La Corte di appello
    Ha  pronunciato  la  seguente ordinanza, nel processo a carico di
Chiado' Cutin Luigi Dario, nato a Cafasse il 25 aprile 1952, ivi res.
via  Monasrerolo n. 21, difeso dagli avv. Antonio Rossomando e Wilmer
Perga del Foro di Torino;
    Rilevato  che all'imputato era contestato in primo grado il reato
di  cui  all'art. 589 c.p. e che all'esito del giudizio abbreviato il
g.u.p.  presso il Tribunale di Torino con sentenza del 23 maggio 2003
lo assolveva perche' il fatto non sussiste;
    Rilevato  che  avverso  tale  sentenza presentavano appello sia i
difensori  delle  parti  civile  (genitori  e  fratello  del  defunto
Grassadonia  Antonio)  che  il  p.g.  chiedendo  i  primi che venisse
ritenuta  la responsabilita' dell'imputato per il reato ascrittogli e
che venisse condannato al risarcimento di tutti i danni derivati alle
parti  civili  ed  il  secondo la condanna dell'imputato per il reato
ascrittogli  alle pene di legge previa, ove ritenuto necessario dalla
corte, l'espletamento di perizia tecnica;
    Rilevato  che all'udienza del 10 maggio 2006 il p.g. ha ravvisato
non applicabile l'immediata conversione dell'atto di appello del p.g.
in  ricorso  in  cassazione e la contestuale conversione dello stesso
ricorso  in  appello  ai sensi dell'art. 580 c.p.p., come riformulato
dalla legge citata, per connessione con l'appello delle parti civili,
ed  ha chiesto che la Corte di appello pronunciasse ordinanza con cui
dichiarasse  rilevante e non manifestamente infondata la questione di
legittimita'   costituzionale  degli  artt. 593  c.p.p.  (cosi'  come
modificato  dall'art. 1,  legge  20 febbraio  2006, n. 46) e 10 della
stessa legge per contrasto con gli artt. 3 e 111 della Costituzione;
    Rilevato  che  la  difesa delle parti civili si e' associata alle
richieste del p.g. e la difesa dell'imputato si e' rimessa;

                        Osserva quanto segue

    1.   -  E'  necessario  valutare  la  questione  di  legittimita'
costituzionale  sollevata  dal  p.g.  presso  questa corte di appello
degli  artt. 593  c.p.p.,  come  modificato dalla legge n. 46/2006, e
dell'art. 10 commi primo, secondo e terzo della stessa legge.
    2.1.  - La voluntas legis e' indubbiamente nel senso indicato dal
p.g.,  cioe'  quella  di  precludere  in ogni caso all'accusa (p.m. o
p.g.)   la   facolta'   di   proporre  appello  avverso  sentenza  di
proscioglimento,  salva l'ipotesi che la stessa, nell'atto di appello
abbia  richiesto  l'assunzione  di  una  nuova  prova  sopravvenuta o
scoperta  dopo  il  giudizio  di  primo  grado  che il giudice reputi
decisiva (ipotesi quest'ultima che non ricorre nel caso di specie).
    Non  e'  sostenibile  la  tesi che l'appello proposto dall'accusa
contro  la  sentenza  di  assoluzione  emessa in primo grado, siccome
inammissibile  a  mente dell'art. 10 secondo comma legge citata, deve
automaticamente  essere  convertito  in ricorso per cassazione, salvo
poi  convertirlo  di  nuovo  in  appello  ex  art. 580 c.p.p., avendo
constatato a questo punto che contro la stessa sentenza possono dirsi
proposti  dei  mezzi  di  impugnazione  tra  loro  diversi  e  che e'
ravvisabile  la  connessione  di cui all'art. 12 c.p.p. tra i singoli
mezzi di impugnazione.
