LA CORTE MILITARE DI APPELLO

    Ha   emesso   la   seguente  ordinanza  nel  procedimento  penale
n. 195/2004  R.G. nei confronti di Marras Maurizio, nato il 14 luglio
1964   a   Genova  (atto  n. 2170  P1SA)  domiciliato  in  via  delle
Rimembranze,  8/A  -  20068  Linate  di Peschiera Borromeo (Milano) -
Maresciallo 2ª classe AM, Libero, in seguito all'appello proposto dal
P.G.M.  presso  la  C.M.A. - Sezione distaccata di Verona, in data 16
settembre 2004, avverso la sentenza n. 117/04 emessa il 7 luglio 2004
al  T.M. di Torino, con la quale veniva assolto dal reato di «Violata
consegna  aggravata»  qualificata «Disobbedienza aggravata» (art. 173
c.p.m.p) perche' il fatto non costituisce reato.
    Ordinanza  pronunciata  alla  pubblica udienza del 23 marzo 2006,
nel procedimento a carico di Marras Maurizio.
    Sentito  il  p.g.m. che ha sollevato la questione di legittimita'
costituzionale,  per  violazione  degli  articoli 3, 111 e 112 Cost.,
dell'art.  1  della  recente legge 20 febbraio 2006, n. 46, in vigore
dal  9 marzo 2006, nella parte in cui ha modificato l'art. 593 c.p.p.
ed  abolito  la  facolta'  del pubblico ministero di proporre appello
avverso le sentenze di proscioglimento;
    sentita  la  difesa dell'imputato che ha chiesto la dichiarazione
di  manifesta  infondatezza  della eccepita questione di legittimita'
costituzionale;

                            O s s e r v a

    1.  -  Il  presente giudizio di gravame trae origine dall'appello
presentato  dalla  Procura  generale  militare  in  sede  avverso  la
sentenza, datata 7 luglio 2004, con la quale il Tribunale militare di
Torino  ha  assolto Marras Giuseppe dal reato di disobbedienza, cosi'
diversamente   qualificata   l'originaria   imputazione   di  violata
consegna, con la formula del fatto non costituisce reato.
    Nelle  more della trattazione di questo processo in secondo grado
e'  entrata in vigore la legge 20 febbraio 2006 n. 46, che ha escluso
il potere della parte pubblica di impugnare con il mezzo dell'appello
le  sentenze  di  proscioglimento,  salvo  il  caso della prova nuova
scoperta  nel  periodo  che  va dalla deliberazione della sentenza di
primo  grado alla scadenza del termine per impugnare, cosi' innovando
l'art. 593 c.p.p.
    Tale  legge  ha  altresi'  espressamente  disciplinato  il regime
transitorio   (differentemente   da   quanto   era  accaduto  con  la
provvisoria  precedente modificazione introdotta allo stesso articolo
593  c.p.p.  dall'art. 18  legge  24  novembre  1999  n. 468)  ed  ha
disposto,  al  primo  comma  dell'art. 10, l'applicazione della nuova
normativa  anche ai procedimenti in corso alla data della sua entrata
in vigore, prevedendo, nei successivi commi 2 e 3, le modalita' della
dichiarazione  di  inammissibilita' degli appelli avverso le sentenze
di  proscioglimento  non  definite,  con contestuale restituzione nei
termini per proporre, in tali casi, il ricorso per cassazione.
    Oggi  questa  corte  dovrebbe  pertanto deliberare l'ordinanza di
inammissibilita'  di  cui al secondo comma dell'art. 10, puntualmente
richiesta dalla difesa dell'imputato.
    Il rappresentante della procura generale, per contro, ha espresso
l'avviso  che  le particolari connotazioni del caso di specie, dovute
alla circostanza che nella precedente udienza la corte aveva disposto
la  rinnovazione parziale del dibattimento ai sensi dell'articolo 603
c.p.p.,   ne  consentano  la  puntuale  definizione  in  questa  sede
processuale.   Cio'   per  la  oggettiva  ragione  che  la  normativa
transitoria  di  cui al predetto articolo 10 deve essere interpretata
nel  senso  di escludere la declaratoria di inammissibilita' tutte le
volte   che   i   procedimenti  pendenti  presentino  quei  requisiti
contenutistici  che,  ai  sensi  della disciplina definitiva, rendono
ammissibile    l'appello    del   p.m.   avverso   le   sentenze   di
proscioglimento.
    Siccome  l'ordinanza  di  rinnovazione  parziale del dibattimento
adottata dalla corte nella precedente udienza ha contenuto generico e
percio'  comprende  l'intero  spettro  di efficacia dell'articolo 603
c.p.p.,   ne   deriva,  secondo  il  p.g.m.,  che  appare  sussistere
quell'estremo  della  nuova  prova  sopravvenuta  e  decisiva  che e'
necessario  e sufficiente per la rituale instaurazione e prosecuzione
del giudizio di gravame.
    In  subordine, la Parte pubblica ha richiesto che venga sollevata
la   questione   di   legittimita'  costituzionale  del  nuovo  testo
dell'articolo   593   c.p.p.  e  della  disciplina  transitoria,  con
riferimento agli artt. 3, 111 e 112 Cost.
