LA CORTE DI APPELLO Ha pronunciato la seguente ordinanza nel procedimento a carico di Ardizzoni Elvio, nato a Ferrara il 24 dicembre 1961, imputato del delitto di cui all'art. 589 c.p. commesso in danno di Buriani Stefano, in Ferrara l'8 aprile 1999. Il tribunale di Ferrara ha assolto Ardizzoni Elvio dal delitto di omicidio colposo contestatogli con riferimento ad un infortunio sul lavoro avvenuto in un cantiere edile, nel quale erano in corso i lavori di costruzione di un lotto di villette e di posa in opera dei tubi in PVC destinati alle fognature. Ardizzoni era il gruista della ditta addetta alla costruzione degli edifici, ditta della quale e' titolare Grimaldi Giancarlo. Buriani, la vittima, era socio dell'impresa che aveva ottenuto in appalto i lavori di posa in opera delle fognature. Il giorno dell'incidente, un camion della ditta fornitrice dei tubi in PVC arrivo' nel cantiere per consegnare a Buriani il materiale da quest'ultimo ordinato. Il conducente del camion, dopo aver parcheggiato, abbasso' una delle sponde dell'automezzo per consentire lo scarico della merce, mentre Buriani chiese al gruista Ardizzoni di aiutarlo nell'operazione. Mentre questa era in corso, un pacco di tubi si apri, a causa della rottura delle reggette di contenimento, ed un tubo, cadendo dall'alto, colpi' Buriani alla testa, provocandone il decesso. L'imputato ha sostenuto che, quando il fatto avvenne, egli aveva appena azionato il braccio della gru per metterlo in posizione sul carico e che, essendo la sua vista ostruita dalla sagoma del camion, egli non vide come l'incidente avvenne. Non ci furono testimoni oculari del fatto. Il pubblico ministero ha ricostruito l'incidente secondo le indicazioni del proprio consulente tecnico, che ha addebitato l'incidente ad un'erronea imbracatura del pacco dei tubi da parte del gruista. Quest'erronea imbracatura avrebbe prodotto la rottura delle reggette di contenimento del pacco, nel momento in cui questo fu sollevato verso l'alto dal gancio della gru. La difesa, supportata dal proprio consulente tecnico, sostiene che le reggette si erano rotte durante il trasporto, a causa delle vibrazioni del camion e dell'instabilita' del carico. Il pacco dei tubi si sarebbe aperto progressivamente da solo, una volta abbassata la sponda del camion e, poiche' si trattava del pacco collocato sopra tutti gli altri, il tubo da esso fuoriuscito e caduto sul capo di Buriani avrebbe avuto sufficiente forza, precipitando, per cagionare alla vittima le lesioni mortali contestate. Secondo questa ricostruzione, dunque, l'incidente avvenne prima che la gru avesse agganciato il pacco dei tubi e l'imputato e' estraneo a qualsiasi responsabilita'. Si e' costituita in giudizio, quale parte civile, la signora Boschetti Roberta, moglie della vittima, che agisce in proprio e quale madre del figlio minorenne Buriani Nicola. Grimaldi Giancarlo, datore di lavoro di Ardizzoni, e' stato citato in giudizio come responsabile civile. All'esito del giudizio di primo grado, il tribunale, sentiti i testi ed i consulenti tecnici delle parti, ha assolto l'imputato osservando che il consulente tecnico del pubblico ministero, nel corso dell'esame dibattimentale, non ha escluso che l'incidente potesse essersi svolto diversamente da quanto da lui, in precedenza, sostenuto; cosicche' ne risulta rafforzata la plausibilita' della ricostruzione dell'infortunio fornita dalla difesa. Nell'assumere questa decisione, il giudice ha disatteso la richiesta, pur avanzata dalla parte civile nel corso del dibattimento, di disporre una perizia sulle cause dell'incidente. Contro la sentenza, hanno proposto appello il procuratore generale e la parte civile. Entrambi si sono doluti dell'assoluzione dell'imputato ed, il primo, ai fini penali, la seconda, per gli effetti civili, hanno chiesto la riforma della sentenza impugnata, previa parziale rinnovazione dell'istruzione dibattimentale, con disposizione di una perizia per ricostruire la dinamica dell'infortunio. Il