    2.2. - La chiarezza della voluntas legis non esclude tuttavia che
si  renda  ugualmente  necessario  interpretare  la norma transitoria
dell'art. 10  secondo  comma della legge citata, laddove prescrive al
giudice,  avanti il quale pende l'appello in seguito all'impugnazione
proposta dal p.g. prima dell'entrata in vigore della stessa legge, di
emettere   ordinanza   non   impugnabile   con  la  quale  dichiarare
l'inammissibilita'  dell'appello stesso; non esclude che, inoltre, si
renda anche necessario definire la portata e l'ambito di applicazione
della  norma dell'art. 10 terzo comma della stessa legge, che prevede
che entro quarantacinque giorni dalla data di entrata in vigore della
nuova normativa puo' essere proposto ricorso per cassazione contro le
sentenze  di  primo  grado;  non  esclude  che  si  debba, da ultimo,
definire  anche  l'applicabilita'  alla  presente  fattispecie  della
disposizione dell'art. 580 c.p.p.
    2.3.- La  corte e' dell'avviso che l'appello proposto ex art. 595
c.p.p.  debba  essere considerato inammissibile in forza dell'art. 10
secondo comma legge citata. Per altro verso non condivide la tesi che
fa  leva sopra il poco convincente argomento che non e' necessaria un
espressa  manifestazione  di volonta' dell'accusa di proporre ricorso
per  cassazione  nelle forme prescritte perche' tale volonta' si puo'
presumere  dalla  lettura dei motivi svolti nell'atto di appello che,
secondo l'assunto che si commenta, si deve considerare inammissibile:
tesi  che  avvia,  con  questo  primo  passo, la catena di successive
inferenze  tra  loro  strettamente  collegate  e consequenziali l'una
all'altra  delle quali si discute. Crede sia pertinente obiettare che
non  si puo' dedurre senza incorrere in una forzatura ermeneutica che
l'appello proposto dal p.g. nei confronti dell'imputato Chiado' Cutin
Luigi  Dario  in  virtu'  della  declaranda inammissibilita', si deve
intendere  convertito  automaticamente  in ricorso in cassazione e si
deve,  infine, ritenere di nuovo convertito in appello in forza della
disposizione   dell'art. 580  c.p.p.,  stante  la  sussistenza  della
connessione  ex  art. 12  della  posizione  dello stesso imputato con
quella  delle  parti  civili  i  cui difensori hanno proposto appello
avverso la sentenza di assoluzione emessa in primo grado.
    L'interpretazione  ora  enunciata,  oltre che assai macchinosa e,
per la verita', poco lineare, e' palesemente fuorviante.
    Essa  presuppone  infatti  che, in forza della norma dell'art. 10
secondo  comma  legge  citata,  l'appello presentato dal p.g. avverso
l'assoluzione  dell'imputato  debba, almeno in una prima fase, essere
considerato  inammissibile  e  che  questa constatazione dia, quindi,
causa   alla  non  breve  serie  di  conseguenze  prima  riepilogata.
Presuppone,  pertanto,  che  la  norma  ora  richiamata sia esente da
profili  di  illegittimita'  costituzionale e debba per questo motivo
essere   applicata   riconoscendo   virtualmente   l'inammissibilita'
dell'appello,  salva  la concatenazione delle successive inferenze di
cui  si e' detto che conduce, infine, ad un esito paradossalmente del
tutto  opposto,  cioe' all'ammissibilita' dell'appello per effetto di
una duplice conversione.
    Il  presupposto da cui prende avvio il ragionamento criticato, in
realta', non e' corretto.
    Occorre  osservare  che  la  sola  esposizione  della tesi che si
commenta  e'  sufficiente  a  porre  in  risalto  che la questione di
legittimita' costituzionale sollevata dal p.g. presso questa corte di
appello,  riposando  sopra  l'assunto  che le norme impugnate sono in
contrasto  con  le  disposizioni  degli  artt. 3  e  111  della Carta
costituzionale,  e'  chiaramente  rilevante, perche', se ritenuta non
manifestamente     infondata,    e'    suscettibile    di    tradursi
nell'affermazione     dell'incostituzionalita'    delle    richiamate
disposizioni  di diritto transitorio; sicche' dunque permetterebbe di
argomentare,  con  specifico  riferimento al caso che interessa, che,
tra le altre conseguenze della pretesa illegittimita' costituzionale,
non    e'   consentita   la   successiva   conversione   dell'appello
inammissibile  in  ricorso  per  cassazione  e,  per  effetto  di  un
passaggio ulteriore, di nuovo la sua conversione in appello.
