LA CORTE DI CASSAZIONE

    Ha  pronunciato  la  seguente  ordinanza  sul ricorso proposto da
Labate  Santo,  nato il 10 ottobre 1952, avverso sentenza del 2 marzo
2005 della Corte di assise di appello di Reggio Calabria.
    Visti gli atti, la sentenza ed il procedimento;
    Udita la pubblica udienza la relazione fatta dal consigliere Fumo
Maurizio;
    Udito  il  p.g.  in persona del sost. proc. gen. dott.ssa A.M. De
Sandro, che ha concluso chiedendo rigettarsi il ricorso;
    Udito   il   difensore   dell'imputato,  avv.  A.  Manago',  che,
illustrando  i  motivi  di  ricorso,  ne  ha  chiesto l'accoglimento,
osserva quanto segue.

                  Fatto e Svolgimento del Processo

    Labate  Santo  fu condannato alla pena di anni 12 di reclusione e
lire 3.500.000 di multa (oltre pene accessorie e misura di sicurezza)
dalla  Corte di assise di Reggio Calabria con sentenza 16 giugno 1997
perche'  riconosciuto  colpevole  dei  reati  di cui all'art. 416-bis
c.p.,  9, legge n. 575/1965, 56-629, in relazione all'art. 628, terzo
comma, nn. 3 e 7, legge n. 152/1991.
    La  Corte  di assise di appello, con sentenza 9 febbraio 2001, in
parziale   riforma,  lo  assolse  dal  reato  di  tentata  estorsione
aggravata  perche' il fatto non sussiste, rideterminando in melius il
trattamento sanzionatorio.
    La   prima  sezione  della  Corte  di  cassazione,  con  sentenza
14 febbraio  2002,  ha  annullato  con rinvio la pronunzia di secondo
grado   limitatamente   alla   assoluzione   per  tentata  estorsione
aggravata.
    La  Corte  di  assise  di  appello di Reggio Calabria, giudice di
rinvio,  con  sentenza 2 marzo 2005, ha confermato la affermazione di
responsabilita'   pronunziata   dal   giudice   di  primo  grado  con
riferimento  al  delitto di tentata estorsione aggravata e, stante la
declaratoria   di   estinzione   del   reato   contravvenzionale,  ha
rideterminato la pena, ritenuta la continuazione, in anni 11 e mesi 9
di  reclusione,  convertendo  in  euro  (1.807,59) la pena pecuniaria
originariamente  stabilita  in lire, confermando anche le statuizioni
accessorie  (interdizione  perpetua  dai  pubblici  uffici,  stato di
interdizione  legale  durante  espiazione  pena, liberta' vigilata, a
pena espiata, per la durata di anni 3).
    Per  quanto  specificamente  riguarda il tentativo di estorsione,
Labate  e' chiamato a rispondere di aver commesso atti idonei diretti
inequivocabilmente  a  costringere,  al  fine  di procurarsi profitto
ingiusto  e  con  minaccia indiretta, il suo omonimo Labate Lorenzo a
pagare  una  «tangente»  di lire 100 milioni in relazione ad opere di
sistemazione  urbanistica  assegnate dal comune di Reggio Calabria al
consorzio CON.RE.CA.
    La  prova della penale responsabilita', in ordine a tale delitto,
fu   raggiunta   dal   giudice   di  primo  grado  sulla  base  delle
dichiarazione  di  due funzionari di polizia giudiziaria (Calabrese e
Blasco),  i  quali  riferirono  che Labate Lorenzo, da loro ascoltato
nell'ambito  di  indagini  condotte,  aveva  «fuori verbale» riferito
l'episodio  poi  sintetizzato  nel capo di imputazione. Nel corso dei
dibattimento  in  primo  grado  era  stato  disposto confronto tra la
persona  offesa  (che,  ascoltata,  aveva negato la circostanza) e il
Blasco,  erano  stati assunti testi (l'ex sindaco di Reggio, Licandro
Agatino,   il   consigliere  comunale  Quattrone  Giuliano),  le  cui
dichiarazioni  erano  state ritenute riscontro alle affermazioni rese
dai due appartenenti alla polizia di Stato.