    La   difesa   dell'imputato   ha  insistito  nella  richiesta  di
declaratoria  di  inammissibilita' dell'appello e ha chiesto a questa
Corte di dichiarare manifestamente infondata la eccepita questione di
legittimita' costituzionale.
    2.  -  Ritiene  la  Corte  che non possa accogliersi la richiesta
principale formulata dal rappresentante della Procura generale.
    A  prescindere  dalla  astratta  questione se ed in che misura la
norma   transitoria   consenta   la   applicazione  della  disciplina
definitiva  introdotta  dalla legge n. 46/2006, cio' che impedisce di
accogliere   la   richiesta   sopra   specificata  e'  la  risolutiva
circostanza  che  nel  caso  di  specie  non  appare  ravvisabile  il
requisito della «prova nuova sopravvenuta e decisiva».
    L'ordinanza  di  rinnovazione parziale del dibattimento, infatti,
concerne  l'audizione  di  un  teste  gia'  sentito  in primo grado e
persegue  la  finalita'  di  chiarire  alcuni  aspetti rimasti oscuri
nell'ambito  della  precedente  deposizione  da questi resa. Essa, in
altri  termini, mira a colmare lacune istruttorie che trovano la loro
ragion  d'essere  nel  fatto che nel giudizio di primo grado il teste
non  e'  stato sentito in ordine a profili comunque rilevanti ai fini
della definizione della re giudicanda.
    Su  tali  premesse,  l'ipotesi  che  si sia in presenza di «nuova
prova  sopravvenuta e decisiva» non appare persuasiva, trattandosi in
realta'  della  nuova  escussione di una fonte di prova gia' presente
nel   compendio   processuale  e  non  utilizzata  in  tutte  le  sue
potenzialita' di chiarificazione del fatto storico.
    3.  - Deriva da cio' che il presente processo di appello dovrebbe
concludersi  con  la  declaratoria  della  sua  inammissibilita',  in
applicazione  di  quanto  disposto dall'art. 10 dalle legge n. 46 del
2006  e  con  un  provvedimento  che costituisce puntuale espressione
dell'esercizio della giurisdizione.
    Risulta  pertanto  di tutta evidenza la «rilevanza» del dubbio di
illegittimita'  costituzionale prospettato dal p.g.m., in ragione del
fatto  che  la  possibilita' di definire il presente processo con una
statuizione  diversa  dalla  specifica  ordinanza di inammissibilita'
contemplata  dalla  disposizione  transitoria e' preclusa dalla nuova
formulazione  dell'articolo  593  (quale modificata dall'art. 1 della
legge n. 46/2006); ordinanza di inammissibilita' che e' quindi idonea
a  porre  fine  al  giudizio  di gravame e della quale si sospetta il
contrasto con alcune norme della Costituzione.
    E'  altresi'  convincimento  di  questo  giudice che la eccezione
sollevata  dal  p.g.m.  debba  essere  accolta  e  che  sia  doveroso
sottoporre la relativa questione alla Corte costituzionale, affinche'
esprima  il  suo  giudizio  in ordine alla conformita' a Costituzione
della nuova normativa.
    Si ritiene sin d'ora opportuno precisare, inoltre, che i dubbi di
legittimita'  costituzionale  che si andranno a proporre si basano su
argomenti  rilevanti  nell'ambito  di  una  pluralita'  di  parametri
costituzionali - con conseguente intreccio dei conseguenti profili di
«non   manifesta   infondatezza»   -  ed  investono  direttamente  la
disciplina «a regime» dettata dalla legge n. 46/2006, ossia la regola
della inappellabilita' delle sentenze di proscioglimento da parte del
pubblico   ministero;   ma  e'  evidente  che  il  loro  accoglimento
travolgerebbe anche la disciplina transitoria dettata per gli appelli
gia'   proposti,   che  ha  la  sua  ragion  d'essere  proprio  nella
sopravvenuta introduzione di quella regola.
    Non   manifesta  infondatezza  della  questione  di  legittimita'
costituzionale.
    La  recente  legge 20 febbraio 2006, n. 46, in vigore dal 9 marzo
2006,  modificando  l'art. 593  c.p.p.,  ha  abolito  la facolta' del
pubblico  ministero  di  proporre  appello  avverso  le  sentenze  di
proscioglimento,   salvo   ipotesi   marginali   («nuove   prove  ...
sopravvenute  o  scoperte  dopo  il giudizio di primo grado») che non
ricorrono nel presente caso.
    Contro  tali  sentenze, dunque, l'ufficio del p.m. puo' di regola
proporre il solo ricorso per Cassazione, del quale - al contempo - la
nuova  legge  ha ampliato i presupposti di rituale instaurazione (con
la modifica delle lettere d) ed e) dell'art. 606 c.p.p.).
    E'   convincimento   di   questo  giudice  che  la  questione  di
legittimita'  costituzionale  dell'articolo 1 della legge n. 46/1996,
sollevata  dal  rappresentante  della  Procura  generale  militare in
riferimento  agli  articoli  3, 111 e 112 della Carta costituzionale,
non sia manifestamente infondata.
    Violazione dell'art. 111, secondo comma, prima parte, della Cost.
