LA CORTE DI APPELLO

    Sulla  eccezione  di  illegittimita' costituzionale dell'art. 593
c.p.p.,  come modificato dall'art. 1, legge n. 46/2006 e dell'art. 10
della  stessa  legge,  proposta  all'udienza  del  22  marzo 2006 dal
procuratore generale;
    A scioglimento della riserva in data 22 marzo 2006,

                     O s s e r v a i n f a t t o
    Con  sentenza  del  Tribunale  di Brescia in data 3 dicembre 2004
Maggioni   Battista  Elia  e  Pucillo  Giuseppina  venivano  ritenuti
colpevoli  di reati di violenza sessuale aggravata loro contestati ai
capi  A)  e  C)  del capo di imputazione e condannati rispettivamente
alla  pena di anni quindici di reclusione ed ad anni dieci e mesi sei
di reclusione.
    La  sentenza  contestualmente  assolveva per non aver commesso il
fatto,   Molinari   Franca,   inserviente,   e   Maldina   Donatella,
coordinatrice  presso la medesima scuola materna, dal reato di cui al
capo C) e la Molinari anche dal reato di cui al capo B).
    Avverso  detta  sentenza  presentavano  appello  le  difese degli
imputati   Maggioni   e  Pucillo,  che  chiedevano  in  principalita'
l'assoluzione  dei  loro assistiti, e il Procuratore della Repubblica
presso  il  Tribunale  di  Brescia che chiedeva invece l'affermazione
della  penale  responsabilita'  delle  imputate  assolte,  Maldina  e
Molinari.
    In  virtu'  dell'art. 10, comma 2, legge n. 46/2006 si imporrebbe
la dichiarazione di inammissibilita' dell'appello del p.m.
    All'odierna  udienza  il  procuratore  generale, preso atto delle
limitazioni   alla   facolta'   di  appello  del  pubblico  ministero
introdotte  dalla  sopravvenuta  modifica  dell'art. 593  c.p.p.  per
effetto  della  previsione  di  cui  all'art.1,  legge  n. 46/2006, e
ritenute  dette  limitazioni operanti anche nei procedimenti in corso
secondo  lo schema di cui all'art. 10 cit., eccepiva l'illegittimita'
costituzionale  della  norma  da  ultima  citata con riferimento agli
artt. 3, 24, 25, 11 e 112 della Costituzione.

                   O s s e r v a i n d i r i t t o
    Con   la   norma,   della   cui  legittimita'  costituzionale  il
procuratore  generale  dubita,  la  disciplina  dei  casi  di appello
prevista  dall'art.  593 c.p.p. e' stata profondamente modificata con
particolare    riguardo    all'appellabilita'   delle   sentenze   di
proscioglimento  pronunciate  in  primo  grado,  ad  eccezione  delle
sentenze   emesse  a  seguito  di  giudizio  abbreviato  e  di  altre
specificamente indicate.
    La  previgente  normativa  escludeva tale appellabilita' al terzo
comma  del  citato  art.  593,  sia per il pubblico ministero che per
l'imputato,  con riferimento alle sentenze relative a contravvenzioni
punite con la pena dell'ammenda o con pena alternativa, ed al secondo
comma,   limitatamente   al   solo   imputato,  per  le  sentenze  di
proscioglimento perche' il fatto non sussiste o per non aver commesso
il fatto.
    Per   effetto  della  recentissima  modifica,  il  secondo  comma
dell'art.  593  c.p.p.,  nell'attuale  formulazione,  consente ora al
pubblico  ministero  ed  all'imputato  di  appellare  le  sentenze di
proscioglimento  solo  allorche'  con  i  motivi di appello, ai sensi
dell'art.   603   cpv.   c.p.p.,   venga  richiesta  la  rinnovazione
dell'istruzione dibattimentale per l'assunzione di prove sopravvenute
o  scoperte  dopo il giudizio di primo grado e dette prove abbiano il
carattere   della   decisivita',  prevedendosi  dal  punto  di  vista
procedurale  che  il giudice dell'appello, ove in via preliminare non
ammetta la rinnovazione dell'istruttoria, dichiari l'inammissibilita'
del  gravame,  e  che entro il termine di quarantacinque giorni dalla
notificazione  della  relativa  ordinanza  le  parti possano proporre
ricorso per cassazione anche avverso la sentenza di primo grado.