processo d'appello, chiamato all'udienza del 20 gennaio 2006, e' stato rinviato alla data odierna per un difetto di citazione del responsabile civile. Nelle more, il Parlamento ha approvato, ed oggi entra in vigore, la legge 20 febbraio 2006, n. 46, sull'inappellabilita' delle sentenze di proscioglimento. Con memoria depositata fuori udienza in data 1° marzo 2006, il procuratore generale eccepisce l'illegittimita' costituzionale delle modifiche introdotte dalla nuova legge agli artt. 593, commi 1 e 2, 606, comma 1, lett. e), c.p.p., nonche' dell'art. 10, legge n. 46/2006. Risultano violati - ad avviso del procuratore generale - gli artt. 3, 111 e 112 della Costituzione. All'odierna udienza, il procuratore generale ha insistito sulla preliminare questione di legittimita' costituzionale presentata, rilevando profili di illegittimita' costituzionale della nuova normativa anche rispetto all'art. 24 Cost. La parte civile si e' associata alle questioni dedotte dal pubblico ministero ed ha sollevato, dal canto suo, questione di legittimita' costituzionale dell'art. 576 c.p.p., come novellato, per violazione degli artt. 3, 24, e 111 Cost., in relazione alla lesione dei suoi diritti ad opera della nuova normativa. Il difensore dell'imputato ha chiesto di dichiarare irrilevanti e manifestamente infondate le questioni dedotte. Esse sarebbero irrilevanti perche', prima di affrontarle, questa corte dovrebbe decidere se ammettere, o no, la parziale rinnovazione dell'istruzione dibattimentale, decidendo sulla richiesta di perizia degli appellanti; e manifestamente infondate perche', da un lato, la posizione dell'imputato e quella del pubblico ministero non sono omologabili, dovendosi evitare che lo Stato persegua ripetutamente e ostinatamente il fine di punire chi e' gia' stato prosciolto una volta e, dall'altro, perche' la parita' di condizioni tra le parti di cui all'art. 111 Cost. non significa anche parita' di facolta', tant'e' che l'art. 443 c.p.p. stabiliva gia' delle limitazioni all'appello della pubblica accusa contro le sentenze emesse in sede di giudizio abbreviato. Ad avviso della corte, e' irrilevante la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 606, comma 1, lett. e), c.p.p., prospettata dal procuratore generale. Nel presente caso, infatti, anche se si dovessero applicare le norme della nuova disciplina della cui conformita' alla Costituzione il procuratore generale dubita, la corte dovrebbe, comunque, limitarsi all'applicazione degli arti 593 c.p.p. e 10, legge n. 46/2006, con declaratoria d'inammissibilita' degli appelli, riguardando l'art. 606 c.p.p. i casi del ricorso alla Corte di cassazione. Al contrario, le altre questioni di legittimita' costituzionale sollevate dal procuratore generale, e la questione prospettata dalla parte civile sono rilevanti e non manifestamente infondate, nei termini e nei limiti che seguono. E, cio', per le ragioni sostenute dalla pubblica e dalla privata accusa, e per le argomentazioni che il collegio ritiene di dover proporre, insieme ad esse, d'ufficio. Andando per gradi, si osserva che il nuovo art. 593 c.p.p., prima che il Presidente della Repubblica presentasse alle Camere i propri rilievi d'incostituzionalita', si limitava a prevedere l'appellabilita', da parte dell'imputato e del pubblico ministero, delle sole sentenze di condanna, cosi' escludendo, ex adverso, l'appellabilita' delle decisioni di proscioglimento. Nella nuova stesura, queste ultime sono appellabili, ma nelle sole «ipotesi di cui all'art. 603, comma 2, se la nuova prova e' decisiva». L'art. 10 della legge n. 46/2006 rende applicabili le modifiche introdotte alle norme del codice di rito anche ai procedimenti in corso alla data d'entrata in vigore della legge. Il secondo comma della norma precisa che: «L'appello proposto contro una sentenza di proscioglimento dall'imputato o dal pubblico ministero prima della data di entrata in vigore della presente legge viene dichiarato inammissibile con ordinanza non impugnabile». Il