    Il  primo  e  fondamentale  profilo  di  contrasto  fra  il nuovo
art. 593 c.p.p. e le norme costituzionali riguarda il principio della
parita'  delle  parti  nel processo penale, consacrato nell'art. 111,
comma   2,   Cost.,  rispetto  al  quale  appare  inconciliabile  una
disciplina  dell'appello  che introduce pesanti elementi di turbativa
nell'equilibrio del contraddittorio ed assegna alle parti prerogative
differenziate  al  punto  tale  che  una soltanto di esse puo' vedere
soddisfatto il suo interesse sostanziale.
    Che  questa  sia la situazione scaturente dalla legge 20 febbraio
2006,  n. 46  risulta palese ove si consideri che in essa i poteri di
appello  dell'imputato  e  del  p.m.,  pur  connotati  da una formale
equiparazione  (facolta'  per  entrambi  di  impugnare  la  condanna;
divieto   per   entrambi   di  impugnare  il  proscioglimento),  sono
disciplinati  in  modo  da  dare  vita,  data la contrapposizione dei
rispettivi  interessi,  ad  una  radicale  sperequazione. L'imputato,
infatti, perde la possibilita' di impugnare nel merito la sentenza di
primo  grado  per  aspetti  del  tutto  marginali  (l'adozione di una
formula  di  proscioglimento piuttosto che un'altra; l'assoluzione ai
sensi del primo piuttosto che del secondo comma dell'art. 530 c.p.p.)
e  la  conserva  nei  casi in cui la sentenza leda in modo concreto i
suoi  diritti  di liberta' e di onorabilita'. Il rappresentante della
pubblica  accusa,  per contro, resta legittimato all'appello nei soli
casi   in   cui   la   pretesa   punitiva  abbia  trovato  essenziale
realizzazione  e con riguardo ad aspetti secondari della medesima (la
qualificazione  del  fatto;  la  quantificazione  della pena); mentre
viene  privato  di  analoga  legittimazione nelle, di gran lunga piu'
significative,  evenienze  in cui quella pretesa sia stata totalmente
sconfessata.
    Il  dubbio  di legittimita' costituzionale si' giustifica proprio
in   relazione   a  quanto  affermato  dalla  Corte  cost.  (sentenza
n. 363/1991  e  ordinanze successive tra cui n. 421/2001) a proposito
dei  limiti oggettivi all'appello del pubblico ministero nel giudizio
abbreviato  (inappellabilita'  delle  sentenze  di  condanna  che non
modifichino il titolo del reato).
    Si e' infatti sottolineato che detta disciplina non contrasta con
i  canoni di ragionevolezza e non viola il principio della parita' in
quanto:
        a)   costituisce  il  «corrispettivo»  in  funzione  premiale
(unitamente alla riduzione della pena) della rinunzia al dibattimento
da  parte  dell'imputato,  attraverso  una  opzione  processuale  che
favorisce una piu' rapida definizione dei processi;
        b)   concerne   situazioni   in   cui   ha  comunque  trovato
realizzazione  la  pretesa  punitiva,  rimanendo del tutto intatta la
potesta' di impugnazione delle sentenze di assoluzione.
    Il  raffronto  tra  i  nuovi  e  radicali limiti alla facolta' di
appello  del  rappresentante  del  pubblico  ministero e la pregressa
disciplina valevole per il rito abbreviato, in uno con le ragioni che
hanno  consentito  di affermare la costituzionalita' di quest'ultima,
induce  questa  Corte  a  dubitare  della  conformita' a costituzione
dell'articolo 1 della legge n. 46/2006.
    L'odierno    divieto   di   appello   contro   le   sentenze   di
proscioglimento,  infatti, mutila le prerogative della parte pubblica
in  modo  generalizzato  e proprio nell'aspetto piu' saliente del suo
interesse  a  impugnare,  senza  che  sia  individuabile alcun valore
costituzionale   in   grado  di  bilanciare  e  di  legittimare  quel
sacrificio.
    A  tal fine va evidenziato come non sembri persuasivo l'argomento
con  il  quale, nei lavori preparatori, si e' cercato di giustificare
la  nuova  disciplina;  e  cioe'  che la abolizione della facolta' di
appello  contro  le  sentenze  di  proscioglimento risponderebbe a un
diritto dell'imputato a non essere riconosciuto colpevole se non dopo
due giudizi di merito conformi.
    L'esigenza della c.d. «doppia conforme», infatti, sembra estranea
alla  nozione di «diritto al doppio grado di giurisdizione in materia
penale»   riconosciuto   dalle   Carte   internazionali  sui  diritti
dell'uomo,  posto  che  nel  documento  in  cui  quel diritto e' piu'
chiaramente  enunciato  (art. 2  del  VII Protocollo addizionale alla
Convenzione  europea  per  la salvaguardia dell'uomo e delle liberta'
fondamentali,  fatto a Strasburgo il 22 novembre 1984 e ratificato in
Italia  con  legge 9 aprile 1990, n. 98) viene espressamente prevista
la   possibilita'   che  un  soggetto  sia  «dichiarato  colpevole  e
condannato a seguito di un ricorso avverso il suo proscioglimento» ed
in  relazione a tale evenienza si contempla la necessita' che vengano
garantiti:  1)  il  diritto  di ricorrere in cassazione per errori in
giudicando  o in procedendo; 2) il diritto ad un ulteriore riesame di
merito laddove detti errori siano stati accertati.