    L'art. 10, legge n. 46/2006 prevede poi che la legge stessa trovi
applicazione  per  i  procedimenti in corso, disponendo che l'atto di
appello  proposto  avverso  una  sentenza  di  proscioglimento  prima
dell'entrata   in   vigore   della  nuova  normativa  sia  dichiarato
inammissibile con ordinanza non impugnabile e che entro il termine di
quarantacinque  giorni  dalla  notificazione  di  quest'ultima  possa
essere  presentato  ricorso  per  cassazione  avverso la decisione di
primo grado.
    Tanto premesso e richiamando quanto precedentemente esposto sulla
vicenda  processuale,  e' evidente la rilevanza nel presente giudizio
della questione proposta dal Procuratore generale. Al procedimento in
esame,  per  effetto  della citata norma transitoria, deve senz'altro
applicarsi,  invero,  la  nuova  disciplina;  essendo  di conseguenza
l'appello in discussione soggetto a declaratoria di inammissibilita',
con   la   conseguente   possibilita',   per  il  pubblico  ministero
appellante,  di esperire il ben diverso e piu' delimitato rimedio del
ricorso per cassazione 1).
    Il   requisito   della   rilevanza   dell'eccezione   e'   dunque
sussistente.
    Altrettanto  deve  concludersi, peraltro, in ordine all'ulteriore
presupposto della non manifesta infondatezza della questione.
    E'  opportuno  premettere  che, per quanto la novella legislativa
abbia  ad  oggetto l'appellabilita' delle sentenze di proscioglimento
da  parte  sia  dell'imputato  che  del  pubblico  ministero,  e' nei
confronti  di quest'ultimo che la limitazione dell'accesso al gravame
in  discussione  assume  portata  preponderante  e,  sostanzialmente,
rilievo   centrale.   All'imputato  era  invero  gia'  inibita  dalla
precedente   normativa  la  possibilita'  di  appellare  sentenze  di
proscioglimento  con  formula  piena. Ma, a prescindere da questa pur
pregnante   circostanza,   non  occorre  spendere  molte  parole  per
evidenziare  come in generale, a fronte di una pronuncia assolutoria,
l'interesse  ad  impugnare  si  concentri  in  concreto  sul pubblico
ministero piu' che sull'imputato.
    L'incidenza   di   una   siffatta   limitazione   sui  poteri  di
impugnazione  del  pubblico  ministero  non  richiede,  a  sua volta,
particolare  commento.  E'  sufficiente osservare come per effetto di
essa   l'ufficio   della   pubblica  accusa  si  veda  privato  nella
grandissima maggioranza dei casi del potere di appellare una sentenza
di  proscioglimento  in  primo  grado.  L'esercizio  di  tale  potere
presuppone  infatti,  nell'attuale  previsione  normativa,  che nuove
prove siano emerse dopo il giudizio di primo grado e, per giunta, che
esse si presentino come decisive per il giudizio. Ove la marginalita'
statistica  di una situazione cosi' descritta puo' essere agevolmente
apprezzata   da   chiunque   abbia   minima   esperienza  delle  cose
giudiziarie.
    Una  deprivazione  di facolta' processuali di tale portata impone
un controllo sulla ragionevolezza della relativa previsione normativa
e cio' soprattutto nel momento in cui le predette facolta', in quanto
riferite   alla  figura  istituzionale  del  pubblico  ministero,  si
ricollegano a valori di fondamentale rilevanza costituzionale.
    Viene in risalto in primo luogo, a questo proposito, il principio
dell'obbligatorieta'  dell'esercizio dell'azione penale, da parte del
pubblico ministero, di cui all'art. 112 della Costituzione.
    La  centralita'  del  principio in parola nel sistema complessivo
della  giurisdizione penale e' data, vale la pena qui ricordarlo, non
solo dal suo contenuto specifico, ma altresi' dalla sua funzionalita'
alla  concreta  attuazione  di  valori a loro volta caratterizzati da
valenza costituzionale.
    E'   dato   acquisito   da   tempo  nella  stessa  giurisprudenza
costituzionale,  formatasi sulle norme del codice di procedura penale
ora  vigente  a  partire dalla sua entrata in vigore, che l'esercizio
dell'azione  penale  da  parte  del pubblico ministero, ufficio non a
caso  interno ed integrante dell'ordine giudiziario nella visione del
legislatore   costituente,   sia   manifestazione   del  fondamentale
principio  di  legalita',  di cui all'art. 25 della Costituzione, nel
suo aspetto sostanziale, in quanto esso esprime, cioe', la necessita'
che  alla commissione di reati, lesivi di interessi e valori spesso a
loro  volta  di  rango costituzionale o comunque di elevata rilevanza
sociale, segua l'inflizione di una pena 2).
