IL TRIBUNALE

    Ha pronunciato la seguente ordinanza ai sensi dell'art. 23, legge
11  marzo  1953,  n. 87  (letta  alla  pubblica udienza del 20 luglio
2006).
    In  data  1° settembre 2006, Moahmed Ammar e' stato arrestato dai
Carabinieri  del  N.O.R.M.  di  Ravenna  nella  flagranza  del  reato
previsto  dall'art. 73,  comma  1-bis,  d.P.R. n. 309/1990 e condotto
davanti  al  giudice  del  dibattimento  ex  art. 558  c.p.p.  per la
convalida ed il giudizio direttissimo.
    Ad esito dell'udienza, il Tribunale ha convalidato l'arresto.
    Moahmed  Ammar,  quindi,  ha  richiesto  il  giudizio  abbreviato
condizionato  alla  produzione di documenti relativi al proprio stato
di tossicodipendente.
    Conseguentemente    e'    stata   emessa   ordinanza   ai   sensi
dell'art. 438, quinto comma del codice di rito.
    All'odierna  udienza  la  difesa ha depositato i documenti. Si e'
proceduto, poi, alla discussione.
    All'imputato  viene  contestata la detenzione di circa sei grammi
di eroina, non finalizzata all'uso esclusivamente personale.
    Ritiene  il  giudicante  che,  alla  luce  delle  modalita' della
detenzione,   delle   condizioni   soggettive   dell'imputato  e  del
quantitativo   non   esiguo  della  sostanza  detenuta,  il  pubblico
ministero  abbia  dimostrato  l'insussistenza  della  detenzione  per
esclusivo uso personale, elemento negativo della condotta.
    L'imputato,  peraltro,  in  sede  di  interrogatorio,  pur avendo
negato  nella circostanza la disponibilita' dell'involucro contenente
la  droga  (del  quale  egli  si  disfo'  prima di essere fermato dai
Carabinieri,  come  ebbero  modo  di  vedere gli stessi militari), ha
ammesso  di  avere a volte ceduto eroina agli amici al fine di potere
acquistare droga per il proprio uso personale.
    Al   giudicante   pare   configurabile  nel  caso  di  specie  la
circostanza  attenuante ad effetto speciale prevista dal quinto comma
dell'art. 73,  d.P.R.  n. 309/1990  (fatto  di  lieve  entita), avuto
particolare  riguardo  alla  non elevata quantita' dello stupefacente
detenuto,   in  parte  verosimilmente  detenuto  dall'Ammar  per  uso
personale:  l'episodio  delittuoso,  nel  suo insieme, in riferimento
alla  consistenza  qualitativa  e  quantitativa  della  droga oggetto
dell'addebito,  presenta  connotati  tali da poter essere definito di
minore  offensivita'  per la collettivita' (in proposito cfr., fra le
ultime,  Cass. 19 ottobre 2004, Bassi e altri; Cass. 3 novembre 2004,
Nwbodo e altri Cass. 2 dicembre 2004, Grado e altri; Cass. 3 febbraio
2005, Pronesti'; Cass. 21 giugno 2005, Lantani e altro).
    In  diritto,  va ricordato l'orientamento della giurisprudenza di
legittimita', cosi' costante da costituire «diritto vivente», secondo
il  quale,  con  la  previsione  dell'art. 73,  quinto  comma, d.P.R.
n. 309/1990,  non  si e' introdotta una fattispecie autonoma di reato
bensi'  una  circostanza attenuante ad effetto speciale (cosi', anche
di  recente,  Cass. 29 settembre 2005, Frank; Cass. 24 febbraio 2005,
Cianchetta;  Cass. 21 dicembre 2004, D'Aquilio), soggetta ovviamente,
nel  caso  di  concorso  con  una  o  piu' circostanze aggravanti, al
giudizio di comparazione previsto dall'art. 69 quarto comma c.p., (in
questo senso, espressamente, cfr. Cass. 15 ottobre 2002 Mazzei; Cass.
