
dubitare,  allo  stato  preclude le successive scansioni processuali,
finanche sul piano cautelare.
    Il  collegio  non  ignora  l'orientamento  giurisprudenziale  che
consente,  senza  consumare  il  potere  giurisdizionale e senza fare
diretta    applicazione    della   norma   censurata,   di   decidere
provvisoriamente   sulla   cautela,   nelle   more  del  giudizio  di
legittimita'  costituzionale,  assumendo  la sovrapponibilita' fra il
fumus boni iusir della domanda cautelare e i profili di non manifesta
infondatezza della questione sollevata.
    Tuttavia,   nel  caso  in  esame,  il  giudizio  di  legittimita'
costituzionale  non  refluisce  -  in  ipotesi  di accoglimento della
questione - sulla fondatezza del merito della pretesa (cautelare), ma
sul  riconoscimento,  o  meno,  del potere del giudice di decidere la
lite (e, in essa, l'incidente cautelare).
    Conseguentemente,  allo  stato  appare  preclusa al collegio ogni
valutazione del fumus boni iuris e del periculum in mora, finanche in
chiave    prognostica    rispetto    all'esito    del   giudizio   di
costituzionalita',  in  quanto  la  norma  censurata  non regola tali
profili,  ma  quello  -  ancor piu' pregiudiziale - del riparto della
giurisdizione.
    Il collegio potra' esaminare la domanda cautelare se la questione
sara'  dichiarata  fondata;  in caso contrario, la domanda stessa non
potra'  essere  esaminata nel merito per il pregiudiziale profilo del
difetto del giurisdizione del giudice adito.
    Dalla  decisione  della  questione  di  costituzionalita' dipende
dunque  l'alternativa  fra la pronuncia di un provvedimento che entra
nel merito della pretesa (cautelare), nel senso del suo rigetto o del
suo  accoglimento,  ed  un provvedimento che invece si arresta ad una
pronuncia  sul  rito (ordinanza che non concede la cautela per motivi
attinenti la giurisdizione, ovvero sentenza in forma semplificata che
direttamente declina la giurisdizione).
    Gli   eventi   sopravvenuti  che,  nelle  more  del  giudizio  di
legittimita'   costituzionale   dovessero  incidere,  in  fatto,  sui
presupposti  della  domanda  in  esame  (e in particolare sul profilo
della  irreparabilita'  del  pregiudizio), non incidono, per costante
orientamento  della  giurisprudenza  costituzionale,  sulla rilevanza
della questione, siccome attualmente ritenuta, nei termini anzidetti.
    3.2.  -  Quanto  alla  possibilita'  di  sollevare  questioni  di
legittimita'  costituzionale  in  relazione  al c.d. diritto vivente,
sono  noti  al  collegio gli ambiti ed i limiti che la giurisprudenza
costituzionale   ha  individuato  con  riferimento  al  sindacato  di
legittimita'  costituzionale  di  norme  cosi'  individuate (sentenza
n. 58  del  1995;  sentenza n. 386 del 1999; ordinanza n. 19 del 2003
sentenza n. 229 del 2003; sentenza n. 91 del 2004; ordinanze n. 419 e
n. 420  del  2005),  anche  in  relazione  alla  piu' volte affermata
estraneita'  dell'attivita'  di interpretazione delle leggi ordinarie
dai  compiti  della  Corte costituzionale (ordinanza n. 436 del 1996;
ordinanza n. 92 del 2004; ordinanza n. 142 del 2004; ordinanza n. 290
del   2004;  ordinanza  n. 305  del  2004),  nonche'  all'obbligo  di
interpretazione  adeguatrice  gravante  sul  giudice comune (sentenza
n. 202 del 1999; ordinanza n. 20 del 2001; ordinanza n. 215 del 2004;
ordinanza n. 235 del 2004).
    Il collegio, tuttavia, non puo' fare a meno di osservare che, nel
caso   di   specie,   la   norma   censurata  e'  stata  oggetto,  in
giurisprudenza,    di   contrastanti   interpretazioni,   nel   senso
dell'attribuzione    della    cognizione   delle   liti   sul   fermo
amministrativo al giudice ordinario, ovvero al giudice amministrativo
(a conferma della problematica qualificazione dell'istituto).
    Tale  dialettica  interpretativa si e' tuttavia - doverosamente -
arrestata  a seguito della recente presa di posizione del giudice del
riparto (Cass., ss.uu., sentenza 31 gennaio 2006, n. 2053).
    L'esegesi  della  disposizione  censurata,  nel senso che le liti
relative  all'applicazione dell'art. 86 d.P.R. n. 602/1973, in quanto
relative  alla tutela di diritti soggettivi, devono essere conosciute
dal giudice ordinario, ha prodotto una norma che non si presta ad una
interpretazione  (adeguatrice)  difforme:  provenendo  essa non da un
qualsiasi  giudice,  ma  dal  giudice  del  riparto,  non  e' dato al
Collegio   esplorare   soluzioni   interpretative  -  per  l'appunto,
adeguatrici  - alternative a quella censurata, se non esorbitando dai
propri poteri.
    In  relazione alle questioni di giurisdizione, infatti, lo spazio
riconosciuto  al  giudice per praticare interpretazioni difformi, pur
in  un  sistema giudiziario non improntato al vincolo del precedente,
appare  assai  esiguo,  se  non  del tutto precluso, in ragione della
disciplina  della  verifica  della giurisdizione (caratterizzata, fra
l'altro,  dalla  possibilita' di impugnare con ricorso per cassazione
le  decisioni  del  giudice  amministrativo  per  motivi attinenti la
giurisdizione).