    La natura informale del colloquio tra Labate Lorenzo, da un lato,
Blasco  e  Calabrese,  dall'altro,  fu  tuttavia  ritenuta  dal primo
giudice  di  appello ragione di inutilizzabilita' delle dichiarazioni
dei  due  funzionari  di  polizia; conseguentemente, come anticipato,
l'imputato fu assolto dal delitto di tentata estorsione aggravata.
    Con  la sentenza di annullamento, la prima sezione della Corte di
cassazione  ha  ritenuto non corretta tale valutazione, asserendo che
la    sanzione    processuale    in   questione   non   e'   prevista
nell'ordinamento, con la conseguenza che - salvi ovviamente i divieti
ex  artt. 350,  commi sesto  e  settimo c.p.p. - le dichiarazioni non
verbalizzate,  rese  dalla  persona offesa potevano essere oggetto di
testimonianza indiretta da parte di ufficiali di polizia giudiziaria.
Pertanto,  rilevato  che  il giudice di secondo grado, in conseguenza
della  ritenuta  (e  dichiarata)  inutilizzabilita',  aveva omesso di
valutare  le  deposizioni di Blasco e Calabrese (in una con gli altri
elementi emersi), ha annullato, come premesso, la sentenza di appello
con  rinvio  ad  altra  sezione  della  Corte di assise di appello di
Reggio Calabria.
    Il  giudice  di  rinvio,  pur  prendendo  atto:  a) della riforma
dell'art. 111  della  Costituzione  (ad  opera  della  legge  cost.le
23 novembre  1999,  n. 2)  e  della  normativa  transitoria  ex  lege
n. 35/2000;  b)  delle  modifiche  apportate  al  sistema processuale
penale  dalla  legge  n. 63/2001;  c)  di quanto stabilito dalle S.U.
della  Corte  di  cassazione  con  sent.,  n. 36747  del  2003,  ric.
Torcasio,  ha  ritenuto di essere vincolato, ai sensi del terzo comma
dell'art. 627  c.p.p.,  dalla  pronunzia della Corte di legittimita',
intervenuta  prima  della  sentenza Torcasio, ma dopo la introduzione
delle  modifiche  apportate dalla ricordata legge n. 63/2001. Essa ha
insomma  ritenuto  che la suprema Corte avesse statuito tenendo conto
dello  jus superveniens ed avesse assunto la sua decisione sulla base
di un orientamento giurisprudenziale antecedente alla detta pronunzia
delle  S.U.,  orientamento  che,  in  tema di inutilizzabilita' della
testimonianza  indiretta della polizia giudiziaria, faceva differenza
tra  la  ipotesi  in  cui  le  dichiarazioni  del  teste  erano state
verbalizzate   (come   la   legge   impone)  e  quella  in  cui  tale
verbalizzazione non era avvenuta.
    Valutando dunque le testimonianze de relato dei due funzionari di
polizia,   unitamente  agli  altri  elementi  emersi  nel  corso  del
dibattimento,  il  giudice  di  rinvio e' giunto alla affermazione di
responsabilita'  di  Labate  Santo,  anche  in  ordine  al delitto di
estorsione aggravata.
                            R i c o r s o
    Ricorre  per  cassazione  il  difensore  dell'imputato, eccependo
innanzitutto   la  incostituzionalita'  dell'art. 195,  quarto  comma
c.p.p.,  cosi' come modificato dalla legge n. 63/2001, nella parte in
cui non prevede che non siano utilizzabili le dichiarazioni acquisite
da  parte  della  polizia giudiziaria da persone informate sui fatti,
anche  senza le modalita' di cui agli artt. 351 e 357, secondo comma,
lett. a)   e   b)   c.p.p.  Il  ricorrente  critica  in  sostanza  la
interpretazione   della  norma  data  dal  giudice  di  rinvio  e  la
conseguente  ritenuta  utilizzabilita'  delle dichiarazioni de relato
dei   verbalizzanti,   in   ossequio  al  dictum  della  sentenza  di
annullamento;  sostiene,  conseguentemente, che la Corte di assise di
appello   avrebbe   dovuto   sollevare   questione   di  legittimita'
costituzionale  della  norma  per  violazione degli artt. 3, 111 e 24
della Carta fondamentale. Il giudice di rinvio infatti ha reso la sua
sentenza,  come  premesso,  dopo  il  deposito  della  sentenza  S.U.