    Ritiene  di  conseguenza  la Corte, per concludere sul punto, che
l'assetto  delineato  dalla  nuova  legge  appaia in contrasto con il
principio  di equa considerazione delle parti processuali, in ragione
del fatto che e' coessenziale alla fisiologica dialettica processuale
che   ogni   parte   del   processo  possa  mantenere  «le  posizioni
originariamente  assunte  e quindi, ove la sentenza non abbia dato ad
esse  piena  soddisfazione,  impugnare la decisione stessa; ed e' qui
che  si colloca l'appello principale» (Corte costituzionale, sentenza
n. 280/1995).
    Siffatto dubbio di legittimita' costituzionale si giustifica, sia
consentito  ribadirlo, proprio in riferimento alle affermazioni fatte
dalla Corte costituzionale a proposito dei limiti all'appello avverso
sentenze  emesse  nel  rito abbreviato; affermazioni che riposano sul
fondamentale  postulato  che  la  normativa  ordinaria  in materia di
appello  del  p.m.  non  si  iscrive  n  un  area «costituzionalmente
indifferente»   e   non  costituisce  insindacabile  prerogativa  del
legislatore,  dovendo essa sottostare alla verifica di conformita' ai
fondamentali  principi  di  ragionevolezza  e  parita'  delle  parti.
Sicche',  non  ravvisandosi  alcuna  delle  ragioni  poste a base del
giudizio  di  legittimita'  formulato  con riguardo alla circoscritta
inappellabilita'   delle   sentenze   di  condanna  emesse  nel  rito
abbreviato   e   non  cadendo  la  disciplina  in  esame  nel  «vuoto
costituzionale»,  appare  ineludibile  il forte sospetto che essa non
abbia   razionale   giustificazione   e   sia  in  contrasto  con  la
Costituzione della Repubblica.
    Violazione dell'art. 112 Cost.
    La  Corte  cost., pur avendo affermato (sentenza n. 177 del 1971)
che   il   potere   di   impugnazione   della   pubblica   accusa  e'
un'estrinsecazione  ed  un  aspetto  dell'azione  penale  ed  un atto
conseguente al suo promovimento, ha tuttavia escluso (sentenza n. 363
del  1991;  ordinanza n. 241 del 2001) che esso debba configurarsi in
modo simmetrico rispetto al diritto di difesa dell'imputato.
    La  stessa Corte costituzionale ha in seguito (sentenza n. 98 del
24  marzo  1994)  precisato  che  «la  configurazione  dei poteri del
pubblico ministero, ancorche' affidata alla legge ordinaria, potrebbe
essere  censurata  per  irragionevolezza se i poteri stessi, nel loro
complesso,  dovessero risultare inidonei all'assolvimento dei compiti
previsti dall'art. 112 Cost.»
    La  situazione-limite astrattamente prospettata dalla Corte cost.
sembra  essersi  puntualmente  inverata  nella disciplina predisposta
dall'art.  1  della  legge n. 46/2006, che pone un limite generale ed
indifferenziato alla possibilita' di appello del rappresentante della
Pubblica  accusa avverso le sentenze che abbiano rigettato la pretesa
punitiva  e  gli  impedisce  di  richiedere  al  giudice superiore il
riesame  dei  fatti  e delle valutazioni di merito poste a fondamento
delle stesse.
    Nel nuovo statuto dei limiti oggettivi all'impugnazione del p.m.,
infatti, sembra pregiudicato il nucleo essenziale del precetto di cui
all'articolo  112  della  Costituzione,  il quale, nell'attribuire al
pubblico  ministero  l'esercizio  dell'azione  penale,  configura  un
potere  che  legittimamente puo' cedere solo di fronte ad esigenze di
preminente  rilievo  costituzionale  (sentenza  Corte cost. n. 98 del
1994).
    E  cio'  che non sembra ravvisabile nella disciplina di specie e'
proprio  la esigenza di tutelare un preminente valore costituzionale,
posto   che   non   appare   condivisibile  l'idea  che  l'abolizione
dell'appello  contro  le  sentenze di proscioglimento costituisca una
delle  necessita' imposte dall'articolo 24 della Costituzione e posto
altresi'   che,   secondo   il   costante  insegnamento  della  Corte
costituzionale, il principio della «parita' delle armi» tra accusa ed
imputato   va   modulato  «non  solo  e  tanto  sull'identita'  delle
riscettive  posizioni,  quanto  sul  raccordo  con  l'esigenza di non
comprimere  poteri e facolta' dell'imputato riconducibili al precetto
dell'art.  24  della  Costituzione»  (Corte cost., sentenza n. 94 del
1994)
    Parimenti  non  sussiste alcuna di quelle ragioni per le quali si
sono  ritenuti  costituzionalmente legittimi i circoscritti limiti al
potere  di  appello  della  parte  pubblica  nel giudizio abbreviato,
comunque,  ed allora, salvaguardato nelle possibilita' di reazione ad
una  sentenza  di  proscioglimento; limiti, vale ribadirlo, che hanno
trovato  la  loro  essenziale  giustificazione «nell'obiettivo di una
rapida  e  completa  definizione del processi svoltisi in primo grado
secondo  il  rito  alternativo di cui si tratta: rito che - sia pure,
oggi,  per  scelta  esclusiva  dell'imputato  - implica una decisione
fondata, in primis, sul materiale probatorio raccolto dalla parte che
subisce   la   limitazione   censurata,   fuori  dalle  garanzie  del
contraddittorio;»   (Corte   costituzionale,   sentenze  n. 421/2001;
347/2002; 165/2003).