    La  situazione  e' dunque estremamente affine a quella del dubbio
di  legittimita' costituzionale sollevato nel giudizio di rinvio, con
riguardo al principio di diritto enunciato nella fase rescindente del
giudizio  di  cassazione (su cui Corte costituzionale, sentenza n. 30
del 1990; sentenza n. 130 del 1993; sentenza n. 257 del 1994).
    Questo  vincolo risulta oggi peraltro accresciuto a seguito della
disciplina  contenuta  nell'art. 374,  comma  3, cod. proc. civ. (nel
testo  risultante  dalla  modifica apportata dall'art. 8 del d.lgs. 2
febbraio  2006,  n. 40),  per  effetto  della quale non e' consentito
neppure  alle  sezioni  semplici  della  Corte di cassazione - cui il
ricorso  puo'  essere assegnato per questioni di giurisdizione su cui
esista   gia'   un   orientamento  delle  sezioni  unite  -  di  «non
condividere»  tale  orientamento  del  giudice del riparto, dovendosi
necessariamente,   in   tale   evenienza,  sottoporre  nuovamente  la
questione  alle  sezioni  unite,  unico organo legittimato ad operare
mutamenti   di   giurisprudenza   in   materia   di   riparto   della
giurisdizione.
    Da  tale  disciplina si ricava un ulteriore argomento, a fortori,
che preclude a questo collegio di praticare una interpretazione della
norma  censurata  in  senso difforme a quello ritenuto - peraltro, di
recente - dalle sezioni unite.
    4. - La natura giuridica dell'atto di fermo amministrativo.
    Preliminarmente  va  rilevato  che  l'atto impugnato nel presente
giudizio  e' stato emesso ai sensi dell'art. 86 del d.P.R. n. 602 del
1973.
    Si  tratta  di  una  disposizione che assegna all'amministrazione
creditrice  la  possibilita'  di  sottoporre  a  procedura  di  fermo
amministrativo i beni mobili registrati di proprieta' del debitore.
    Secondo  il  giudice  del  riparto  (Cass.,  ss.uu.,  sentenza 31
gennaio  2006,  n. 2053), le controversie relative alla esecuzione di
dette    procedure   spettano   alla   giurisdizione   dell'autorita'
giudiziaria ordinaria.
    Ad  avviso del collegio, la norma espressa dal diritto vivente si
pone  in contrasto con alcuni parametri costituzionali (gli artt. 24,
103 e 113 della Costituzione, sui quali si tornera' in seguito).
    Propedeutica  alla  esposizione  dei  profili  di  non  manifesta
infondatezza  di  tali dubbi di legittimita' costituzionale appare la
ricognizione  della natura giuridica dell'istituto in questione, e la
conseguente qualificazione delle posizioni soggettive delle parti nel
relativo  rapporto,  onde scrutinare alla luce di tale qualificazione
la  censurata  regola  di  riparto  alla luce degli evocati parametri
costituzionali  (dovendosi  correlare  la legittimita' costituzionale
della  norma  sul  riparto  alla  natura  delle situazioni giuridiche
soggettive  interessate,  in  relazione  alla  idoneita'  dei  poteri
cognitori  del  giudice  individuato  come  competente  a fornire una
adeguata tutela - conforme ai parametri suddetti - a tali posizioni).
    Va anzitutto chiarito, quanto alla rilevanza della questione, che
l'atto    impugnato    nel    presente    giudizio,    pur    recando
l'autoqualificazione  di  «preavviso di fermo», ha tuttavia contenuto
ed effetti direttamente lesivi della posizione soggettiva della parte
ricorrente,  sotto  il profilo che qui rileva, in quanto esso collega
al  mero  decorso  di un termine (peraltro, brevissimo: venti giorni)
senza  che intervenga il richiesto pagamento, l'avvio delle procedure
esecutive  sul  bene mobile dell'odierno ricorrente, gia' individuato
con l'atto qui impugnato.
    Ne  consegue  che,  ove  non  ottenga  il richiesto provvedimento
cautelare di sospensione degli effetti dell'atto impugnato, l'odierno
ricorrente  perderebbe  il  potere  di  godere e di disporre del bene
mobile  registrato individuato nel richiamato atto, per il solo fatto
del perdurare dell'inadempimento del debito tributario.
    Sulla  base  di  queste  considerazioni,  e  avuto  riguardo agli
effetti  dell'atto impugnato, il collegio ritiene che lo stesso possa
essere  oggetto  diretto  di  sindacato  in  relazione  alla proposta
domanda  cautelare,  indipendentemente  dalla sua autoqualificazione,
con  riferimento  alla  sua  attuale capacita' lesiva della posizione
giuridica del ricorrente.
    Diversamente,   occorrerebbe   ricondurre   l'effetto  lesivo  (e
rinviare sia la valutazione di impugnabilita', che quella di astratta
irreparabilita' del pregiudizio) al successivo atto della fattispecie
(l'imposizione  del  fermo): questo pero' non e' un atto suscettibile
di  tempestiva  tutela  cautelare,  che  consenta  di sospenderne gli
effetti  prima  della  sua  esecuzione,  ma consta esso stesso di una
attivita'  esecutiva  sul  bene  del  debitore  ricorrente,  onde  la
lesivita'  che  giustifica  l'interesse  a  ricorrere,  e che in sede
cautelare  consente di ritenere astrattamente ipotizzabile l'elemento
del  periculum  in  mora,  e'  gia'  pienamente rinvenibile nell'atto
impugnato nel presente giudizio.
    4.1.  -  La  posizione  espressa  di recente dalla VI Sezione del
Consiglio di Stato.