    Non va peraltro trascurato, in questa prospettiva, il rilievo del
diritto  di  difesa  garantito  dall'art. 24 della Costituzione anche
alle  parti offese dei reati. Tale diritto non puo' ritenersi attuato
dalle  sole  norme  connesse all'istituto della costituzione di parte
civile  nel  processo  penale,  rispetto  al  quale,  a dire il vero,
l'art. 6   legge   n. 46/2006,  modificando  l'art.  576  c.p.p.  con
l'escludere  il  riferimento operativo della facolta' di impugnazione
della  parte  civile  al  mezzo  di  gravame previsto per il pubblico
ministero,  continua  a  rendere  possibile  l'appello  di essa parte
civile  avverso  la  sentenza  di proscioglimento di primo grado, sia
pure  ai  soli  effetti  della  responsabilita'  civile.  L'esercizio
dell'azione  penale  da  parte del pubblico ministero vale infatti ad
offrire alle vittime dei reati l'essenziale tutela del loro legittimo
interesse ad ottenere giustizia, a prescindere dalle possibilita' che
dette vittime in concreto abbiano di accedere al processo nelle forme
dell'azione civile ivi direttamente intrapresa.
    Detto  questo,  e'  ben  vero  che  la giurisprudenza della Corte
costituzionale  ha  affermato  come il potere di appello del pubblico
ministero  non  possa  essere  ricondotto  all'obbligo  di esercitare
l'azione  penale  3).  Ma  e' vero altresi' che il principio e' stato
dalla stessa giurisprudenza successivamente chiarito nel senso che la
facolta' di impugnazione non costituisca «estrinsecazione necessaria»
dell'esercizio  dell'azione  penale  4).  Detta  facolta' rappresenta
dunque  non  piu' che uno dei possibili sviluppi, e non il necessario
prolungamento   dell'azione   penale,   ma,  in  questa  prospettiva,
limitazioni particolarmente consistenti al potere di impugnazione non
possono  che  riverberarsi  sulla  completezza  delle possibilita' di
esercizio dell'azione. E qui ci troviamo di fronte, come si e' visto,
ad una deminutio del potere di appello del pubblico ministero tale da
ridurre lo stesso a casi marginali, per non dire estremi.
    Avuto riguardo al contesto di valori costituzionalmente rilevanti
di  cui  le  opportunita'  di  esercizio dell'azione penale sono, per
quanto   esposto,   espressione,   diviene   assolutamente   doveroso
interrogarsi  sulla  possibilita',  per  il legislatore ordinario, di
apporre  a  detto  esercizio  limitazioni di tale entita' nell'ambito
della  normale  discrezionalita'  legislativa  e sulla necessita', di
contro,  che  una  scelta  di  questo  genere  debba  essere ancorata
rigorosamente ad un canone di ragionevolezza.
    Vi  e'  pero'  anche un altro profilo di rilevanza costituzionale
che deve essere oggetto di analisi in questa prospettiva; profilo che
attiene  al principio del contraddittorio processuale posto dall'art.
111 della Costituzione.
    E'  appena  il  caso  di  precisare  che  qui non si intende fare
riferimento  al  principio del contraddittorio nella formazione della
prova,  di  cui  al  quarto  comma  della norma costituzionale appena
citata.  Oggetto  di  attenzione  deve essere invece il piu' generale
richiamo  del  secondo  comma  dell'articolo  alla  necessita' che il
processo  si svolga nel contraddittorio fra le parti ed in condizioni
di parita' delle stesse.
    Il  contraddittorio,  invero, assurge qui a valore che pervade il
processo  nella  sua  interezza e quindi necessariamente coinvolge la
fase dell'appello, che del processo costituisce passaggio essenziale.
Ed  e',  soprattutto,  valore  in  se' considerato, a prescindere dai
contingenti  interessi  delle  parti;  il  contraddittorio e' binario
privilegiato  del  percorso  processuale, garanzia di approssimazione
quanto  piu'  efficace possibile alla verita'. Ed in questa linea, la
parita'  fra  le  parti,  prima che tutela delle stesse, e' oggettiva
esigenza di un contraddittorio reale.
    Se  cosi'  e',  la  parita'  di cui si parla non puo' che inerire
anche  alla  fase dell'appello e, nell'ambito di essa, al suo momento
introduttivo  e  fondante,  ossia  la  definizione dei casi in cui e'
consentito appellare.
    Ed  allora,  non  e'  chi  non  veda  come  la  norma  della  cui
legittimita'  si discute introduca un evidente dato di squilibrio fra
le  parti; impedendo quasi totalmente al pubblico ministero l'appello
in  caso  di  esito  assolutorio del giudizio di primo grado, laddove
nell'opposto risultato della pronuncia di responsabilita' e' concessa
all'imputato piena facolta' di impugnazione.