terzo comma concede quarantacinque giorni dall'ordinanza d'inammissibilita' per proporre ricorso per cassazione contro le sentenze di primo grado. La rilevanza, nel presente caso, della questione di legittimita' costituzionale di questi due articoli e' palese. Gli appelli del procuratore generale e della parte civile sono stati proposti prima dell'entrata in vigore della legge n. 46/2006. Con riferimento al primo di questi gravami, si osserva che, se l'art. 10, comma 2, cit., deve interpretarsi nel senso che - per i processi in corso, con appello gia' presentato - l'impugnazione del pubblico ministero va, in ogni caso, dichiarata inammissibile (salva la possibilita' del ricorso per cassazione entro quarantacinque giorni), la corte dovrebbe dichiarare inammissibile l'appello proposto e non potrebbe giudicare nel merito. Ma anche se si accede ad una lettura, per cosi' dire, coordinata tra il novellato art. 593 c.p.p. e l'art. 10, legge n. 46/2006, e si ritiene che si salvino gli appelli proposti dal pubblico ministero contro le sentenze di proscioglimento, nelle ipotesi oggi previste dal secondo comma dell'art. 593, il risultato non cambia. Recita, infatti, quest'ultima norma che: «... il pubblico ministero (puo) appellare contro le sentenze di proscioglimento nelle ipotesi di cui all'art. 603, comma 2, c.p.p., se la nuova prova e' decisiva». Tale ultima disposizione si riferisce ai casi di «prove sopravvenute o scoperte dopo il giudizio di primo grado». Nel nostro caso, la perizia chiesta dal procuratore generale non e' certo una prova «sopravvenuta o scoperta» dopo il giudizio di primo grado e, se anche ad essa si equiparano le prove richieste e ingiustamente non ammesse in primo grado (come ammette la giurisprudenza della Corte di cassazione) 1), e' noto che il giudice di legittimita' nega il carattere di «prova decisiva» alla perizia. Questa e' una prova tipicamente «neutra», per le caratteristiche che le sono proprie, non essendo possibili prognosi sulle conclusioni del perito 2). Si deve concludere che, se anche la corte ritenesse erronea la decisione del tribunale di escludere la perizia, data la presenza di pareri tecnici discordanti e di dichiarazioni dibattimentali del consulente del p.m. non univocamente valutabili come un ribaltamento delle proprie precedenti conclusioni; e se anche ritenesse la prova richiesta «assolutamente necessaria» ai fini della decisione (ai sensi dell'art. 603, comma 3, c.p.p.), non potrebbe, comunque, disporre la parziale rinnovazione del dibattimento, dando ingresso al giudizio d'appello. La prova in questione, infatti, non e' qualificabile come prova «decisiva» a carico dell'imputato; non si puo' ritenerla una «prova tale da incidere in modo significativo sul procedimento decisionale ... e da determinare ... una differente valutazione dei fatti e portare in concreto ad una decisione diversa» da quella assunta in primo grado 3). Dunque, anche seguendo l'interpretazione meno rigorosa del secondo comma dell'art. 10 della legge n. 46/2006, la corte sarebbe costretta a dichiarare l'inammissibilita' dell'appello della pubblica accusa. Se, invece, la Corte costituzionale dichiarasse illegittimo il comma 2 dell'art. 593 novellato, nelle parti in cui limita l'appello dell'imputato e del pubblico ministero contro le sentenze di proscioglimento alle sole ipotesi di cui all'art. 603, comma 2, quando la nuova prova e' decisiva, questo collegio potrebbe procedere allo scrutinio del gravame proposto dal procuratore generale, con eventuale ammissione della perizia richiesta. Analogamente, la dichiarazione di incostituzionalita' dell'art. 10, legge n. 46/2006, commi 2 e 3, nella parte in cui affermano l'inammissibilita' degli appelli proposti dall'imputato e dal pubblico ministero prima dell'entrata in vigore della legge ed escludono, in tali casi, il giudizio di merito di secondo grado, consentirebbe a questo collegio di vagliare la fondatezza dell'appello del procuratore generale e la necessita' di