    E'  innegabile che la tesi esposta urta contro l'osservazione che
la  norma  dell'art. 580  c.p.p.  contempla  l'ipotesi che avverso la
stessa  sentenza  siano  proposti  dei diversi mezzi di impugnazione,
mentre  invece  nella  fattispecie  che ne occupa sono stati proposti
dalle  parti  solamente  dei distinti atti di appello - uno dei quali
deve  essere  dichiarato  inammissibile  a mente dell'art. 10 secondo
comma  legge  citata  -  e non dei diversi mezzi di impugnazione; che
urta,  inoltre,  contro  il  rilievo  che  il p.g. non ha manifestato
espressamente  la volonta' che l'appello deve ritenersi convertito in
ricorso  per  cassazione  per  l'eventualita'  che  esso debba essere
considerato   inammissibile;   che   urta,   da   ultimo,  contro  la
considerazione  che,  se  la  menzionata disposizione fosse realmente
viziata  da  illegittimita'  costituzionale,  sarebbe per cio' stesso
superfluo  esplorare  la possibilita' della duplice conversione sopra
prospettata.
    E'  quindi  a  questo  punto necessario affrontare il quesito che
impone  di  stabilire  se la questione di legittimita' costituzionale
che  il p.g. ha sottoposto all'attenzione della corte di appello sia,
o non sia, manifestamente infondata, poiche' e' indubbia la rilevanza
della predetta questione nel presente giudizio.
    3.1.  -  In  verita', la questione di legittimita' costituzionale
intorno  alla  quale  verte  la richiesta formulata dal p.g. non puo'
essere   giudicata   manifestamente   infondata.   Lo  dimostrano  le
considerazioni qui di seguito sintetizzate.
    La  Carta  costituzionale,  come e' notorio, specifica i principi
generali   ai  quali  si  deve  adeguare  la  normativa  processuale.
Prescrive  dunque, con il menzionato art. 111 secondo comma, che ogni
processo  si svolge nel contraddittorio delle parti, in condizioni di
parita',  davanti  a giudice terzo ed imparziale. Soggiunge, inoltre,
che la legge ne assicura la ragionevole durata.
    3.2.    -    Costituisce    quindi   un   necessario   corollario
dell'enunciazione sopra riportata, in quanto la condizione di parita'
costituisce  uno  dei  principi  che ispirano il giusto processo, che
tale  condizione  deve  essere assicurata con rigore, poiche' si deve
ritenere  che la tutela dell'accennata condizione di parita' realizzi
il   perseguimento   di   un  valore  a  cui  e'  riconosciuto  rango
costituzionale.
    Occorre  dunque  risolvere  obbligatoriamente, a questo punto, il
quesito  che  impone di chiarire se, in quanto all'imputato spetta il
diritto   di  appellare  la  sentenza  di  condanna,  la  correlativa
possibilita'  per  l'organo  del  p.m. di proporre appello avverso le
sentenze   di   assoluzione  rappresenta  un  modo  non  rinunciabile
attraverso   il   quale   la  predetta  condizione  di  parita'  deve
immancabilmente trovare concreta attuazione.
    La  corte  di  appello  reputa  di  dare  al quesito una risposta
affermativa.
    E' vero che si e' autorevolmente osservato che l'attuazione della
condizione  di  parita'  deve avvenire nel processo mediante il mezzo
costituito   dal   contraddittorio  delle  parti,  e  non  attraverso
l'attribuzione  al  p.m.  di una facolta' di impugnazione altrettanto
estesa  quanto  quella che spetta all'imputato avverso le sentenza di
condanna. Tuttavia l'argomento addotto non e' decisivo.
    Appare  invece conforme alla portata che deve essere riconosciuta
alla  ricordata  condizione  di  parita'  ed  alla  finalita'  di non
vulnerare,  appunto, la tutela dell'interesse costituzionale al quale
essa   e'   preordinata,   osservare  che  non  si  puo'  aderire  ad
un'accezione  cosi'  angusta  del dettato dell'art. 111 secondo comma
della  Costituzione  senza  che,  in  realta',  venga pregiudicato un
aspetto   essenziale   della   stessa   parita'  che  il  legislatore
costituzionale  vuole  che  sia  invece  garantita  senza  riserve  o
eccezioni.