    Questa   Corte   non   ignora   che   la  recente  giurisprudenza
costituzionale  5)  ha  ritenuto  che  il principio della parita' nel
contraddittorio non comporti necessariamente l'identita' fra i poteri
processuali  delle parti. Ma, anche in questo caso, cio' che e' stato
escluso e' un vincolo di derivazione necessaria ed assoluta fra i due
elementi.  Rimane  tutto  da  valutare,  quindi,  se  in  concreto la
disparita'  fra  determinati  poteri, a cagione della loro rilevanza,
non  alteri  in misura intollerabile l'equilibrio imposto dalla norma
costituzionale e, soprattutto, se di tale disparita' non vada pretesa
una giustificazione che la renda ragionevole.
    In  questa  ottica,  le possibilita' di appello, per quanto detto
pocanzi,  ineriscono ad uno snodo fondamentale del processo; una loro
impari   distribuzione   fra  le  parti  rientra  dunque  fra  quelle
situazioni   nelle   quali   la   non  sovrapponibilita'  dei  poteri
processuali    pregiudica   significativamente   il   principio   del
contraddittorio.
    Anche  per questo aspetto dunque, come per quello precedentemente
esaminato,  occorre  sottoporre la scelta legislativa che ha prodotto
la   modifica  dell'art. 593  c.p.p.  ad  un  accurato  scrutinio  di
ragionevolezza.
    Le  diverse  considerazioni che precedono portano a quello che, a
questo punto, si presenta come il cuore del problema; vale a dire, la
compatibilita'   della   norma   esaminata   con   il   principio  di
ragionevolezza,   desumibile,   come   e'  noto,  dall'art.  3  della
Costituzione.  Ragionevolezza  che  deve  pero' essere valutata nella
prospettiva  della  tollerabilita' del sacrificio che la norma impone
agli  altri valori costituzionali fin qui menzionati; segnatamente il
principio dell'obbligatorieta' dell'azione penale, nel suo profilo di
stretta   funzionalita'   ai   valori   del  principio  di  legalita'
sostanziale  e  del  diritto di difesa delle vittime dei reati, ed il
principio  del  contraddittorio  nella  parita'  delle parti, che da'
forma al giusto processo.
      Ebbene,  un  esame  condotto  in  questa direzione non puo' che
condurre  ad  un  giudizio di irragionevolezza della norma, dovendosi
ritenere il vulnus inferto ai principi appena citati non giustificato
da alcuna esigenza meritevole di considerazione.
    E'  da  escludersi in primo luogo la ricorrenza nella fattispecie
di  ragioni  corrispondenti  o  similari  a  quelle  che  ispirano la
previsione  di altre e diverse limitazioni dei poteri processuali del
pubblico ministero, giudicate coerenti con il dettato costituzionale,
sotto  il  profilo  del  principio  del  contraddittorio,  dalle gia'
segnalate  decisioni  della  Corte costituzionale. Quali l'esclusione
della  possibilita' per il pubblico ministero di presentare l'atto di
impugnazione  nella  cancelleria  del tribunale, diversa dal luogo di
emissione del provvedimento impugnato, ove lo stesso si trovi, di cui
all'art.  582  cpv.  c.p.p.  6), (evidentemente sorretta da motivi di
celerita'   processuale   e   comunque  posta  a  fondamento  di  una
limitazione  di  ben  minore  consistenza  delle facolta' dell'organo
dell'accusa)  o l'inappellabilita', anche in prospettiva incidentale,
da  parte  del pubblico ministero, della sentenza emessa a seguito di
giudizio  abbreviato, di cui all'art. 443, terzo comma c.p.p., ove ad
analoghe  ragioni  di  speditezza si aggiunge l'intento di favore per
l'adozione  di  riti  deflattivi  7).  Nel  caso  di  specie,  non e'
ravvisabile  alcun  risultato  di accelerazione dell'iter processuale
che  giustifichi la scelta legislativa la sostanziale soppressione di
un mezzo di impugnazione disponibile al pubblico ministero.