dare corso alla prova richiesta. Con riferimento all'appello della parte civile, la questione di legittimita' costituzionale e' altrettanto rilevante. l'art. 10 della legge n. 46/2006 nulla dice, espressamente, circa il regime transitorio di questo genere d'appello. Si deve, peraltro, rilevare che il novellato art. 576 c.p.p. (applicabile ex art. 10, comma 1, legge cit.), pur ammettendo l'impugnazione della parte civile, ha cancellato ogni riferimento al mezzo d'impugnazione. Sono state, infatti, abolite le parole «con il mezzo previsto per il pubblico ministero», che in precedenza permettevano d'individuare nell'appello lo strumento con il quale la parte civile poteva dolersi del proscioglimento dell'imputato in primo grado. Cosi' facendo, probabilmente contro la sua stessa volonta', ma secondo il tenore letterale e non equivoco della legge, ed in particolare dell'art. 568 c.p.p., il legislatore ha negato alla parte civile l'appello contro i proscioglimenti di primo grado, lasciandole, come unico mezzo d'impugnazione, il ricorso per cassazione. E', infatti, la legge che determina i casi in cui i provvedimenti del giudice sono soggetti ad impugnazione e che stabilisce il mezzo con cui impugnarli (art. 568 c.p.p.). Cosicche', data la mancanza di riferimento, nell'attuale articolo 576, ad uno specifico mezzo d'impugnazione, si deve necessariamente ricorrere alla clausola generale contenuta nell'art. 568, comma 2, c.p.p., secondo cui sono sempre soggetti a ricorso per cassazione, quando non sono altrimenti impugnabili, i provvedimenti in materia de libertate e le sentenze, salvo quelle ivi espressamente eccettuate. In applicazione di questa nuova disciplina, la corte dovrebbe dichiarare inammissibile anche il ricorso in appello della parte civile. Diversamente, essa potrebbe giudicare di esso nel merito, se la Corte costituzionale dichiarasse l'illegittimita' dell'art. 576, comma 1, c.p.p., come modificato, nella parte in cui sono state abolite le parole «con il mezzo previsto per il pubblico ministero»; cosi' da ricreare il collegamento con l'appello della pubblica accusa, di cui si auspica - come visto - il ripristino attraverso la declaratoria d'illegittimita' costituzionale dell'art. 593, comma 2. Cosi' chiarita la rilevanza delle questioni di legittimita' prospettate, si puo' passare allo scrutinio della non manifesta infondatezza di quella riguardante l'art. 593 c.p.p. La corte ritiene che la questione sollevata meriti il vaglio del giudice delle leggi. Invero, la prima norma della Costituzione con la quale l'art. 593, comma 2, c.p.p., novellato, sembra porsi in contrasto, e' l'art. 111. Questo precisa che la «giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge». E che «ogni processo si svolge in contraddittorio tra le parti, in condizioni di parita', davanti a giudice terzo e imparziale». Questo collegio ha ben presente l'insegnamento della Corte costituzionale in materia di limiti all'appello del pubblico ministero contro le sentenze emesse a seguito di giudizio abbreviato; insegnamento secondo il quale «il principio della parita' fra accusa e difesa non comporta necessariamente l'identita' tra i poteri processuali del pubblico ministero e quelli dell'imputato e del suo difensore 4). Ma il giudice delle leggi non ha mancato di aggiungere che un eventuale diverso trattamento delle facolta' processuali - e, dunque, anche d'appello - del pubblico ministero per essere conforme a Costituzione, dovra' trovare una ragionevole motivazione proprio nella peculiare posizione istituzionale del p.m., o nella funzione ad esso affidata, o nelle esigenze di una corretta amministrazione della giustizia 5). Orbene, nulla di tutto questo si riscontra nella novella in esame, ai sensi della quale - diversamente dal caso di cui, all'epoca, si occupo' la corte - non si impedisce al pubblico ministero di appellare contro delle sentenze di condanna, bensi' contro delle sentenze di proscioglimento. Cio' sembra configurare una violazione