Torcasio,  che,  come  e'  noto,  ha  stabilito  che  il  divieto  di
testimonianza  indiretta  degli  ufficiali  di polizia giudiziaria si
riferisce  tanto  alle  dichiarazioni  che  siano  state  ritualmente
assunte  e  documentate,  quanto  ai  casi nei quali gli operanti non
abbiano  provveduto  alla redazione del relativo verbale, eludendo le
modalita' di acquisizione previste dal codice di rito. Questa, per le
S.U.,  e'  l'unica  interpretazione  costituzionalmente  compatibile.
Anche  alla  luce  di  tale  pronunzia di legittimita', il giudice di
rinvio  avrebbe  dovuto  rendersi conto, secondo il ricorrente, della
irragionevole    disparita'   di   trattamento   tra   la   posizione
dell'imputato  oggetto  di  dichiarazioni  testimoniali  verbalizzate
dalla polizia giudiziaria e quella dell'imputato nei cui confronti un
terzo abbia reso dichiarazioni ai funzionari della polizia, senza che
gli stessi, venendo meno a un loro preciso dovere, abbiano provveduto
alla verbalizzazione.
    Il  giudice  di rinvio, viceversa, ha ritenuto doversi conformare
al  principio di diritto enunziato nella sentenza di annullamento, ma
non  ha  tenuto conto della incostituzionalita' della interpretazione
seguita dalla prima sezione della Corte di cassazione (resa manifesta
dalla  sentenza  delle  S.U.  medio tempore intervenuta). Proprio per
tale  ragione,  invece,  avrebbe  dovuto  rimettere  la  questione al
Giudice delle leggi.
    Il   ricorrente  deduce  inoltre:  1)  carenze  motivazionali  in
relazione  all'art. 192,  secondo  comma c.p.p. e agli artt. 56, 629,
628,  secondo  comma  c.p. e 7, legge n. 152/1991, atteso che la mera
convergenza del molteplice non basta a integrare sempre e comunque la
prova  (che  altrimenti  si  ridurrebbe ai concetto di prova legale),
dovendo comunque il giudice procedere a valutazione della chiamata in
correita',  laddove  i giudici di rinvio hanno ritenuto di fondare il
loro convincimento basandosi quasi esclusivamente sulle dichiarazioni
dei  funzionari  di  polizia Blasco e Calabrese, che avevano riferito
(de  relato  come  si  e'  detto)  su  quanto avrebbero appreso dalla
persona  offesa;  2) mancanza di qualsiasi motivazione in ordine alla
violenza  o minaccia che avrebbe subito la persona offesa; 3) carenze
motivazionali  in  relazione  alla  sussistenza  della  aggravante ex
art. 7,  legge  n. 192/1991,  atteso  che  la  sentenza  si  limita a
riportare  la  formula di legge, ma non chiarisce donde abbia dedotto
l'uso  di modalita' mafiose o la destinazione dell'eventuale introito
a vantaggio di clan mafioso. E' poi da rilevare che il tempus commisi
delicti  e'  da  retrodatare  rispetto  a  quanto compare nel capo di
imputazione  (inizio esecuzione lavori di urbanizzazione) e dunque ad
epoca  anteriore  alla  entrata in vigore della legge n. 152/1991; 4)
carenze  motivazionali in ordine alla applicazione degli artt. 62-bis
e 133 c.p. e al conseguente trattamento sanzionatorio.