    Neppure  puo'  attribuirsi  rilievo  alla  particolare  posizione
istituzionale che il pubblico ministero assume nel nostro ordinamento
giudiziario, posizione caratterizzata dalla doverosa ricerca di prove
favorevoli  all'imputato  in  sede  di  indagine  e  da  un'obiettiva
considerazione  degli elementi a carico dell'imputato stesso, che non
vincola  l'ufficio  dell'accusa a richieste che siano necessariamente
intese  a  sollecitare una conclusione in termini di condanna. Questi
rilievi  sono  infatti  superati nel momento in cui ci si trova nella
fase   processuale  a  cui  attiene  la  norma  in  discussione,  che
presuppone  la  conseguita  determinazione  del pubblico ministero di
impugnare  la  pronuncia  assolutoria di primo grado per ottenere una
sentenza  di  condanna  e quindi una valutazione culminata, pur nella
particolare  prospettiva che connota l'operato dell'ufficio d'accusa,
nel  giudizio di sussistenza di congrue prove a carico dell'imputato.
Il  che,  da  un lato, pone il pubblico ministero nella condizione di
proseguire  in  secondo  grado  nell'esercizio  dell'azione penale in
attuazione  dei  valori  di  legalita'  e difesa sociale di cui si e'
ampiamente  detto  e,  dall'altro,  esige che il processo mantenga un
equilibrato  contraddittorio  fra  tali ragioni e quelle della difesa
dell'imputato,  perche' nessuna opportunita' di ricerca della verita'
venga ad essere sottratta al giudizio.
    Non puo' infine essere invocata, come correttamente osservato dal
procuratore  generale,  la previsione del primo comma dell'art. 2 del
protocollo  n. 11  della  Convenzione  europea sulla salvaguardia dei
diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali, ratificato con legge
n. 296/1997.  Se  e'  vero infatti che la citata disposizione prevede
che  chiunque venga dichiarato colpevole di un reato da un giudice di
primo  grado  ha  il  diritto  di  sottoporre  ad  un  ufficio  della
giurisdizione   superiore  la  dichiarazione  di  condanna,  e'  vero
altresi'   che  il  secondo  comma  dello  stesso  articolo  consente
eccezione  al  principio  nel  caso in cui la persona interessata sia
stata  giudicata in prima istanza da un tribunale della giurisdizione
piu'  elevata o sia stata dichiarata colpevole e condannata a seguito
di   un   ricorso   avverso   il  suo  proscioglimento;  indicazione,
quest'ultima, puntualmente corrispondente alla normativa preesistente
all'intervento legislativo oggetto della questione.
    Non   puo'  sottacersi,  di  contro,  come  la  nuova  disciplina
dell'art.  593 c.p.p. crei un'irragionevole disparita' di trattamento
laddove per un verso impedisce al pubblico ministero l'appello contro
sentenze  di proscioglimento e per altro mantiene la possibilita' per
lo  stesso  pubblico ministero di appellare una sentenza di condanna,
in  tal  modo  privilegiando  la  cura di un interesse processuale di
indubbiamente minore consistenza.
    Queste  considerazioni  inducono  a  ritenere  non manifestamente
infondata  la  questione di legittimita' della norma in oggetto con i
richiamati  artt. 24, 111 e 112 della Costituzione e quindi esistenti
i  presupposti di legge perche' gli atti vengano trasmessi alla Corte
costituzionale  per  la  decisione  in  merito,  con  la  conseguente
sospensione del procedimento.
          1)  Pur avuto riguardo all'ampliamento dei casi del ricorso
          per  cassazione  operato  dall'art.  8  della  stessa legge
          n. 46/2006  con  l'inserimento,  nel  testo  dell'art.  606
          c.p.p.,  della  mancata  assunzione  di  una prova decisiva
          anche   laddove   richiesta   nel   corso   dell'istruzione
          dibattimentale  e  della  contraddittorieta'  o illogicita'
          della   motivazione   risultante   da   atti  del  processo
          specificamente indicati dal ricorrente.
          2) Il relativo percorso culminava nella sentenza n. 111 del
          26   marzo   1993,  con  la  quale  si  riteneva  infondata
          l'eccezione  di illegittimita' costituzionale dell'art. 507
          c.p.p.   sul   presupposto  che  detta  norma  subordinasse
          l'assunzione  di  prove  non  indicate  dalle parti al solo
          requisito  dell'assoluta necessita' ai fini del giudizio, a
          prescindere  dall'eventuale inerzia o intempestivita' delle
          parti.
          3) V. sent. n. 206 del 27 giugno 1997.
          4)  V. sent. n. 110 del 1° aprile 2003; n. 165 del 9 maggio
          2003.
          5)  Sent.  n. 110  del  1° aprile 2003; n. 165 del 9 maggio
          2003; n. 46 del 27 gennaio 2004.
          6)  Sent.  n. 110  del  1° aprile 2003; n. 165 del 9 maggio
          2003; n. 46 del 27 gennaio 2004.
          7)  Sent.  n. 165  del  9 maggio 2003; n. 46 del 27 gennaio
          2004.