della par condicio tra le parti. Il pubblico ministero, normalmente, ha un interesse contrapposto a quello dell'imputato, e non si vede come possa rientrare nel processo «ad anni pari» la facolta', per una parte, di proporre appello contro la decisione a lei negativa ed il divieto, per l'altra parte, di proporre lo stesso tipo di gravame in caso di sentenza a lei sfavorevole. Ne' sembrano ravvisabili esigenze strettamente connesse alla posizione o alla funzione tipica del pubblico ministero, ne' di corretta amministrazione della giustizia, tali da giustificare il diniego dell'appello del pubblico ministero contro le sentenze di proscioglimento. Al contrario, la funzione affidata a quest'organo della giustizia, cosi' come un'adeguata amministrazione di quest'ultima, dovrebbero mirare a garantire, attraverso strumenti consoni e non defedati, il ripristino della legge violata e la punizione dei colpevoli dei reati. Non si puo' dimenticare che, alla base del processo penale, vi e' l'esigenza dello Stato di garantire il ripristino dei diritti della persona offesa. Tale ripristino non si riduce alla tacitazione dell'obbligazione civile nascente dal reato ex art. 185 c.p. Esso si attua anche attraverso lo strumento del processo penale; uno strumento che trova insopprimibile fondamento nell'obbligo di solidarieta' che impegna lo Stato nei confronti delle vittime. Certamente, infatti, anche allo Stato si applica il dovere di cui all'art. 2 Cost. D'altronde, i cittadini hanno pari dignita' sociale, sono uguali davanti alla legge (art. 3 Cost.), e non sono ammissibili discriminazioni in base alle condizioni personali o sociali. I diritti delle vittime dei reati, pertanto, hanno dignita' almeno pari a quelli dell'imputato, e la loro difesa non puo' essere affidata a dei mezzi irragionevolmente squilibrati rispetto a quelli garantiti all'incolpato. Assicurare al pubblico ministero adeguate facolta' processuali, significa preoccuparsi delle esigenze di difesa delle vittime. Alle censure d'incostituzionalita' mosse dal Capo dello Stato alla prima stesura del nuovo art. 593, il Parlamento ha risposto con l'introduzione del secondo comma sopra ricordato, che, introducendo l'appello dell'imputato e del pubblico ministero contro le sentenze di proscioglimento, lo limita ai soli casi in cui emergano prove «sopravvenute o scoperte dopo il giudizio di primo grado». Ma - come s'e' visto - tali casi si riducono a quelli in cui, nello stretto arco di tempo per proporre appello, sopravvengano o si scoprano nuove prove, e a quelli di prove «decisive» ingiustamente negate in primo grado. L'esiguita' di queste ipotesi appare cosi' evidente, da rendere non manifestamente infondata l'opinione che il ritocco del legislatore sia stato poco piu' che virtuale. Mentre si continua a negare al pubblico ministero, senza una «ragionevole motivazione», di appellare le sentenze di proscioglimento in caso di erronea valutazione, da parte del giudice, delle prove gia' acquisite in primo grado. Nemmeno dopo le novita' introdotte a seguito dei rilievi del Capo dello Stato, la disparita' di trattamento mantenuta tra imputato e pubblico ministero sembra compatibile con la diversita' di funzioni svolte dalle parti nel processo; e tale disparita' e' bene che sia vagliata dalla Corte costituzionale onde verificare se essa violi i limiti fissati al legislatore ordinario dall'art. 111 Cost. La violazione di questa disposizione sembra prospettarsi anche sotto il profilo del contrasto della nuova disciplina con il principio della ragionevole durata del processo. L'impossibilita' di proporre appello contro le sentenze di proscioglimento e l'allargamento dei casi del ricorso per cassazione mediante la possibilita', affidata alla suprema Corte, di scrutinare la logicita' della motivazione sulla scorta degli atti processuali, determinera' un aumento esponenziale del lavoro di quest'ultima ed, in caso di accoglimento del ricorso, un regresso alla fase del primo grado, con evidente