    Sul  punto  e'  recentemente  intervenuta la citata ordinanza del
Consiglio  di  Stato,  sez.  VI,  13  aprile  2006,  n. 2032,  che ha
affermato,  con  argomenti  che  appaiono  al  Collegio difficilmente
contestabili,  la  natura  provvedimentale  dell'atto  che  limita il
potere  di godimento e di disposizione del bene mobile registrato del
debitore   della   pubblica   amministrazione   nella   procedura  di
espropriazione  forzata  esattoriale  ex  art. 86  cit.  (nel  che si
concreta l'effetto giuridico del c.d. fermo amministrativo).
    Gli  argomenti  esposti  a sostegno di questa tesi possono essere
riassunti nei termini seguenti:
        l'istituto   del   fermo  amministrativo  ex  art. 86  d.P.R.
n. 602/1973  si colloca all'interno della procedura di espropriazione
forzata  esattoriale,  che  ha  connotati  disciplinari e sistematici
profondamente    diversi    rispetto    all'espropriazione    forzata
disciplinata  dal  codice  di  rito civile a tutela dei crediti sorti
negli   ordinari   rapporti  creditori  di  natura  privatistica:  in
particolare,  mentre  ai  privati e' precluso aggredire il patrimonio
del  debitore per soddisfare le proprie ragioni creditorie (in chiave
conservativa   od   esecutiva)  senza  ricorrere  all'intervento  del
giudice,  la  procedura in esame, secondo la citata ordinanza, appare
«connotata  da  molteplici  profili di autotutela pubblica esecutiva,
che  sono  il  residuo di antichi privilegi del creditore, conservati
solo   allo   Stato   in   ragione  delle  peculiarita'  del  credito
tributario»;
        sotto  il  profilo  degli  effetti, il provvedimento di fermo
amministrativo  si  configura  come  un  provvedimento  ablatorio,  e
segnatamente  come  una  requisizione,  che produce gli effetti di un
sequestro  conservativo,  operato  in  assenza  dell'intervento di un
giudice,  e  in  virtu' di un atto unilaterale del concessionario: la
natura  formalmente  privatistica  di quest'ultimo non e' di ostacolo
alla  qualificazione  in termini pubblicistici dei poteri esercitati,
dovendo   ricondursi  tale  fattispecie  al  fenomeno  dell'esercizio
privato  di  pubbliche  funzioni  (in argomento si tenga presente che
accanto  alle  requisizioni  in  proprieta' il diritto amministrativo
conosce la categoria delle requisizioni in uso);
        la  qualificazione  in  termini  provvedimentali dell'atto in
questione  risulta  dal  dato  letterale  utilizzato dall'art. 86 del
d.P.R.  n. 602/1973,  nel  testo  attualmente vigente: il legislatore
qualifica  di  regola  come  «provvedimento»  gli atti della pubblica
amministrazione    che   costituiscono   esercizio   di   un   potere
autoritativo;  detta  qualificazione  appare  poi confermata dal dato
sistematico:  se  si  fosse  in  presenza di un atto di una procedura
espropriativa  assimilabile  a quella processualcivilistica, privo di
natura  autoritativa  e  dell'effetto  di  modificazione  unilaterale
dell'altrui   sfera  giuridica,  l'adempimento  del  debito  dovrebbe
comportare  il  venir  meno  degli  effetti  del  fermo,  e  dovrebbe
comportare  la  cancellazione della iscrizione del fermo nei registri
mobiliari;  invece la disciplina regolamentare dell'istituto in esame
(art. 6, d.m. 7 settembre 1998, n. 503, applicabile alla sopravvenuta
normativa  primaria - modificativa del citato art. 86 d.P.R. 602/1973
-  in  forza  della  norma  di  interpretazione  autentica  contenuta
nell'art. 3, comma 41, del d.l. 30 settembre 2005, n. 203, convertito
dalla  legge  2  dicembre  2005,  n. 248)  richiede  un provvedimento
qualificabile   come   revoca,  in  assenza  del  quale  il  debitore
(tardivamente)  adempiente  non ha titolo per cancellare l'iscrizione
del  fermo  nel  Pubblico  registro  automobilistico:  l'esigenza  di
rimozione,  mediante  revoca  per  sopravvenienza (art. 21-quinquies,
legge n. 241 del 1990), si giustifica proprio in ragione della natura
provvedimentale dell'atto che applica il fermo, i cui effetti possono
essere rimossi soltanto da un altro (contrario) provvedimento;
        l'attuale disciplina dell'istituto, risultante dalla modifica
dell'art. 86  d.P.R.  n. 602/1973  operata  dalla  novella  del  2001
(d.lgs.  27 aprile 2001, n. 193), in un'ottica di semplificazione non
richiede  piu',  come condizione legittimante l'avvio della procedura
di  fermo  amministrativo,  l'inizio  infruttuoso del procedimento di
esecuzione  forzata:  il  fatto  che  oggi  il  fermo  sia svincolato
dall'avvio del processo esecutivo costituisce, secondo l'ordinanza di
rimessione  in  esame,  un  «indizio  del  suo carattere di misura di
autotutela conservativa del patrimonio del debitore».
    4.2.  -  La  non  riconducibilita'  del fermo amministrativo alla
categoria dell'autotutela civilistica del diritto di credito.
    Il  Collegio condivide le superiori argomentazioni, alle quali si
riporta.
    Possono   essere  inoltre  individuati  ulteriori  argomenti  per
sostenere  la  tesi  della natura provvedimentale dell'atto impugnato
nel presente giudizio.
    Come  si  e'  accennato,  in tanto si puo' ritenere conforme agli
evocati  parametri  costituzionali  la  norma censurata, in quanto si
ricostruisca  -  come  hanno  fatto  le  sezioni  unite  - in termini
paritetici il rapporto giuridico fra il soggetto che subisce il fermo
amministrativo e il soggetto che invece lo impone.