17  aprile 1998, Piccardi; Cass. 12 dicembre 1997, Vassalli; Cass. 16
aprile  1997,  Bettoschi;  Cass.  8  luglio  1993,  Cappelli; Cass. 4
novembre 1992, Pezzolet), con l'ulteriore conseguenza che, in caso di
ritenuta  equivalenza,  la  pena  e' determinata senza tener conto di
alcuna  delle circostanze, ai sensi dell'art. 69, terzo comma, codice
penale.
    Questo orientamento non dovrebbe essere oggetto di ripensamenti a
seguito  della  modifica  del  quinto  comma,  operata dalla legge 21
febbraio  2006  n. 49,  atteso  che  la  formulazione  della norma e'
rimasta  identica,  fatta  eccezione  per  la  distinzione fra droghe
«pesanti»  e  droghe «leggere», superata anche nella fattispecie base
di cui al primo comma dell'articolo 73.
    Il  quarto  comma  dell'art. 69 c.p. prescrive che il giudizio di
comparazione  (o di bilanciamento) delle circostanze sia esteso anche
alle circostanze inerenti alla persona del colpevole.
    Detto  comma  e'  stato  modificato  dall'art. 3  della  legge  5
dicembre  2005  n. 251,  pubblicata  nella  Gazzetta  Ufficiale del 7
dicembre  2005  ed  entrata in vigore il giorno successivo: a seguito
della «novella» (consistita nell'aggiunta della locuzione: «esclusi i
casi  previsti dall'articolo 99, quarto comma, nonche' dagli articoli
111  e  112,  primo  comma,  numero  4),  per  cui  vi  e' divieto di
prevalenza  delle  circostanze  attenuanti sulle ritenute circostanze
aggravanti»),  nel  caso di recidiva reiterata, eventuali circostanze
attenuanti potranno tutt'al piu' essere valutate equivalenti rispetto
alla recidiva medesima.
    Nella   fattispecie  l'imputato  e'  recidivo  reiterato,  avendo
riportato  due  condanne  definitive per delitti dolosi (l'una ad una
pena  pecuniaria  per il reato di cui all'art. 496 c.p., commesso nel
1993, e l'altra alla pena di dieci mesi di reclusione e 2.000 euro di
multa per detenzione di sostanza stupefacente, riconosciuta l'ipotesi
attenuata).
    La  recidiva  reiterata  puo' essere ritenuta, pur in mancanza di
una  precedente  apposita  dichiarazione  giudiziale  dello status di
recidivo,   dichiarazione   che  non  ha  natura  costitutiva  (Cass.
16/3/2004, Marchetta e Cass. 6 maggio 2003, Andreucci).
    La  finalita'  del giudizio di comparazione previsto dall'art. 69
c.p.,  che  attribuisce  al giudice la valutazione della prevalenza o
equivalenza  in  caso  di  concorrenza  fra circostanze aggravanti ed
attenuanti,  e'  quella  risultante  dallo schema dell'art. 133 c.p.,
dovendosi  cosi'  valutare  il  fatto  delittuoso, nell'esercizio del
potere   discrezionale   riconosciuto   da   tale  norma,  nella  sua
complessita',  avuto  anche  riguardo  alle  circostanze  inerenti la
persona  del  colpevole,  dando  poi  rilievo  a  quello  od a quegli
elementi  positivi o negativi qualificanti il reato ed il suo autore,
ritenuti  maggiormente  significativi  o di valore decisivo; in altri
termini,  si  tratta  di  apprezzare  la personalita' del colpevole e
l'entita'  del  fatto,  onde conseguire il perfetto adattamento della
pena  al  caso  concreto  (in questo senso cfr., di recente, Cass. 28
giugno 2005, Matti).
    Nel caso di specie, va evidenziato che la gravita' del fatto e la
conseguente  pericolosita'  della condotta risultano contenute (avuto
riguardo  alla detenzione di un quantitativo non elevato di eroina da
parte  di soggetto tossicodipendente) e che dei due precedenti penali
dell'imputato uno e' assai modesto e risalente nel tempo.