    3.3.   -  Aderendo  all'opinione  contraria,  sarebbe  gravemente
alterata  la  regolarita'  del  processo penale. In esso, infatti, si
devono   confrontare   le  ragioni  di  parti  che,  in  quanto  sono
depositarie  di  interessi  contrastanti  che  la Costituzione tutela
attribuendo  loro  una  pari  rilevanza,  non possono essere poste in
posizioni  di  cosi'  accentuata  ineguaglianza  di trattamento quale
quella  che  deriva dalla previsione di inammissibilita' dell'appello
del p.m. contro le sentenze di assoluzione.
    Occorre  invero  rilevare  che  nel  processo il p.m. esercita la
pretesa  dello  Stato  alla punizione del colpevole che, a sua volta,
deve  essere  messa  in  relazione  con  il  principio costituzionale
dell'obbligatorieta'  dell'azione  penale  di  cui all'art. 112 della
Costituzione.
    Orbene,  mentre  l'imputato con la modifica della normativa della
cui legittimita' costituzionale ora si controverte rimane titolare ad
ogni  effetto  del  potere  di  impugnare  la  sentenza di condanna a
garanzia  della  pretesa  di essere ritenuto innocente, il p.m. viene
invece privato di un mezzo di primaria importanza al fine di ottenere
che  venga  affermata  nel  processo  la  pretesa  dello  Stato  alla
punizione  del  colpevole,  sebbene  anche questa pretesa goda di una
tutela  costituzionale che e' di grado non minore di quella che viene
riconosciuta all'opposto interesse dell'imputato.
    La  disparita'  di  trattamento  che ne deriva si pone percio' in
contrasto con l'art. 111 secondo comma della Costituzione nella parte
in cui prevede che il processo si svolga in condizione di parita' tra
le  parti, cioe' in una condizione di diritto che assicuri a ciascuna
parte  processuale  eguali  mezzi per raggiungere le finalita' che ad
ognuna di esse spetta di perseguire.
    3.4. - Non rileva che la normativa di cui si discute riduca anche
i casi in cui le sentenze di proscioglimento possono essere appellate
dall'imputato   poiche'   esclude   dall'appello   le   sentenze   di
proscioglimento pronunciate perche' il fatto non costituisce reato, o
perche'  non  e  punibile  o  perche'  non e' procedibile. E' infatti
innegabile che la riduzione della facolta' dell'imputato di appellare
in  tal modo operata non bilancia l'esclusione in toto del potere del
p.m. di appellare qualunque sentenza di proscioglimento.
    Non  rileva nemmeno che altre disposizioni in materia processuale
abbiano  in  passato  limitato  la  facolta'  del  p.m.  di  proporre
impugnazione  e  che,  in  particolare, l'art. 443 terzo comma c.p.p.
abbia  escluso  la  facolta'  del  p.m.  di  appellare la sentenza di
condanna pronunciata a seguito di giudizio abbreviato.
    Infatti  la  Corte  costituzionale  ha  ritenuto  con l'ordinanza
n. 421/2001 che detta ultima limitazione non fosse in contrasto con i
principi  stabiliti  nell'art. 111 della Costituzione con motivazione
che non puo' essere estesa al caso in esame.
    E'   noto   che,   con   tale  pronuncia,  ha  precisato  che  la
Costituzione, mentre prevede la parita' delle parti nel processo, non
attribuisce necessariamente a queste identiche facolta' nel processo.
Tuttavia   e'   necessario  soggiungere  che  l'ordinanza  citata  ha
confermato,  nell'occasione,  che  una disparita' di trattamento puo'
essere  ragionevolmente  giustificata quando siano contemporaneamente
preservate  la  speciale  posizione  del  p.m.  e  dell'imputato e le
esigenze  che  sono  connesse  con  la corretta amministrazione della
giustizia.  Infatti  ha  chiarito  che  l'esigenza  di  assicurare la
ragionevole   durata  del  processo  trova  attuazione  nel  giudizio
abbreviato,  poiche'  questo  giudizio  consente  di utilizzare senza
procedere  al filtro del dibattimento il materiale di prova acquisito
dal  p.m. nelle indagini preliminari. Conseguentemente la rinuncia da
parte  dell'imputato  al  contraddittorio nell'assunzione delle prove
giustifica,  alla  stregua  di  quanto  ha  ritenuto il Giudice delle
leggi,  la  disposizione  dell'art. 443  terzo  comma  c.p.p. che, in
ossequio all'esigenza di bilanciare divergenti interessi, esclude che
il  p.m.  possa appellare la sentenza di condanna emessa a seguito di
giudizio abbreviato.