    Il  diritto  comune  consente  al  creditore  di  aggredire,  con
funzione  conservativa, il patrimonio del debitore che costituisce la
garanzia del credito ex art. 2740 cod. civ.
    In   altre   parole,  anche  in  diritto  civile,  pur  a  fronte
dell'affermazione  del  generale divieto di autotutela (quale portato
della  repressione  delle  forme  primitive  di  giustizia  privata),
nondimeno  si  riconosce l'esistenza di alcuni Istituti riconducibili
alla nozione di autotutela (conservativa od esecutiva) del diritto di
credito.
    Occorre  pertanto  domandarsi  se,  seguendo  il ragionamento del
giudice del riparto, il fermo amministrativo in esame costituisca una
forma  di autotutela che possa essere ricondotta alle facolta' che il
sistema  riconosce  nell'ambito  di un ordinario rapporto creditorio,
piuttosto  che  all'esercizio  di poteri autoritativi, implicanti una
posizione  di supremazia del creditore (o del suo concessionario) che
agisce.
    L'istituto  che  viene in considerazione - nell'ambito dei rimedi
cc.dd.  cautelativi  - e' il diritto di ritenzione, che - sia esso di
fonte   legale,   o  convenzionale  -  ha  in  comune  con  il  fermo
amministrativo  l'effetto  di  privare  il  proprietario-debitore del
potere  di  disporre e di godere delle cosa (che pero' nel diritto di
ritenzione  preesiste  all'iniziativa  del  creditore,  che  gia'  la
detiene),  e la finalita' di operare una pressione sulla volonta' del
debitore,   affinche'   adempia  il  debito,  al  di  fuori  di  ogni
collegamento  con  l'esecuzione  (tanto  che  se  viene sottoposto ad
esecuzione  forzata  il  bene soggetto a ritenzione, il creditore non
puo'  vantare  un titolo di preferenza al momento della distribuzione
del ricavato).
    Si  ritiene  pero' comunemente che in tanto la legge consente una
simile  possibilita'  di  farsi  giustizia  da  se'  nell'ambito  dei
rapporti   fra   privati,  in  quanto  sussista  una  particolare  (e
qualificata)  connessione  del  titolo creditorio con la cosa oggetto
del  diritto di ritenzione (ius cum re iniunctum): cosi' nel caso del
diritto  di  ritenzione  previsto a vantaggio del possessore di buona
fede  dall'art. 1152  cod.  civ. finche' non gli siano corrisposte le
indennita'  dovute; del coerede che conferisce un immobile in natura,
sino all'effettivo rimborso delle somme che gli sono dovute per spese
e    miglioramenti    (art. 748,    ultimo    comma,    cod.   civ.);
dell'usufruttario,   per   i  rimborsi  che  gli  sono  dovuti  nelle
fattispecie  di  cui agli artt. 1009 e 1010 cod. civ. (art. 1011 cod.
civ.);  del  compratore  nella vendita con patto di riscatto, fino al
pagamento   da  parte  del  venditore  di  quanto  dovuto  a  seguito
dell'esercizio  del  diritto  di  riscatto (art. 1502, secondo comma,
cod. civ.).
    In  tutte  queste  fattispecie  (e  negli altri casi previsti dal
codice  civile,  con  la  sola  eccezione  dell'ipotesi  disciplinata
dall'art. 2794),  la  misura  di  autotutela  ha  ad  oggetto  non un
qualsiasi  bene  del  debitore,  ma  il  bene costituente oggetto del
rapporto giuridico da cui e' scaturito il diritto di credito.
    Nel  caso  del  fermo amministrativo ex art. 86 del d.P.R. n. 602
del  1973  questa  -  fondamentale  -  connessione difetta del tutto:
l'amministrazione  creditrice  aggredisce un bene mobile del debitore
che non ha nulla a che vedere con le ragioni della pretesa creditoria
(a   differenza   dell'ipotesi   prevista  dall'art. 214  del  d.lgs.
30 aprile  1992, n. 285), sol perche' ritiene di indurlo in tal modo,
mediante  le  incisive limitazioni in tal modo arrecate al diritto di
proprieta' e alla liberta' di circolazione, a preferire l'adempimento
del  debito  (che,  in  quanto  indefettibilmente connotato come male
minore  rispetto  alla perdita del potere di godere e di disporre del
bene,   dimostra  come  l'istituto  in  esame  sia  incentrato  sulla
strutturale  violazione del principio di proporzionalita', atteso che
in  tanto  tale  pressione  psicologica  puo'  rivelarsi efficace, in
quanto  si  privi  il  debitore  di  un  bene di valore sensibilmente
superiore al debito inadempiuto).
    Un simile privilegio, non ricorrente nelle - comunque eccezionali
-  ipotesi  di  autotutela privata del credito, si giustifica solo in
ragione della natura pubblica del soggetto creditore e nella connessa
posizione  di  supremazia,  e  conferma  la  natura  autoritativa del
relativo  potere  (altrimenti neppure configurabile), che e' in grado
di  sottrarre  al  proprietario  di  un  bene  i  piu'  significativi
contenuti  del diritto dominicale, con effetti limitativi anche sulla
liberta'  di circolazione (trattandosi di autoveicoli e motoveicoli),
al di fuori di una connessione qualificata con il credito azionato.