    In  considerazione  di  questi  elementi,  prima  della ricordata
«novella»,  la  circostanza  attenuante  ad  effetto speciale sarebbe
stata  ritenuta  senz'altro  prevalente  sulla  contestata  recidiva,
valutazione  ora  preclusa dalla formulazione dell'art. 69 ult. comma
codice penale.
    Nel   caso  di  specie,  dunque,  concessa  detta  attenuante  in
equivalenza  con la contestata recidiva, la pena minima da infliggere
all'imputato  - prima della applicazione della diminuente per il rito
-  sarebbe  quella  di sei anni di reclusione e 26.000 euro di multa,
prevista  dall'art. 73,  comma  1-bis,  d.P.R.  n. 309/1990, pena che
appare  manifestamente  sproporzionata  e  non adeguata rispetto alla
condotta posta in essere dall'imputato.
    Non  sembrano  esservi  interpretazioni  alternative  della nuova
disposizione:  in  particolare,  si  ritiene  che la stessa non possa
riferirsi  alle  sole  attenuanti inerenti alla persona del colpevole
(si  tratterebbe  solo  del vizio parziale di mente - art. 70, ultimo
comma c.p.) ovvero a quelle non ad effetto speciale (la lettera della
norma non pare consentire questa limitazione).
    Nel   momento,  poi,  in  cui  la  recidiva  viene  correttamente
contestata  dal  Pubblico  Ministero  (e,  trattandosi di circostanza
aggravante, inerente la persona del colpevole, dovrebbe essere sempre
contestata:  v. artt. 417, 429 e 552 c.p.p.), non pare fondato - pena
una  violazione  del  disposto  normativo  - consentire al giudice di
sottrarre la stessa circostanza al giudizio di comparazione.
    Se  per  un verso pare legittimo non applicare l'aumento di pena,
quando  non  si  tratti  di  uno  dei  delitti indicati all'art. 407,
secondo  comma, lett. a) c.p.p., in presenza di un recidivo reiterato
(aumento  non  obbligatorio  -  si  ritiene  -  al  di fuori dei casi
previsti  dall'art. 99,  quinto  comma,  c.p.),  per  altro verso non
sembra possibile ignorare una corretta contestazione di tale forma di
recidiva  per  evitare effetti ritenuti ingiusti (questa e' la prassi
che risulta essere seguita da alcuni giudici di merito).
    L'attuale  formulazione  dell'art. 69,  quarto  comma  c.p., come
modificato  dall'art. 3  della  legge  5 dicembre 2005, n. 251 - come
gia'  sostenuto  da  questo  Tribunale  in  tre  ordinanze emesse nel
gennaio scorso - appare in contrasto, innanzitutto, con l'articolo 3,
primo comma Cost. e, quindi, con il principio di ragionevolezza quale
accezione particolare del principio di uguaglianza.
    E'  noto  che la Corte costituzionale ha piu' volte affermato che
rientra  nella  discrezionalita'  del  legislatore  la determinazione
della quantita' e della qualita' della sanzione penale; nel contempo,
pero',  il  Giudice  delle leggi ha evidenziato in numerose pronunzie
(cfr.,  ad es., le ordinanze n. 438 del 2001, n. 207 del 1999, n. 435
del  1998,  n. 456 del 1997, n. 368 del 1995) che l'esercizio di tale
discrezionalita'  puo'  essere  sindacato quando esso non rispetti il
limite  della ragionevolezza e dia luogo, quindi, a una disparita' di
trattamento palesemente irragionevole.
    Anche  da  ultimo,  il  giudice  delle  leggi  ha  opportunamente
ribadito  che  «a  prescindere  dal  rispetto  di  altri parametri la
normativa  deve  essere  anzitutto  conforme  a criteri di intrinseca
ragionevolezza» (cosi' la sentenza n. 78 del 10-18/ febbraio 2005).