    E'  infatti  evidente  che nel contesto della nuova disciplina la
esclusione  dell'appello  della  parte pubblica contro le sentenze di
proscioglimento  non  e'  piu'  circoscritta  a  riti processuali che
perseguano  l'obiettivo  del  minor  dispendio  di  tempo  ed energie
processuali  (connotati  essenziali  del  giudizio abbreviato - Corte
costituzionale,  sentenza  n. 115  del  2001)  e  riguarda  tutte  le
decisioni di proscioglimento emesse nel pieno rispetto della garanzia
del contraddittorio nella formazione della prova.
    Sicche'  ne  deriva,  in  uno con il dubbio di illegittimita' che
investe  il  principio  di  obbligatorieta'  della  azione penale, un
ulteriore dubbio in relazione al fondamentale principio della parita'
fra  accusa  e  difesa, il quale, pur non comportando necessariamente
l'identita'  tra i poteri processuali del pubblico ministero e quelli
dell'imputato  (o  del  suo  difensore),  richiede  comunque  che  la
diversita'  di  trattamento risulti giustificata «sia dalla peculiare
posizione  istituzionale  del  pubblico ministero, sia dalla funzione
allo   stesso  affidata,  sia  da  esigenze  connesse  alla  corretta
amministrazione  della  giustizia  (Corte  cost.  sentenza n. 363 del
1991)».  Con la fondamentale conseguenza che «in ogni caso il diverso
trattamento  riservato  al  pubblico ministero, per essere conforme a
Costituzione,  dovra'  trovare una ragionevole motivazione proprio in
quella  peculiare posizione o in quella funzione o in quelle esigenze
appena richiamate (Sentenza Corte costituzionale n. 363 del 1991)».
    Sul contrasto con l'art. 3 della Cost.
    Vanno poi segnalati i molteplici, e connessi, profili per i quali
la  disciplina  dell'art. 593  nuovo testo c.p.p., e conseguentemente
quella transitoria di cui all'art. 10 della legge n. 46/2006, violano
altresi'  i  principi  di  uguaglianza e di ragionevolezza consacrati
nell'art. 3   Cost.,   introducendo   ingiustificate   disparita'  di
trattamento  fra situazioni e posizioni processuali che invece (anche
per  i  gia' richiamati principi di parita' tra le parti del processo
ed  obbligatorieta'  dell'azione penale) debbono essere collocate sul
medesimo  piano, sia pure con la ovvia considerazione delle finalita'
che ne contrassegnano i rispettivi ruoli.
    La previsione dell'appellabilita' da parte del pubblico ministero
delle  sentenze  di condanna e la pratica eliminazione della facolta'
di  appellare  le  sentenze  di  assoluzione,  infatti,  configura un
assetto  processuale  del  tutto irragionevole: si autorizza la parte
pubblica  a proporre impugnazione quando la pretesa punitiva e' stata
accolta e nel contempo si vieta simile legittimazione nella diversa e
piu'  significativa  ipotesi  in cui detta pretesa punitiva sia stata
totalmente rigettata.
    Si  tratta  di  un  profilo di manifesta incostituzionalita' gia'
rilevato dal Presidente della Repubblica nel messaggio di rinvio alle
Camere  del  20  gennaio  2006,  in  cui  testualmente si osserva «la
soppressione  dell'appello delle sentenze di proscioglimento, a causa
della  disorganicita'  della  riforma, fa si' che la stessa posizione
delle  parti  nel  processo  venga  ad  assumere  una  condizione  di
disparita'  che  supera quella compatibilita' con la diversita' delle
funzioni  svolte  dalle  parti  stesse nel processo......Un ulteriore
incongruenza  della  nuova  legge  sta  nel  fatto  che  il  pubblico
ministero  totalmente  soccombente  non puo' proporre appello, mentre
cio'  gli  e' consentito quando la sua soccombenza sia solo parziale,
avendo ottenuto una condanna diversa da quella richiesta».
    La  violazione  dei  suddetti  principi  costituzionali  (112 e 3
Cost.)  appare  ravvisabile  anche  in relazione a quella parte della
nuova disciplina che contempla un'ipotesi residuale di appello contro
la  sentenza  di  proscioglimento  da parte del pubblico ministero (e
dello  stesso  imputato: ma e' superfluo insistere sulla residualita'
di  tale  evenienza)  per  il  solo  caso  in cui, successivamente al
giudizio  di primo grado, siano sopravvenute o scoperte nuove prove e
queste  appaiano  decisive (art. 593, secondo comma, nuovo testo, che
richiama   a  tale  fine  la  categoria  delle  prove  che,  a  mente
dell'art. 603,   secondo  comma,  giustificano  la  rinnovazione  del
dibattimento in appello).
