ha pronunciato la seguente

                              Ordinanza

nel  giudizio  di  legittimita'  costituzionale dell'art. 2634 codice
civile,  promosso con ordinanza del 10 maggio 2004 dal giudice per le
indagini  preliminari del Tribunale di Forli' nel procedimento penale
a  carico  di  Pier  Paolo  Cimatti  ed altra, iscritta al n. 744 del
registro  ordinanze  2004 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della
Repubblica n. 39, 1ª serie speciale, dell'anno 2004;
    Visto  l'atto  di  intervento  del  Presidente  del Consiglio dei
ministri;
    Udito  nella  Camera di consiglio del 22 novembre 2006 il giudice
relatore Franco Gallo;
    Ritenuto che il giudice per le indagini preliminari del Tribunale
di  Forli',  a  seguito  dell'opposizione  proposta,  quale  «persona
offesa» dal reato, dal socio di minoranza di una societa' di capitali
avverso   la  richiesta  del  pubblico  ministero  di  archiviare  un
procedimento  penale  promosso  nei confronti di due persone indagate
per  i  reati  di  cui  agli artt. 2634 del codice civile (Infedelta'
patrimoniale)  e  640  del  codice penale (Truffa), ha sollevato - in
riferimento all'art. 3 della Costituzione - questione di legittimita'
costituzionale dell'art. 2634 cod. civ., nella parte in cui «esclude,
dal novero dei soggetti attivi del reato, i soci»;
        che,  riferisce  il  rimettente,  a  seguito  di  un  esposto
presentato  dal  socio di minoranza di una societa' a responsabilita'
limitata,  erano  stati  iscritti  nel  registro degli indagati per i
suddetti  reati  l'amministratore, socio della stessa societa', e sua
madre, titolare di una quota, che, unita alla partecipazione detenuta
dal figlio, raggiungeva la maggioranza del capitale sociale;
        che,  secondo  quanto  affermato  nell'esposto  - prosegue il
rimettente  -, l'amministratore, pur avendo un interesse in conflitto
con  quello  della  societa', aveva concesso in affitto alla madre un
bene  sociale, «in spregio alla situazione finanziaria della societa'
e  senza  alcuna  garanzia  sulla  durata  e  sulla  percezione delle
entrate,  a  causa  del tipo di attivita' e della facolta' di recesso
concessa al «conduttore»»;
        che, sempre secondo il giudice a quo, la notizia di reato era
stata  iscritta  nel  registro degli indagati senza l'indicazione del
concorso  esterno  della socia, ai sensi dell'art. 110 cod. pen., nel
reato  di  infedelta' patrimoniale ascritto all'amministratore e che,
pertanto,  detta  socia doveva ritenersi «astrattamente responsabile»
del reato «a titolo proprio, e non di concorso»;
        che tuttavia, osserva il rimettente, il citato art. 2634 cod.
civ.  esclude  dal novero dei soggetti attivi del reato il socio che,
pur  versando in conflitto di interessi e concorrendo a deliberare un
atto  di  disposizione  dei  beni  sociali,  non riveste la carica di
amministratore, direttore generale o liquidatore della societa';
        che,   per   il   giudice   a   quo,  tale  esclusione  della
responsabilita'  penale  dei  soci  sarebbe irragionevole, «in quanto
discrimina  la  condotta  di  chi  «concorre a deliberare» un atto di
disposizione  di  beni  sociali  rivestendo una carica amministrativa
[...]  rispetto  a  quella di chi», essendo anch'egli portatore di un
interesse   in  conflitto  con  quello  della  societa',  «egualmente
concorre  a  deliberare  un  atto  di  disposizione»  di  tali  beni,
«valendosi della titolarita' di quote sociali»;
        che,  osserva  ancora  il  giudice a quo, la disposizione che
disciplina  l'impugnabilita'  delle delibere sociali per conflitto di
interessi  (art. 2373  cod.  civ.)  individua quale ipotesi tipica di
tale  conflitto  la «deliberazione approvata con il voto determinante
di  soci che abbiano [...] un interesse in conflitto con quello della
societa», sicche' non si comprenderebbero «le ragioni per le quali la
tutela  penale  del conflitto di interessi nel diritto societario sia
cosi'  irrazionalmente  disgiunta  dai  relativi  fondamenti posti in
campo civile»;
        che,   ad  avviso  del  rimettente,  posto  che  «il  fattore
scatenante  del  conflitto  di  interessi giuridicamente rilevante e'