                  Diritto e motivi della decisione
    La  questione  di  costituzionalita'  sollevata dal ricorrente e'
rilevante.
    E   invero   il   convincimento   del   giudice   di   rinvio  (e
conseguentemente   la  condanna  dell'imputato)  e'  fondato  proprio
sull'utilizzo  delle dichiarazioni dei funzionari di polizia Blasco e
Calabrese,  che  riferirono  quanto  affermarono  aver  appreso dalla
persona  offesa. Tanto cio' e' vero, che il primo giudice di appello,
ritenendo  di  non  dover  utilizzare dette testimonianze, assolse il
Labate  (si  badi  bene:  proprio e solo dalla imputazione di tentata
estorsione aggravata) per insussistenza del fatto (scil. per mancanza
di  prova  sulla  sua sussistenza). In altre parole: la utilizzazione
delle   testimonianze   de   relato  dei  due  ufficiali  di  polizia
giudiziaria   e'   il   perno   sul  quale  ruota  l'intero  apparato
argomentativo   esibito   dal   giudice   di   rinvio.  La  eventuale
dichiarazione di non conformita' a Costituzione della interpretazione
dell'art. 195,   comma quarto   c.p.p.   operata  dalla  sentenza  di
annullamento  (stante,  come  si  vedra',  la  impossibilita'  per il
giudice   di   rinvio   di   fornire,  nel  caso  in  esame,  diversa
interpretazione)  si  riverbererebbe  inevitabilmente sulla selezione
del   «materiale  probatorio»  utilizzabile,  orientando  in  maniera
diversa la decisione giudiziale.
    La   questione   inoltre   non  e'  manifestamente  infondata  e,
conseguentemente,  merita  di essere sottoposta al vaglio della Corte
costituzionale, per le ragioni che di seguito si espongono.
    E' noto l'orientamento di questa Corte di legittimita' in tema di
giudizio  di rinvio e jus superveniens. E' stato infatti chiarito che
il  giudice  di  rinvio  non e' tenuto ad uniformarsi al principio di
diritto  affermato nella sentenza di annullamento nell'ipotesi in cui
la  norma,  dalla  quale  quel  principio e' stato tratto, sia stata,
nelle   more   del   giudizio,   abrogata  -  espressamente  o  anche
implicitamente   -   per   effetto  di  una  nuova  legge  che  abbia
disciplinato  diversamente  la  materia  (cosi'  Cass., sez. seconda,
sent.  n. 1635,  dep.  21 gennaio 2004, ric. Stati, RV 227797, conf.,
sez.  quinta,  sent.  n. 11990,  dep. 26 marzo  2002, ric. Agosta, RV
221722).
    Nel  caso  in  esame,  tuttavia,  come  premesso,  la sentenza di
annullamento  emessa da questa Corte (14 febbraio 2002), non precede,
ma  segue  il  novum  legislativo (la riformulazione del quarto comma
dell'art. 195  c.p.p.),  del  quale  deve dunque necessariamente aver
tenuto  conto  nel  fornire  la interpretazione imposta al giudice di
rinvio,  cui  e'  stato richiesto di far differenza tra dichiarazioni
rese   a   funzionari   di   polizia  e  da  costoro  verbalizzate  e
dichiarazioni  rese agli stessi soggetti, ma non verbalizzate. Queste
ultime,  secondo  parte  della giurisprudenza all'epoca vigente (cfr.
Cass.,  sez.  seconda,  sent.  n. 855,  dep.  25 gennaio  2000,  ric.
Lanzillotta,  RV  216514,  conf.  sez.  prima,  sent.  n. 4582,  dep.
17 luglio  1999,  ric.  Santoro,  RV 214017, conf. sez. quinta, sent,
n. 6251,  dep.  16 febbraio  1999,  ric.  Tinnirello, RV 213073), ben
potevano  essere  oggetto  di  testimonianza indiretta da parte degli
appartenenti alla polizia giudiziaria.