    Tale  ipotesi - introdotta dal Parlamento solo in sede di seconda
approvazione  della  legge,  a seguito del rinvio del primo testo per
«palese  incostituzionalita» da parte del Presidente della Repubblica
-  non  ha nulla a che vedere con l'appello inteso quale «gravame nel
merito»,  e  mutua  i  suoi lineamenti costitutivi dallo schema della
revisione,  con  la particolarita' di applicarsi solo nel caso (certo
di  non  frequente  incidenza  statistica)  in  cui  le  nuove  prove
sopravvengano  e  siano  scoperte  entro  il  termine  accordato  per
impugnare  la  sentenza  (quindici,  trenta  o massimo quarantacinque
giorni  a  seconda  della celerita' del giudice nella redazione della
motivazione: artt. 544 e 585 c.p.p.).
    Ed  e'  appunto in tale limite massimo che si coglie il carattere
discriminatorio  della  norma,  ove  si rilevi che il proscioglimento
rimarra'  del  tutto  insindacabile  nel  merito,  benche' in ipotesi
affetto  dal  piu' grave errore di giudizio sulle prove preesistenti,
qualora nessuna nuova prova venga ad aggiungersi ad esse ed anche nel
caso  in cui una determinante prova di accusa, presente nel compendio
istruttorio,  sia  stata  del  tutto  trascurata (in cio' si registra
addirittura  un  arretramento rispetto a quanto consentito, alla luce
di  recenti e condivisibili orientamenti del giudice di legittimita',
nell'ambito del giudizio di revisione).
    Violazione  del  principio  della ragionevole durata del processo
(articolo 111, secondo comma, ultima parte, Costituzione).
    Resta  da  osservare che i profili di incostituzionalita' sin qui
esaminati  non  possono  dirsi in alcun modo esclusi dal fatto che al
pubblico  ministero e' pur sempre consentito ricorrere per cassazione
contro   il  proscioglimento,  ed  anzi  -  per  effetto  della  gia'
richiamata riformulazione delle lett. d) ed e) dell'art. 606 c.p.p. -
in termini piu' ampi che in passato.
    In   primo   luogo   va   rilevato   che  la  nuova  formulazione
dell'art. 606,   per   quanto   indubbiamente  segni  un  tendenziale
ampliamento dei vizi deducibili col ricorso per cassazione, configura
pur  sempre  un  mezzo  di impugnativa «a critica vincolata»: laddove
invece  l'appello  propriamente  detto e' per definizione un mezzo di
gravame  a  critica  libera,  atto ad investire la sentenza nella sua
eventuale  intrinseca ingiustizia e nei piu' ampi limiti disciplinati
dall'art. 597, comma 1, c.p.p..
    Inoltre,  se  anche  per  assurdo  si  potesse  sostenere  che il
trasferimento  dalla  sede  dell'appello  a  quella  del  ricorso per
cassazione  non  ha  intaccato  le  possibilita'  di critica del p.m.
contro la sentenza di primo grado, si sarebbe comunque in presenza di
un  significativo  dubbio  di illegittimita' costituzionale, sotto il
profilo  della  violazione del principio della ragionevole durata del
processo di cui all'art. 111, secondo comma, ultima parte, Cost.
    Questa  Corte non ignora le generali opzioni processuali che sono
alla base della disciplina introdotta dalla legge n. 46 del 2006, che
traggono   origine   dalla   piu'   volte   segnalata   anomalia  che
caratterizzava  il  previgente sistema, ove era consentito al giudice
di  gravame  di  ribaltare  - sulla base di un giudizio eminentemente
cartolare  -  la  decisione di proscioglimento maturata ed emessa nel
puntuale   rispetto  del  principio  di  moralita'  ed  immediatezza.
Anomalia  incisivamente  sottolineata  in una recente decisione delle
Sezioni  unite  della  Corte  di  cassazione,  ove  si  auspicava  la
necessita'  di  «ristrutturare  sapientemente il giudizio di appello,
secondo cadenze e modalita' tali da precludere a quel giudice (che di
regola  rimane  estraneo  alla  formazione dialettica della prova) di
ribaltare  il  costrutto  logico  della  decisione di proscioglimento
dell'imputato,  all'esito  di  una  mera  rilettura  delle  carte del
processo  e di un contraddittorio dibattimentale ex actis. Nel senso,
cioe',  di  qualificare in questo caso l'appello, ove non si concluda
con la conferma dell'alternativa assolutoria, come giudizio di natura
esclusivamente  rescindente,  cui debba seguire un rinnovato giudizio
..  sul  merito  della  responsabilita'  dell'imputato,  modulato sui
binari  tracciati  dalla  sentenza  di  annullamento»  (Cass. Sezioni
unite, sent. m. 45276 del 24 novembre 2003 (ud. 30 novembre 2003).