l'incidenza  dell'interesse  personale  sul  patrimonio  sociale e la
possibilita'  di  controllare  una  societa»,  dovrebbe ritenersi che
«anche, e soprattutto, i soci (quando hanno o concorrono a formare la
maggioranza  del  capitale  nelle  societa' con scopo di lucro) vanno
considerati e sanzionati quali soggetti che possono interferire nella
gestione sociale (ossia, «concorrere a deliberare» atti sociali)»;
        che,  secondo  il  giudice a quo, la procedibilita' a querela
della  persona  offesa  -  «ossia  [...]  della  societa» -, prevista
dall'art. 2634  cod.  civ.,  comporterebbe  un  ulteriore  aspetto di
irragionevolezza  della  norma che esclude i soci dai soggetti attivi
del  reato,  in  quanto l'amministratore, legale rappresentante della
societa' danneggiata, potrebbe proporre querela solo nei confronti di
se stesso, quale soggetto attivo del medesimo reato;
        che tuttavia, osserva il giudice per le indagini preliminari,
a  detta  irragionevolezza  potrebbe  ovviarsi  «forzando  il  tenore
letterale  dell'art. 2634  cod.  civ.»  e  ritenendo  «legittimato  a
proporre  querela  anche  il  singolo  socio»,  alla  stregua  di una
interpretazione di tale articolo prospettata nel giudizio a quo e che
ha dato luogo ad una «questione [...] pure aperta»;
        che  e'  intervenuto  in giudizio il Presidente del Consiglio
dei  ministri,  rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello
Stato,  chiedendo  che  la  questione  sia  dichiarata manifestamente
inammissibile o manifestamente infondata;
        che  la  difesa  erariale  eccepisce l'inammissibilita' della
questione,  perche'  il  rimettente non ha indicato le ragioni che lo
hanno indotto a non trasmettere gli atti al pubblico ministero per la
formulazione  dell'imputazione  a  titolo di concorso nel reato, come
gli  era  consentito  dall'art. 409, comma 5, del codice di procedura
penale;
        che, secondo l'Avvocatura, la questione sarebbe inammissibile
anche  perche'  volta  ad  introdurre una nuova categoria di soggetti
attivi  in  una  fattispecie  di  reato  proprio, in contrasto con il
principio di stretta legalita' delle figure incriminatici, desumibile
dall'art. 25 Cost.
        che,   nel   merito,  la  questione  concernente  la  mancata
inclusione  del  socio  tra  i  soggetti  attivi  del  reato  di  cui
all'art. 2634  cod.  civ.  sarebbe comunque manifestamente infondata,
perche'  spetta  solo  al  legislatore  stabilire quali comportamenti
illeciti meritano di essere sanzionati sul piano penale;
        che in ogni caso, prosegue l'Avvocatura, non risponde al vero
che  il  possesso  di  quote  sociali  influisce sulla gestione della
societa' in misura pari o maggiore di quanto influisca la titolarita'
della  carica  sociale di amministratore, poiche' e' l'amministratore
ad  occuparsi  della  gestione  sociale,  con l'unica eccezione delle
delibere  che la legge o lo statuto riservano all'assemblea dei soci,
e  pertanto  deve  ritenersi  ragionevole  la  scelta  legislativa di
considerare  l'infedelta'  dell'amministratore come un fatto idoneo a
pregiudicare  l'interesse sociale in misura maggiore del conflitto di
interessi   in  cui  versi  un  socio  in  occasione  delle  delibere
assembleari;
        che,  ad  avviso  della  difesa  erariale,  sarebbe parimenti
infondata   anche   la  questione  concernente  la  previsione  della
procedibilita'   a  querela  del  suddetto  reato  e  la  conseguente
impunita' dell'amministratore, paventata dal giudice a quo;
        che   infatti,   per  la  difesa  erariale,  l'amministratore
giudiziario  nominato ai sensi dell'art. 2409 cod. civ. puo' proporre
querela  nei  confronti  dell'amministratore  infedele, il quale puo'
anche essere revocato mediante una delibera dei soci;
        che  inoltre,  sempre per l'Avvocatura dello Stato, posto che
la  norma  censurata configura un reato di danno, non puo' escludersi
che  i  singoli soci siano persone offese dal reato, in ragione della
diminuzione  del  valore  della  loro quota di partecipazione sociale
subita  in conseguenza del danno patrimoniale cagionato alla societa'
dall'amministratore  infedele  e  che,  quindi, gli stessi soci siano
titolari del diritto di querela.