dilatazione dei tempi processuali, scarsamente compatibile con il dettato costituzionale. La seconda norma, con la quale il nuovo art. 593 c.p.p. pare configgere, e' l'art. 3 della Carta fondamentale. Se il principio di ragionevolezza si sostanzia nella necessita' di trattamento dei casi simili in modo simile, e dei casi disuguali in modo disuguale, si stenta a comprendere perche' al pubblico ministero - la cui funzione nel perseguimento dei colpevoli e' sempre la stessa - si continui a permettere di appellare le sentenze di condanna, con richiesta di aumento delle pene ritenute troppo lievi, mentre s'impedisce di appellare le sentenze di proscioglimento, che ben piu' gravemente disattendono l'aspettativa di punizione dello Stato. Non manifestamente infondata appare anche la violazione dell'art. 97 della Costituzione, che presidia i beni del buon andamento e dell'imparzialita' della pubblica amministrazione. La Corte costituzionale si e' espressa piu' volte nel senso di ritenere applicabile questa norma anche agli organi dell'amministrazione della giustizia 6). Ove si intenda il riferimento al «buon andamento» ed alla «imparzialita» dell'amministrazione in termini non solamente di efficienza della macchina giudiziaria, ma anche di assicurazione, verso tutti i cittadini, tra cui le vittime dei reati, del piu' completo ed imparziale perseguimento del fine di repressione dei reati, allora si deve ritenere che una norma che impedisca, al pubblico ministero, di emendare l'erroneo proscioglimento dell'imputato ed, alle vittime, di vedere corrisposta la propria legittima aspettativa di punizione, violi il disposto della norma costituzionale indicata. Ulteriore violazione prospettabile e' quella dell'art. 112 Cost. La corte non ignora che non sempre il giudice delle leggi ha ricollegato la facolta' d'appello del pubblico ministero al principio di obbligatorieta' della azione penale 7). Tuttavia, non si puo' dimenticare un altro, anche se piu' datato, indirizzo della stessa Corte costituzionale, secondo il quale l'esercizio del potere d'appello della pubblica accusa non e' altro che un'emanazione del principio fissato dall'art. 112 Cost. Se, nell'interpretazione di cui la Consulta e' organo sovrano, dovesse prevalere questo secondo indirizzo, la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 593, comma 2, c.p.p., come novellato, sarebbe non manifestamente infondata anche con riguardo all'art. 112 della Carta fondamentale. Passando all'analisi della questione di legittimita' costituzionale che attiene alla attuale formulazione dell'art. 576 c.p.p., le norme fondamentali la cui violazione sembra potersi prospettare, senza pericolo di manifesta infondatezza, sono gli artt. 3, 24 e 111 della Costituzione. La premessa e' stata gia' esposta: la nuova disciplina parla di facolta' d'impugnazione della parte civile, ma non specifica il mezzo con il quale questa si puo' dolere della decisione di primo grado; d'altro canto, e' stato tolto il riferimento che, in precedenza, individuava lo strumento di gravame della parte civile nello stesso mezzo d'impugnazione concesso al pubblico ministero. Ne consegue che, per individuare attraverso quale via la parte civile puo' proporre le proprie doglianze, deve farsi capo alla disposizione generale contenuta nell'art. 568, comma 2, c.p.p., con necessaria individuazione del ricorso per cassazione come unica strada percorribile. La violazione dell'art. 111 Cost. sembra, allora, prospettabile sotto il profilo che, fintanto che il legislatore avra' concesso a chi e' stato danneggiato da un reato di esercitare l'azione civile nel processo penale, costui non potra' essere discriminato in maniera irragionevole rispetto all'imputato. Se a quest'ultimo si fornisce uno strumento di doglianza nel merito nei confronti della decisione del primo giudice, lo stesso strumento, nel caso di soccombenza, non puo' essere sottratto alla parte civile, pena la lesione della par condicio processuale. Del pari, non manifestazione