    La  disciplina predisposta, pero', e' andata molto oltre ed anche
sotto  tale  profilo  si presta a significativi dubbi di legittimita'
costituzionale; non solo per il fatto di avere profondamente alterato
la  geometria  dei limiti del sindacato di legittimita', come imposta
dalla  Costituzione  e  disegnata  dal nuovo codice di rito, ed avere
conseguentemente   compromesso  l'armonico  dispiegarsi  nel  sistema
processuale  della  funzione  nomofilattica  attribuita  alla suprema
Corte (con conseguente dubbio di legittimita' costituzionale anche in
relazione   all'art. 111,   settimo   comma,   Cost.);  ma  anche,  e
soprattutto,  perche',  snaturando  la  conformazione  del giudice di
legittimita' e trasformandolo in un sostanziale giudice di merito con
competenza  estesa all'intero territorio nazionale, la nuova legge ha
creato  le basi perche' dinanzi a questo giudice confluiscano, con la
marginale  eccezione delle nuove prove sopravvenute e decisive, tutte
le impugnazioni avverso sentenze di proscioglimento.
    Cio'  comportera'  un ineluttabile aumento delle pendenze dinanzi
alla  suprema  Corte ed un altrettanto ineluttabile aumento dei tempi
di   definizione   dei   processi;   eventi,  entrambi,  direttamente
conseguenti alla nuova disciplina e che non si sarebbero prodotti nel
caso   il   legislatore  avesse  attuato  in  modo  piu'  ragionevole
l'auspicio  sopra  indicato  (rimodulando i caratteri del giudizio di
gravame  e  prevedendo, in caso di mancata conferma della alternativa
assolutoria,  un  aumento  delle  ipotesi  di  rinvio del processo al
giudice  di  primo grado o l'obbligatorio rinnovo del dibattimento in
appello   -   sul   tipo  di  quanto  previsto  in  caso  di  erronea
dichiarazione  di estinzione del reato o di difetto di una condizione
del procedere).
    In  secondo  e connesso luogo, con la modifica in questione si e'
venuto  a  istituzionalizzare  uno schema processuale che, in caso di
annullamento  del  proscioglimento di primo grado, e tenuto conto del
carattere solo «rescindente» del ricorso di legittimita', consentira'
non  meno  di  cinque  gradi  di  giudizio  (primo grado; ricorso per
cassazione  del  p.m.;  nuovo  primo  grado;  appello  e  ricorso per
cassazione dell'imputato contro l'eventuale condanna); il tutto in un
sistema  che non richiede costituzionalmente neppure il secondo grado
di merito (Corte Cost., ordinanza n. 421/2001) ed impone, per contro,
di cadenzare i tempi processuali in modo da consentire la definizione
della regiudicanda in tempi ragionevoli.
    La  negativa  incidenza di una siffatta moltiplicazione dei gradi
di  giudizio sulla ragionevole durata del processo e, poi, accentuata
dal  fatto  di accompagnarsi al rischio di un'ennesima ingiustificata
lesione  degli  interessi  pubblici  e  privati lesi dal reato. Essa,
infatti,  comporta  per  definizione un aumento della possibilita' di
prescrizione del reato, posto che il nostro ordinamento, a differenza
di   altri,   non   prevede   un  pieno  effetto  interruttivo  delle
impugnazioni dell'imputato sul tempo necessario a prescrivere.
    E  cio'  a maggior ragione alla luce della recente modifica della
disciplina  di  cui  agli  artt. 157 ss. c.p., operata con la legge 5
dicembre  2005,  n. 251,  della  quale  non poteva non tener conto il
legislatore  del  febbraio  2006,  proprio  ai  fini del rispetto del
canone costituzionale da ultimo invocato.
    Ne   deriva,   di   conseguenza,   un   ulteriore   dubbio  sulla
costituzionalita'  delle  nuove  norme,  posto che al principio della
ragionevole durata del processo arrecano un indubbio vulnus «le norme
procedurali che comportino una dilatazione dei tempi del processo non
sorrette  da  alcuna  logica  esigenza,  non  essendo  in  altro modo
definibile  la  durata  ragionevole  del  processo se non in funzione
della  ragionevolezza degli adempimenti che ne scandiscono il corso e
ne  determinano  i tempi» (Corte Cost., sentenza n. 148 del 12 aprile
2005 (4 aprile 2005).
    Contrasto con l'articolo 111, settimo comma, Cost.
    Le  osservazioni  sopra  esposte  introducono un nuovo profilo di
illegittimita' costituzionale, consistente nella violazione, da parte
della  norma qui contestata (art. 1, legge n. 46/2006), del principio
generale   ricavabile   dall'art. 111,  settimo  comma,  della  Carta
fondamentale in materia del ricorso alla Corte suprema di cassazione.
    Il sistema previgente contemplava, in effetti, oltre all'appello,
la facolta' (per l'imputato e) per il pubblico ministero di ricorrere
immediatamente  per cassazione contro la sentenza resa in primo grado
(art. 569, comma 1, c.p.p.).
    Si  trattava  di  una facolta' poco praticata in concreto, la cui
previsione poco o niente toglieva alla regola che vedeva nell'appello
il  mezzo  «tipico»  di  reazione  dell'accusa avverso le pronunce di
proscioglimento.