    Nel  caso  in  esame, per contro, l'esclusione della facolta' del
p.m.  di presentare appello contro le sentenze di proscioglimento non
trova   nessun   corrispettivo   in   un  correlativo  atto  compiuto
dall'imputato  che  abbia  l'effetto  di contribuire alla ragionevole
durata del processo.
    L'esclusione  della  facolta'  di  appellare  in  questo caso non
trova,  pertanto,  giustificazione  ed  appare  quindi manifestamente
irragionevole,   cosi'   violando   il   disposto  dell'art. 3  della
Costituzione.
    3.5.  - Un distinto profilo sotto il quale la normativa esaminata
appare  causa  di  una  possibile  illegittimita' costituzionale deve
essere ricercato nella disparita' di trattamento che viene introdotta
tra il p.m. e la parte civile. Pare infatti che a quest'ultima parte,
attraverso   la   soppressione   nell'art. 576   primo  comma  c.p.p.
dell'inciso  con  il  mezzo  previsto  per il pubblico ministero, sia
stato  mantenuto  il  potere di appellare, come si evince dal rilievo
che  non  e' stata modificata la disposizione dell'art. 75 c.p.p. che
prevede  il  trasferimento  dell'azione  civile dal processo civile a
quello penale.
    Si  perviene  in  tal modo all'assurda conseguenza che alla parte
civile,  malgrado  persegua degli interessi eminentemente privati, e'
garantito  un  potere  di appello che viene invece sottratto al p.m.,
sebbene questo sia titolare della pretesa punitiva dello Stato, cioe'
di  una  pretesa  che certamente non e' di minore rilievo ai fini del
corretto perseguimento dei principi del giusto processo.
    3.6. - All'opposto di quanto si potrebbe pensare sulla base di un
esame  superficiale,  anche il principio della ragionevole durata del
processo  viene leso dalla norma di cui si eccepisce l'illegittimita'
costituzionale.
    Infatti,  solo  in apparenza essa si traduce nell'eliminazione di
un  grado di giudizio nei casi in cui, secondo la disposizione che e'
stata  modificata,  il  p.m.  poteva  presentare  appello  avverso la
sentenza di proscioglimento. Nella realta', invece, e' stata prevista
una disciplina eccessivamente complessa in forza della quale la Corte
di  cassazione e' chiamata a valutare, a norma dell'art. 606 lett. e)
c.p.p., la mancanza, la contraddittorieta' o la manifesta illogicita'
della   motivazione,   quando   il   vizio   risulta  dal  testo  del
provvedimento   impugnato   ovvero   da   altri   atti  del  processo
specificamente indicati nei motivi di gravame.
    Non e' fuori luogo osservare che l'estensione del sindacato della
Corte di cassazione alla conformita' al fatto della motivazione della
sentenza  di proscioglimento, mentre altera la natura del giudizio di
legittimita'  che viene cosi' dilatato incongruamente fino a valutare
i   fatto   con   stravolgimento   della   funzione  della  corte  di
legittimita',  per  altro  verso  costituisce un'innovazione che puo'
comportare  un tale aggravio dei tempi del processo da concretare una
lesione del principio della ragionevole durata.
    E',  in altre parole, ragionevole pensare che dall'estensione del
sindacato  della  corte di legittimita' discendera' nell'applicazione
concreta, quale prevedibile conseguenza, un dilatazione dei tempi del
processo, cosi' causando una distinta lesione ad uno dei principi del
giusto  processo  che sono tutelati dall'art. 111 secondo comma della
Costituzione.
    La  questione  di  legittimita'  costituzionale non e', pertanto,
manifestamente  infondata  e  deve dunque essere sottoposta al vaglio
della Corte costituzionale.