    Diversamente  argomentando,  del  resto,  e  ritenendo  -  con le
Sezioni  Unite  -  che  in  fondo l'istituto in esame e' un ordinario
«mezzo  di  realizzazione  del  credito», si legittimerebbe sul piano
teorico  e  su  quello  costituzionale la possibilita' di introdurre,
anche  nella  disciplina  dei rapporti fra soggetti privati, mezzi di
autotutela  conservativa  ed  esecutiva  del credito, non limitati ai
beni oggetto dello specifico rapporto, senza necessita' di intervento
del  giudice: il che, a tacer d'altro, priverebbe della sua funzione,
e  della  sua stessa ragion d'essere, il processo esecutivo, o quanto
meno lo relegherebbe in una prospettiva del tutto residuale.
    Posto  che  anche  in  un  rapporto  paritario  possono,  a certe
condizioni,  ammettersi ipotesi di autotutela del credito, l'elemento
discretivo  non  puo'  che esser dato dalla natura dell'interesse: se
tale   attributo   assiste   la   pretesa   del   creditore  pubblico
semplicemente  in  quanto  creditore, vuol dire che con la previsione
dell'autotutela  la  legge  protegge l'interesse creditorio in quanto
tale  (perche' strutturalmente e funzionalmente qualificato, nei suoi
rapporti  con  il  bene, dalla peculiarita' della fattispecie), e non
l'interesse  pubblico portato dall'amministrazione creditrice e dalle
ragioni del credito.
    Un  significativo  segnale in tal senso si rinviene proprio nella
giurisprudenza  costituzionale:  in  relazione  all'ipotesi  prevista
dalla  legge  di contabilita' dello Stato che costituisce l'archetipo
della  disciplina  del  fermo  amministrativo  (art. 69  del  r.d. 18
novembre  1923,  n. 2440),  la  Corte  costituzionale, nella sentenza
n. 67  del  1972,  ha  affermato  trattarsi  di una misura cautelare,
espressione del potere di autotutela della p.a.
    Affermo'  in  quell'occasione la Corte: «Va ricordato al riguardo
che  il  fermo costituisce misura di autotutela della Amministrazione
statale,  avente lo scopo di assicurare la realizzazione dei fini cui
e'  rivolto  l'iter  amministrativo  procedimentale,  necessariamente
complesso  e  disciplinato  da  norme  inderogabili  e preordinate ad
assicurare  la regolarita' contabile e la realizzazione delle entrate
dello  Stato,  quali  vengono  definite  nell'art. 219 r.d. 23 maggio
1924,  n. 827 (Regolamento per l'amministrazione del patrimonio e per
la  contabilita'  generale  dello Stato). E' evidente, quindi, che la
norma  in  esame  non  configura  un  irrazionale  privilegio, ma uno
strumento  necessario alla protezione del pubblico interesse connesso
alle esigenze finanziarie dello Stato. E se e' vero che l'autotutela,
nella    generalita'   delle   sue   applicazioni,   e'   connaturata
all'attivita'  della pubblica amministrazione nei rapporti di diritto
pubblico,  non  deve  escludersi,  in considerazione di quanto teste'
accennato,  che  speciali  norme  di  legge ne consentano l'esercizio
anche in rapporti di diritto privato, cui la pubblica amministrazione
partecipi per i fini che le sono propri».
    La   superiore   affermazione   della   Corte  costituzionale  e'
oltretutto  relativa  ad un istituto la cui disciplina ha una portata
lesiva della sfera giuridica del privato, e dei suoi beni di primario
rilievo  costituzionale, assai piu' ridotta rispetto alla fattispecie
in  esame,  dal  momento  che  gli effetti della disciplina in quella
occasione censurata si limitano ad una facolta' per l'amministrazione
di sospendere in via interinale il pagamento.
    Solo   riconoscendo   la  natura  pubblicistica  degli  interessi
tutelati,   e   la  corrispondente  natura  autoritativa  del  potere
esercitato,  la  Corte  costituzionale  ha, nella richiamata sentenza
n. 67  del  1972,  potuto  rigettare  la  censura  di  disparita'  di
trattamento,  per  asserita  irrazionalita'  del privilegio accordato
indiscriminatamente  ai  crediti  della  p.a., dal momento che, cosi'
interpretata, la norma non configura un irrazionale privilegio ma uno
strumento  necessario alla protezione del pubblico interesse connesso
alle esigenze finanziarie dello Stato.
    In  argomento la stessa Corte di cassazione, sez. V civile, nella
sentenza  n. 4567/2004,  ha  affermato  che,  come  «precisato  dalle
sezioni  unite di questa Corte, nella decisione n. 1733/02 resa inter
partes,  che  la  facolta'  di  disporre il c.d. fermo amministrativo
delle somme dovute e' attribuita alla pubblica amministrazione per la
tutela di interessi della collettivita' ed in base ad una valutazione
della  predominanza  di  esigenze erariali sul diritto soggettivo del
creditore,  ne,  il  diritto  di  adire  il giudice per conseguire la
tutela  delle  proprie  situazioni soggettive, compresse e vanificate
(anche   se   incontestate   ed  incontestabili)  quale  che  sia  la
consistenza  della pretesa creditoria della p.a. da una insindacabile
determinazione  di  quest'ultima  in  quanto  il  diritto di adire il
giudice  non  e'  influenzato,  ne'  formalmente ne' sostanzialmente,
dalla  norma  atteso che il provvedimento di fermo puo' sempre essere
impugnato innanzi al giudice».
    Deve  pertanto  concludersi,  sul  punto,  nel senso che il fermo
amministrativo in esame e' uno strumento di autotutela della pubblica
amministrazione,   posto   in  essere  mediante  atti  aventi  natura
provvedimentale,  non  essendo  possibile  rinvenire  ne' nel diritto
processuale  civile,  ne'  nel  diritto  privato (comune o speciale),
istituti che, nell'ambito dei rapporti iure privatorum, consentano ad
una  delle  parti di aggredire il patrimonio della controparte, senza
l'intervento  di  un  giudice,  con  le  caratteristiche disciplinari
proprie del fermo di beni mobili registrati.