    E',  soprattutto,  sa  trattava  di  una facolta' ragionevolmente
esclusa  dalla  legge  (art. 569,  comma  3, c.p.p. ogni qualvolta il
ricorrente  lamentasse  una delle violazioni previste alle lettere d)
ed  e)  dell'art. 606,  comma  1, c.p.p.), ossia deducesse la mancata
assunzione  di  una  prova decisiva oppure la mancanza o la manifesta
illogicita'  della  motivazione  della  sentenza. In tali ipotesi era
infatti  prevista  la  conversione del ricorso in appello, poiche' si
riteneva  che il giudice di merito di secondo grado fosse, sotto ogni
profilo  (anche  per  «specifica  formazione  professionale») il piu'
adatto   a   valutare   irregolarita'   consistenti  in  una  erronea
valutazione  del  compendio  probatorio  e  comportanti  la possibile
rinnovazione  dell'istruzione  dibattimentale  o l'integrazione della
parte motiva della pronuncia del giudice a quo.
    Divenuta  regola  quella  che  era  l'eccezione,  non  ci si puo'
esimere dall'interrogarsi circa la congruita' del mezzo al fine anche
sotto  il  profilo  del rispetto dell'art. 111, settimo comma, Cost.,
dal momento che:
        da  un  lato, non e' certamente piu' sostenibile - quantunque
il  citato  art. 569,  comma  3, non sia stato modificato dalla legge
n. 46/2006  -  che  il ricorso per cassazione avverso la pronuncia di
proscioglimento  possa  essere limitato nei vizi denunciabili, stante
l'impossibilita'  della  sua  conversione in un mezzo di impugnazione
(l'appello, appunto) non piu' ammesso (ed in questo quadro si colloca
la nuova formulazione dell'art. 606 c.p.p.);
        dall'altro,  e'  di  tutta evidenza il contrasto che sussiste
tra  la  nuova  conformazione  funzionale  della Corte di cassazione,
divenuta  tendenziale giudice unico delle sentenze di proscioglimento
e  chiamata  a  «rivalutare» le risultanze probatorie, ed il ruolo di
«ultima  e  suprema  istanza  giurisdizionale» che caratterizza detto
Giudice [cfr. Corte cost. (ord.), 5 maggio 1983, n. 131, in Giurispr.
costit., 1983, 1, 787].
    Non  sembra  affatto contraddire la tesi qui sostenuta - tesi che
ha  un  autorevolissimo punto di riferimento nel messaggio in data 20
gennaio  2006,  con  cui il Presidente della Repubblica ha restituito
alle  Camere  il  testo  del disegno di legge poi divenuto la novella
n. 46/2006  - quanto a suo tempo affermato dalla Consulta a proposito
delle  funzioni  del  giudice  di  legittimita';  ossia non essere in
contrasto  con  la  Costituzione,  e  segnatamente  con  il  disposto
dell'art. 111,  secondo  comma, di questa (secondo il testo anteriore
alla  riforma del 1999), che alla suprema Corte romana siano affidati
compiti  ulteriori  rispetto  a  quelli «che tradizionalmente (...) e
necessariamente  la  caratterizzano,  consistenti  nel  giudicare dei
ricorsi  "per  violazione di legge" avverso le sentenze (...)» (Corte
cost., 12/19 giugno 1974, n. 184, in Giust. pen., 1974, I, 421).
    La  suddetta  pronuncia  della Corte costituzionale riguarda(va),
infatti,  una  modifica  apportata  nel 1974 all'art. 538 dell'allora
vigente  codice  di  rito  penale, in materia di rettificazione degli
errori non determinanti annullamento.
    In  tal  caso,  invero, il giudice delle leggi aveva «salvato» le
funzioni  correttive  di merito attribuite alla Cassazione, ma si era
trattato  di  un'ipotesi  del  tutto  marginale,  in cui era comunque
escluso    che   si   potessero   «assumere   nuove   prove   diverse
dall'esibizione  di  documenti»  (art. 538, ult. comma, c.p.p. 1930):
un'ipotesi, insomma, neppure paragonabile, per importanza e «impatto»
sul  sistema,  al  ruolo  di giudice (anche) di merito che il supremo
Collegio  si  trovera'  a ricoprire una volta trasformato - ex art. 2
legge  n. 46/1006  -  in giudice unico ed esclusivo delle rimostranze
contro le sentenze liberatorie di primo grado.
    In  definitiva,  ad  avviso di questo giudice, dalla natura della
Corte  suprema  di cassazione quale supremo ed ultimo presidio contro
le  possibili  violazioni  di  legge  ascrivibili  alle sentenze e ai
provvedimenti  in materia di liberta' personale dei giudici di merito
(art. 111,  settimo  comma,  Cost.)  non  deriva  giocoforza che alla
medesima  non  possano  essere attribuite anche funzioni diverse, che
comportino   la   necessita'   di  esaminare  parte  degli  atti  del
procedimento.
    Siffatta  «deviazione»,  tuttavia,  deve  essere  ragionevolmente
contenuta  e  non  deve alterare in misura significativa la struttura
dell'istituto del ricorso di legittimita'.
    Ed   e'   proprio  questa  «ragionevolezza»  che  sembra  mancare
nell'architettura processuale predisposta dalla legge n. 46 del 2006,
soprattutto   ove   si  rifletta  sulle  conseguenze,  si  ribadisce,
dell'accentramento in un unico giudice di cause che, avendo come base
conoscitiva  l'intero fascicolo processuale, possono anche comportare
la  necessita'  di  «rileggere»  la  quasi totalita' degli atti danti
causa del vizio denunciato.