    Considerato  che  il  giudice  per  le  indagini  preliminari del
Tribunale   di   Forli'   dubita,  in  riferimento  all'art. 3  della
Costituzione,  della  legittimita'  costituzionale dell'art. 2634 del
codice  civile,  nella  parte  in  cui  irragionevolmente esclude dal
novero  dei  soggetti  attivi  del reato di infedelta' patrimoniale i
soci  che,  in  conflitto di interessi con la societa', concorrano in
modo  determinante  a  deliberare atti di disposizione del patrimonio
sociale;
        che,   ad   avviso  del  rimettente,  la  norma  censurata  -
assoggettando  a  sanzione  penale  soltanto  «gli  amministratori, i
direttori  generali  e  i  liquidatori,  che,  avendo un interesse in
conflitto  con quello della societa', al fine di procurare a se' o ad
altri un ingiusto profitto o altro vantaggio, compiono o concorrono a
deliberare   atti   di  disposizione  dei  beni  sociali,  cagionando
intenzionalmente  alla  societa'  un  danno patrimoniale» - limita in
modo  irragionevole  i  soggetti attivi del reato, perche' esclude la
punibilita'   del   socio   nel   caso   in   cui   questo,  al  pari
dell'amministratore, concorra a deliberare un atto di disposizione di
beni sociali in conflitto di interessi con la societa';
        che  deve  preliminarmente  rilevarsi  che,  contrariamente a
quanto  ritenuto  dall'Avvocatura generale dello Stato, il rimettente
non  ha  sollevato  alcuna  questione  di legittimita' costituzionale
riguardante  la  procedibilita'  a  querela,  anziche' d'ufficio, del
reato di cui all'art. 2634 cod. civ;
        che  inducono  a  tale conclusione i seguenti rilievi: a) nel
dispositivo  dell'ordinanza  di  rimessione non vi e' traccia di tale
questione;   b)   nella  motivazione  della  medesima  ordinanza,  la
procedibilita'   del  reato  di  infedelta'  patrimoniale  a  querela
dell'amministratore, quale rappresentante della societa' danneggiata,
costituisce  solo un argomento addotto a sostegno della necessita' di
rendere  punibile anche la condotta di soci che non rivestano cariche
sociali;  c) il rimettente non solo osserva che la questione circa la
legittimazione  del  singolo  socio  a proporre querela e' stata gia'
prospettata  nel  giudizio a quo e deve considerarsi ancora «aperta»,
ma  addirittura  qualifica  espressamente  il socio di minoranza come
«persona  offesa»  dal  reato, considerandolo, percio', legittimato a
proporre la querela e l'opposizione alla richiesta di archiviazione;
        che  la questione concernente la mancata inclusione del socio
tra  i  soggetti  attivi  del reato di cui all'art. 2634 cod. civ. e'
manifestamente  inammissibile  sia  per  difetto di motivazione sulla
rilevanza  sia  perche'  il  rimettente  richiede  a questa Corte una
pronuncia additiva in malam partem in materia penale;
        che,  quanto al primo motivo di inammissibilita', l'ordinanza
e' priva di motivazione in ordine alle ragioni per le quali, a fronte
della  richiesta  di  archiviazione  di  una  notizia  di reato e pur
ritenendo  possibile  - nella specie - la configurazione del concorso
esterno  nel  reato,  il rimettente non abbia, come era sua facolta',
restituito  gli atti al pubblico ministero ai sensi dell'art. 409 del
codice    di    procedura    penale,   disponendo   la   formulazione
dell'imputazione  nei confronti della socia, a titolo di concorso nel
reato proprio dell'amministratore;
        che,   quanto  all'altro  motivo  di  inammissibilita',  osta
all'esame  nel  merito  della questione il secondo comma dell'art. 25
Cost.,  il  quale  -  per  costante  giurisprudenza di questa Corte -
nell'affermare il principio secondo cui nessuno puo' essere punito se
non in forza di una legge entrata in vigore prima del fatto commesso,
esclude  che la Corte costituzionale possa introdurre in via additiva
nuovi  reati  o che l'effetto di una sua sentenza possa essere quello
di  ampliare  o aggravare figure di reato gia' esistenti, trattandosi
di  interventi  riservati  in via esclusiva alla discrezionalita' del
legislatore  (ex plurimis, sentenze n. 394 del 2006; n. 161 del 2004;
n. 49 del 2002; n. 580, n. 508 e n. 183 del 2000; n. 411 del 1995).
    Visti  gli articoli 26, secondo comma, della legge 11 marzo 1953,
n. 87,  e  9,  comma 2, delle norme integrative per i giudizi davanti
alla Corte costituzionale.