    5. - I parametri costituzionali violati.
    Date  le  superiori premesse sulla natura dell'atto impugnato, la
questione  in esame si incentra sui poteri di cognizione del giudice,
funzionali  ad  assicurare  un pieno ed efficace diritto di difesa al
debitore  sottoposto  alla procedura di fermo amministrativo: come ha
osservato  gia'  negli  anni  ottanta  del  secolo  scorso autorevole
dottrina,  il giudice amministrativo, a fronte di un limitato accesso
al  fatto  (oggi,  peraltro, non piu' tale), esercita un controllo di
legittimita'  molto  piu' penetrante di quello esercitato dai giudici
ordinari.
    Secondo la disciplina introdotta dall'art. 2 della legge 20 marzo
1865,   n. 2248,   all.   E)   (legge   abolitrice   del  contenzioso
amministrativo),  il  giudice  ordinario  conosce  della  tutela  dei
diritti soggettivi, pubblici o privati.
    La  tutela  giurisdizionale  dell'interesse legittimo («interesse
d'individui  o  di  enti  morali  giuridici»)  e'  invece affidata al
giudice  amministrativo,  dall'art. 24  della  legge  31 marzo  1889,
n. 5992  [istitutiva della IV sezione Consiglio di Stato: si veda ora
l'art. 26  del  r.d.  26 giugno 1924, n. 1054 (Approvazione del testo
unico delle leggi sul Consiglio di Stato)].
    Tale  disciplina,  pur  essendo  sopravvissuta  al  mutamento del
quadro   costituzionale   di   riferimento,   e   pur  continuando  a
rappresentare  un  fondamentale  momento  di sintesi nei rapporti fra
amministrazione e giurisdizione, non costituisce tuttavia «una regola
di valore costituzionale, che il legislatore ordinario sarebbe tenuto
ad osservare in ogni caso» (Corte costituzionale, sentenza n. 275 del
2001):   con   la   conseguenza   che   «resta  rimesso  alla  scelta
discrezionale   del   legislatore   ordinario   -   suscettibile   di
modificazioni  in  relazione  ad una valutazione delle esigenze della
giustizia  e  ad  un  diverso  assetto  dei rapporti sostanziali - il
conferimento  ad  un  giudice, sia ordinario, sia amministrativo, del
potere di conoscere ed eventualmente annullare un atto della pubblica
amministrazione  o  di  incidere sui rapporti sottostanti, secondo le
diverse  tipologie  di  intervento  giurisdizionale  previste» (Corte
cost.,  n. 275/2001,  cit.;  sui  rapporti  fra  il sistema normativo
introdotto  dalla  legge  abolitrice del contenzioso amministrativo e
l'attuale  disciplina  costituzionale della giustizia amministrativa,
si  vedano  altresi'  le  sentenze  della  Corte  cost. n. 32/1970, e
n. 161/1971).
    Una  ipotesi  in  tal  senso e' data, come si e' accennato, dalla
disciplina di una specifica tipologia di fermo amministrativo (quella
prevista  dal  codice  della  strada),  in  relazione  alla  quale il
legislatore, nell'attribuire al giudice ordinario la cognizione delle
relative  liti,  lo  ha pero' dotato di poteri costituitivi sull'atto
amministrativo impositivo del fermo.
    Da  questa disciplina di carattere speciale possono ricavarsi due
indicazioni:
        a)  laddove  il  legislatore,  derogando  allo  schema  - non
costituzionalizzato,  ma  rispondente  ad  una  precisa  ratio  legis
collegata  alla  diversita'  del  sindacato  - introdotto dalla legge
abolitrice  del  contenzioso  amministrativo,  intenda  devolvere  al
giudice ordinario la cognizione sulla legittimita' dell'esercizio del
potere   autoritativo,   deve   espressamente   stabilirlo   con  una
disposizione  che  comunque garantisca una efficace tutela - prevista
dalla  Costituzione  -  dell'interesse  legittimo che fronteggia tale
potere:  altrimenti, la tutela, per Costituzione, non puo' che essere
data  dal  giudice  che  invece  e'  dotato  dei  necessari poteri di
cognizione   e   di   decisione   (e   in  tal  senso  la  disciplina
costituzionale   della   giustizia   amministrativa   deve  orientare
l'interpretazione della fattispecie, secondo il tradizionale criterio
di  riparto  legato  alla  causa  petendi, in difetto di una espressa
previsione di giurisdizione esclusiva);
        b)  laddove  il  legislatore  ha inteso attribuire al giudice
ordinario   la   cognizione   di  liti  sull'applicazione  del  fermo
amministrativo, derogando al criterio di riparto fondato sulla natura
della situazione giuridica soggettiva, lo ha fatto espressamente.
    L'affermazione  sub  a),  del  resto, e' conforme ai piu' recenti
sviluppi  della  giurisprudenza  costituzionale  sulla  tutela  degli
interessi legittimi.
    La  sentenza  n. 204  del  2004,  in  particolare,  pur  resa con
riferimento alla disciplina di un'ipotesi di giurisdizione esclusiva,
nel   ripercorrere  l'evoluzione  storica  del  sistema  italiano  di
giustizia  amministrativa  ha  chiaramente  individuato  nel  giudice
amministrativo  il  giudice  naturale  del potere: il giudice che, ai
sensi degli artt. 24 e 103 della Costituzione, e' in grado di fornire
una  tutela adeguata ed efficace all'interesse legittimo, mediante la
tutela costitutiva e quella risarcitoria.