infondata sembra la questione di una violazione del diritto di difesa di cui all'art. 24 Cost. Se questo diritto e' garantito a tutti i cittadini, e dunque anche ai danneggiati dal reato, e se esso e' inviolabile in ogni stato e grado del procedimento, sembra che questi principi siano feriti dalla previsione di un secondo grado di giudizio in cui l'imputato potra' svolgere le proprie doglianze, mentre la parte civile non potra' fare entrare le proprie. Si badi, tra l'altro, che l'appello della parte civile e' escluso anche in caso di condanna dell'imputato, cosicche' la parte civile non si potra' dolere nemmeno se avra' doglianze di merito da sollevare in ordine al quantum liquidatole. Non manifestamente infondata, infine, la questione di violazione dell'art. 3 della Costituzione. Nel senso che, mentre al danneggiato che percorre la strada del processo civile e' riservato il doppio grado di giudizio di merito, al danneggiato che sceglie d'esercitare la medesima azione nel processo penale e' impedito di fare altrettanto. Anche qui, seppure si debba riconoscere al legislatore un ampio margine di scelta rispetto all'alternativa se consentire, o meno, al privato danneggiato d'inserire le proprie richieste di carattere civile in un processo dai risvolti eminentemente pubblici, una volta che questa scelta sia stata operata in senso positivo, sembra irragionevole strozzare, senza congrua giustificazione, i diritti del danneggiato, privandolo di un grado di giudizio. Quanto alla norma contenuta nell'art. 10, comma 1, della legge n. 46/2006, essa sembra violare gli artt. 3, 24, 97, 111 e 112 Cost., laddove afferma applicabili gli attuali artt. 593, comma 2, e 576, comma 1, c.p.p., ai procedimenti in corso. Le ragioni di questa violazione sono le medesime esposte sopra. Si profila, altresi', un'ulteriore disparita' di trattamento sotto il seguente aspetto. Non e' ragionevole l'estensione della nuova disciplina al caso degli appelli gia' proposti. E' privo di ragionevolezza (v. art. 3 Cost.), oltre che contrario al diritto di difesa (art. 24 Cost.), privare di un mezzo specifico di gravame chi vi aveva riposto congruo affidamento perche', al momento dell'impugnazione, quel mezzo gli era garantito dall'ordinamento. Anche i commi 2 e 3 dell'art. 10 sembrano in contrasto con i principi costituzionali. Tali commi - nell'interpretazione piu' restrittiva - impongono al giudice di dichiarare, in ogni caso, l'inammissibilita' degli appelli proposti prima dell'entrata in vigore della legge n. 46/2006. L'unica possibilita' concessa al ricorrente e' di proporre ricorso per cassazione entro quarantacinque giorni dalla declaratoria d'inammissibilita' dell'appello. Oltre alle ragioni d'incostituzionalita' gia' indicate, va qui messo in evidenza che si crea, con questo meccanismo, un'ulteriore disparita' di trattamento (art. 3 Cost.). Si discrimina, infatti, senza giustificata motivazione, la posizione di coloro che hanno proposto appello prima dell'entrata in vigore della legge, da quella di coloro che proporranno l'impugnazione in seguito. Solo a questi ultimi, e non ai primi, e' concessa la facolta' d'appello contro i proscioglimenti, seppure nei limiti del novellato comma secondo dell'art. 593. 1) Cfr., in tal senso, Cass., sez. 6, sent. n. 7197 del 10 dicembre 2003, Rv. 228462, imp. Cellini; Conf.: n. 4882 del 1997 Rv. 208135, n. 11082 del 1999 Rv. 214334. 2) Tra le altre, cfr. Cass., sez. 4, sent. 4981 del 5 dicembre 2003, Rv. 229665, ric. p.g. in proc. Ligresti e altri. Conf.: Cass. n. 37033 del 2003 Rv. 228406; Cass. n. 17629 del 2003 Rv. 226809. 3) Tra parentesi le parole piu' significative della definizione di «prova decisiva» contenuta in Cass., sez. 6, n. 35122/2003. 4) Cosi', Corte costituzionale, sent. n. 363/1991. 5) V. la sentenza della Corte costituzionale di cui alla nota che precede. 6) Cfr. le sentenze nn. 18/1989 e 86/1982. 7) Questa connessione e' stata negata, ad esempio, dalla sentenza della Corte costituzionale n. 280/1995.