    La    sproporzione    e    l'irragionevolezza   del   trattamento
sanzionatorio per casi quali quello in esame confliggono anche con il
principio della funzione rieducativa della pena (art. 27, terzo comma
Cost.),  non  apparendo  soddisfacente, per motivare eventualmente la
compatibilita'  della  norma  in  esame  con  detta funzione, la mera
possibilita'  di  avvalersi,  solo  in  sede  esecutiva, delle misure
alternative alla detenzione previste dall'ordinamento.
    La  preclusione  imposta al giudice di formulare eventualmente un
giudizio  di prevalenza di una o piu' circostanze attenuanti rispetto
alla   recidiva   reiterata,  senza  eccezione  alcuna,  comporta  un
appiattimento   del  trattamento  sanzionatorio  per  situazioni  che
potrebbero essere assai diverse e potrebbe imporre - come nel caso di
specie  - l'applicazione di una pena manifestamente sproporzionata ed
irragionevole,   l'espiazione   della  quale  non  consentirebbe  una
rieducazione del condannato.
    L'irragionevolezza  della  norma e la violazione del principio di
uguaglianza  sembrano  evidenti  nel momento in cui la preclusione in
esame  prevista  dal  legislatore  a  carico  del  recidivo reiterato
(sanzionato  in  quanto  tale  da molte altre disposizioni introdotte
dalla  legge 5 dicembre 2005, n. 251), vale a dire di colui che, alla
luce  del  novellato art. 99 c.p., abbia commesso due delitti dolosi,
indipendentemente  dalla  gravita'  degli stessi, dalle pene irrogate
(non  solo  nel quantum, ma addirittura nella specie) e dalla data di
commissione  dei  fatti  precedenti,  a  differenza di altri casi nei
quali  il  legislatore  ha  opportunamente dato rilievo alla natura e
qualita'  delle  precedenti condanne e/o al trattamento sanzionatorio
in  concreto  irrogato  (si  pensi,  ad  esempio,  a  quanto previsto
dall'art. 59,  legge  24  novembre  1989 n. 689 in tema di condizioni
soggettive ostative alla sostituzione della pena).
    Ad una diversa valutazione si sarebbe potuti pervenire qualora il
legislatore  avesse limitato la preclusione in esame ai soli recidivi
reiterati,  condannati  per  reati  di una certa gravita' (si pensi a
quanto  lo  stesso  legislatore ha statuito, novellando l'art. 62-bis
c.p., in tema di concessione delle attenuanti generiche).
    Va  evidenziato  a  questo  punto  che  -  con  una  recentissima
pronunzia  (sentenza 21 giugno - 4 luglio 2006, n. 257), con la quale
e'  stata  dichiarata  la parziale illegittimita' dell'art. 30-quater
delle  norme  sull'ordinamento  penitenziario, introdotto dall'art. 7
della  stessa  legge 5 dicembre 2005 n. 251 - la Corte costituzionale
ha  ribadito  che  il  legislatore  in nessun caso puo' obliterare la
finalita'  rieducativa  della  pena  ed ha confermato, richiamando la
propria sentenza n. 306 del 1993, che la tendenza alla configurazione
normativa  di  «tipi  d'autore»  appare difficilmente compatibile con
detta ineludibile finalita'.
    Pur esaminando le preclusioni introdotte dalla nuova normativa in
tema  di  concessione  dei  permessi premio ai condannati, il Giudice
delle leggi ha espresso valutazioni che risultano comunque pertinenti
anche  alla  questione in esame, censurando la scelta del legislatore
di  avere  accomunato fra loro «le posizioni dei recidivi reiterati -
senza  alcuna  valutazione della «qualita» dei comportamenti del tipo
di  devianza,  della  lontananza  nel  tempo fra le condanne ed altri
possibili  parametri  individualizzanti»: in questo modo - afferma la
Corte  -  «l'opzione  repressiva  finisce  per relegare nell'ombra il
profilo rieducativo».
    La  questione  proposta, dunque, appare rilevante nel giudizio de
quo  (dovendo  il  tribunale emettere una sentenza di condanna ad una
pena  minima ritenuta sproporzionata e non adeguata al caso concreto)
e  manifestamente  non  infondata  (alla  luce  delle  valutazioni in
precedenza espresse).