    La  sentenza  n. 191  del  2006, confermando l'impostazione della
citata  sentenza  n. 204  del  2004,  ha precisato poi che il giudice
naturale della legittimita' dell'esercizio della funzione pubblica e'
il  giudice  amministrativo,  competente  a  giudicare  della pretesa
sostanziale  (onde la proposizione della - sola - azione risarcitoria
non  altera,  dal  punto  di  vista  dell'art. 24  Cost., i parametri
costituzionali del sistema di riparto).
    Le  indicazioni  ricavabili  dalle disposizioni costituzionali di
cui agli artt. 3, 24, 103 e 113, anche alla luce della giurisprudenza
da   ultimo   citata,  sono  dunque  nel  senso  della  necessarieta'
dell'apprezzamento,   ove   la   legge   non   disponga   altrimenti,
dell'esercizio   del  potere  amministrativo  da  parte  del  giudice
dell'amministrazione  (in  ragione  della  peculiarita'  del relativo
sindacato),   a   tutela   dell'interesse  legittimo  che  fronteggia
l'esercizio del potere.
    La  diversita'  strutturale  delle ferme di tutela assicurate dai
due ordini giurisdizionali, rimarcata dalla piu' autorevole dottrina,
consegue  del  resto  alla  presa  d'atto  della diversa natura delle
situazioni  giuridiche  soggettive:  sicche'  se  la  cognizione  del
giudice  ordinario  assicura  una  tutela  efficace con riferimento a
rapporti  paritetici,  nei  quali l'atto amministrativo non si impone
autoritativamente,  viceversa laddove l'atto costituisca esercizio di
potere autoritativo, capace di conculcare la posizione soggettiva del
privato, la tutela costituzionale dell'interesse legittimo impone, in
linea   generale,  e  salvo  espresse  e  ragionevoli  eccezioni,  la
cognizione del giudice amministrativo.
    Del  resto,  se  e'  vero  -  come ha ribadito la citata sentenza
n. 204  del  2004  (punto  3  del  «considerato in diritto») - che la
Costituzione repubblicana non ha cristallizzato il sistema di riparto
elaborato    a    seguito    dell'istituzione   della   giurisdizione
amministrativa,  consentendo  al  legislatore di derogare allo schema
secondo   cui  il  giudice  amministrativo  conosce  degli  interessi
legittimi  e  il  giudice  ordinario dei diritti soggettivi, tuttavia
autorevole  dottrina  opportunamente  osserva  come  la giurisdizione
esclusiva  del  giudice  amministrativo  sui  diritti  ha ricevuto un
espresso  riconoscimento  costituzionale  che,  invece,  non  assiste
l'opposta  ipotesi  di  cognizione degli interessi legittimi da parte
del giudice ordinario.
    Non  e'  stato  dunque costituzionalizzato il criterio di riparto
fondato  sul  petitum sostanziale: ma e' stato costituzionalizzato il
principio  della  effettivita'  della  tutela  giurisdizionale  degli
interessi  legittimi  (art. 24  Cost.),  «la  cui  tutela  l'art. 103
riserva   al   giudice   amministrativo»   (Corte   cost.,   sentenza
n. 204/2004), senza alcuna limitazione sotto il profilo del sindacato
(art. 113 Cost.).
    D'altra  parte,  a  fronte  di  un criterio di riparto in se' non
costituzionalizzato,  ma  ragionevole  (in  quando rispondente ad una
precisa  logica  fondata  sul  ruolo  e sulla funzione dei due ordini
giurisdizionali,  a  fronte  della  diversa  natura  delle situazioni
giuridiche  soggettive  dedotte), una opposta scelta del legislatore,
implicita  nella  disposizione  ed  esplicitata  dal diritto vivente,
sarebbe   certamente   irragionevole   (con   conseguente  violazione
dell'art. 3  Cost.),  nella  parte in cui, di fronte all'attribuzione
normativa   di   un   potere   autoritativo,   assegna  il  sindacato
sull'esercizio  di  quel  potere  al giudice dei diritti, come se gli
effetti riguardassero un rapporto paritario.
    Sotto  un  diverso  profilo,  l'interpretazione  dell'art. 86 del
d.P.R.  n. 602  del  1973,  che  attribuisce  al giudice ordinario la
cognizione  delle  controversie  inerenti  la  legittimita' del fermo
amministrativo  e  la tutela delle situazioni soggettive del debitore
esecutato,  appare  in contrasto con gli articoli 24, 103 e 113 della
Costituzione.
    Va qui precisato che mentre nelle vicende che hanno condotto alle
segnalate    sentenze   n. 204/2004   e   n. 191/2006   venivano   in
considerazione  delle  disposizioni  di legge attributive (al giudice
amministrativo)  di  giurisdizione  esclusiva  su  diritti in materie
ritenute  esorbitanti  dalla  previsione  di  cui all'art. 103 Cost.,
invece   nel   caso   in  esame,  difettando  una  simile  previsione
legislativa, l'interpretazione della natura dell'istituto, funzionale
alla  creazione della regola di riparto, in tanto puo' dirsi conforme
ai  segnalati  parametri,  in  quanto  tenga  conto delle indicazioni
costituzionali  (art. 103  Cost.) circa l'individuazione - a garanzia
della  effettivita'  del  diritto  di difesa dell'interesse legittimo
(artt. 24  e  113  Cost.) - del giudice naturale dell'esercizio della
funzione pubblica.
    In  altre  parole, nelle sentenze n. 204/2004 e 191/2006 la Corte
costituzionale  ha  sindacato  la  legittimita'  di norme sul riparto
contenute   in   disposizioni  relative  ad  altrettante  ipotesi  di
giurisdizione  esclusiva (come tali, derogatorie rispetto al criterio
della  causa  petendi);  nel  caso  in  esame,  il  sindacato  che si
sollecita  ha  ad  oggetto  una  norma  sul  riparto, applicativa del
predetto  criterio,  ricavata interpretativamente dal diritto vivente
sulla  base  non  di  una  disposizione espressa, ma della disciplina
sostanziale del relativo istituto.
    Se,  come  la  Corte costituzionale ha ritenuto a proposito della
vicenda  della  giurisdizione esclusiva, la giurisdizione del giudice
amministrativo sui diritti e' l'eccezione, cio' implica evidentemente
che,  in base agli stessi parametri, quella sugli interessi legittimi
sia la regola (costituzionale).
    In  altre  parole:  non  e' in discussione la possibilita' che il
legislatore  nel rispetto di limiti speculari a quelli indicati dalle
sentenze  n. 204/2004  e  n. 191/2006  della  Corte  costituzionale -
introduca  una  espressa  previsione  di  giurisdizione  del  giudice
ordinario  sugli  atti  di  esercizio  del  potere  amministrativo in
materia  di  fermo amministrativo (cosa che del resto ha fatto, nella
ricordata  disciplina  del  fermo  amministrativo previsto dal codice
della strada).
    Cio'   che   appare   contrario  ai  segnalati  parametri  e'  la
possibilita'  di  ottenere  lo  stesso  risultato in via surrettizia,
mediante  la  qualificazione di un mezzo di autotutela amministrativa
come  strumento di diritto comune, e la conseguente individuazione di
una regola di riparto, relativa non alla giurisdizione esclusiva ma a
quella   generale   di   legittimita',   viziata   ab   origine   dal
condizionamento   che   la   ridetta   qualificazione   opera   sulla
individuazione della causa petendi.
    Il segnalato deficit di tutela non concerne, infine, solo il tipo
di azioni proponibili davanti al giudice ordinario, ed i (limiti dei)
poteri  decisori di quest'ultimo, ma anche - come gia' accennato - il
tipo di sindacato sull'atto che impone il fermo (art. 113 Cost.).
    Nel presente giudizio sono state sollevate specifiche censure sul
difetto   di   motivazione   del   provvedimento   impugnato,  quanto
all'adozione  della  misura  di  autotutela conservativa in relazione
all'entita' del credito tributario, nonche' sulla connessa violazione
del  principio  di  proporzionalita'  dell'azione amministrativa (con
particolare  riferimento  al  profilo  di  necessarieta' della misura
ablatoria).
    Ove  si ritenesse l'istituto in esame un semplice mezzo di tutela
della  garanzia  patrimoniale  offerto  dal diritto comune, per farne
discendere  (come fanno le sezioni unite) la regola dell'attribuzione
delle  relative controversie all'a.g.o., simili profili del sindacato
giurisdizionale,    tipici    dei    provvedimenti    amministrativi,
resterebbero  esclusi  (altri  essendo  i  parametri  di legittimita'
rilevanti  nel  giudizio  di  opposizione  all'esecuzione o agli atti
esecutivi),  pur  a  fronte  della  rilevata  natura autoritativa del
potere  esercitato,  e  comunque della posizione non paritaria, ma di
supremazia,  che  la  pubblica  amministrazione (come ricordato dalla
Corte  costituzionale  nella  citata sentenza n. 67 del 1972) riveste
nel rapporto.
    In  conclusione, va quindi rilevato che appare non manifestamente
infondata  la  questione  di legittimita' costituzionale dell'art. 86
del d.P.R. n. 602 del 1973, nella parte in cui risulta interpretato -
secondo  il  diritto  vivente  -  nel  senso di attribuire al giudice
ordinario  la  giurisdizione  sulle  controversie in materia di fermo
tributario  di veicoli da esso previsto, sul presupposto della natura
non   autoritativa   del  potere  esercitato,  per  violazione  degli
artt. 24, 103 e 113 della Costituzione.
          1) d.P.R. 29 settembre 1973, n. 602.
              Disposizioni   sulla   riscossione  delle  imposte  sul
          reddito.
              Pubblicato  nella  Gazzetta  Ufficiale 16 ottobre 1973,
          n. 268,  S.O. n. 2.     Capo III - Disposizioni particolari
          in  materia  di  espropriazione  di  beni mobili registrati
          art. 86. Fermo di beni mobili registrati.
              «1.   -   Decorso   inutilmente   il   termine  di  cui
          all'art. 50,  comma 1,  il  concessionario puo' disporre il
          fermo  dei  beni  mobili  del  debitore  o  dei  coobligati
          iscritti   in   pubblici  registri,  dandone  notizia  alla
          direzione  regionale  delle  entrate  ed  alla  regione  di
          residenza.
              2.  -  Il  fermo  si  esegue  mediante  iscrizione  del
          provvedimento  che lo dispone nei registri mobiliari a cura
          del  concessionario,  che  ne  da altresi' comunicazione al
          soggetto nei confronti del quale si procede.
              3.   -   Chiunque  circola  con  veicoli,  autoscafi  o
          aeromobili  sottoposti  al  fermo e' soggetto alla sanzione
          prevista    dall'articolo   214,   comma 8,   del   decreto
          legislativo 30 aprile 1992, n. 285.
              4.  -  Con  decreto  del  Ministro  delle  finanze,  di
          concerto con i Ministri dell'interno e dei lavori pubblici,
          sono  stabiliti  le modalita', i termini e le procedure per
          l'attuazione di quanto previsto nel presente articolo».