    Sennonche',  come sopra ricordato, prima ancora che il giudice di
rinvio  assumesse  la sua decisione, emettendo sentenza di condanna a
carico  di  Labate  (2 marzo  2005),  le  S.U.  di  questa Corte, con
sentenza  depositata  il 24 settembre 2003 (n. 36747, ric. Torcasio),
risolvendo  un  contrasto affermavano che il divieto di testimonianza
indiretta  da parte di soggetti appartenenti alla polizia giudiziaria
ha  carattere  assoluto  e  riguarda,  come  correttamente osserva il
ricorrente,  tanto  le  dichiarazioni verbalizzate, quanto quelle non
verbalizzate,  essendo  questa  l'unica  interpretazione  conforme  a
Costituzione,  anche  a  seguito delle intervenute, recenti modifiche
apportate  alla  Carta  fondamentale  in tema di giurisdizione (legge
cost.le n. 2/1999).
    Non  si  e'  dunque  al  cospetto  di  un «semplice» mutamento di
giurisprudenza  (rectius: alla composizione ad opera delle S.U. di un
contrasto    giurisprudenziale),    ma    a    una    interpretazione
costituzionalmente    orientata    (operata    oltretutto   dopo   un
significativo   mutamento   dell'impianto   costituzionale),  tesa  a
individuare  e  affermare  il  c.d.  «diritto vivente». Di talche' il
principio,  a  suo  tempo,  affermato  da  S.U.,  sent. n. 4460, dep.
19 aprile 1994, ric. Cellerini, RV 196893, in base al quale l'obbligo
del  giudice  di  rinvio  di uniformarsi alla sentenza della Corte di
cassazione,  per cio' che concerne ogni questione di diritto con essa
decisa,  e'  assoluto  ed  inderogabile,  anche se sia intervenuto un
mutamento  di giurisprudenza dopo la detta sentenza, non sembra possa
trovare applicazione nel caso di specie.
    E tuttavia un temperamento di tale asserzione sembra inevitabile.
    Invero  e'  certamente  esatto affermare che anche la statuizione
giurisdizionale  piu' elevata, come quella delle S.U., pur assolvendo
a  una  specifica  funzione  nomofilattica, non per questo, assurge a
vincolo  giuridico  vero e proprio, anche perche' non puo' modificare
la  regiudicata; essa infatti e' tale perche' si e' gia' perfezionata
sul  punto  di  diritto  deciso  nella sentenza di annullamento della
Corte  di  cassazione,  atteso  che  il principio affermato, appunto,
dalla sentenza di annullamento, in quanto immodificabile da parte del
giudice  e  sottratto  a  ulteriori  mezzi  di impugnazione, acquista
autorita'  di  giudicato interno per il caso di specie (in tal senso,
invero,  la  Corte  costituzionale  - cfr. sent. n. 50/1970, 21/1982,
247/1995,   294/1995,  224/1996  -  si  e'  piu'  volte  pronunziata,
affermando  con forza la presenza nell'ordinamento di un principio di
definitivita'  delle sentenze di cassazione, funzionale ad evitare il
regressus  in infinitum, dei giudizi; vedasi anche Cass., sez. terza,
sent. n. 12947, dep. 11 dicembre 1998, ric. Schiavone, RV 212423).
    E  tuttavia,  quando la funzione di nomofilachia esercitata dalle
S.U.  fa perno su quella che viene ritenuta ed enunziata come l'unica
interpretazione  costituzionalmente  compatibile,  sembra  incongruo,
irragionevole  e  iniquo  che  il  giudice  di rinvio debba ritenersi
vincolato  a  un'interpretazione  contra  Constitutionem  fornita dal
giudice di legittimita' e smentita da successiva sentenza delle S.U.
    Sicche' un primo aspetto della questione da sottoporre al Giudice
delle  leggi e' quello della conformita' degli artt. 627, terzo comma
e  628, secondo comma c.p.p. agli artt. 3, 24 e 111 Cost., anche alla
luce  di  quanto  a  sua  tempo  enunziato  dallo  stesso giudice con
ord. 501/2000,   con   la   quale,   nel  respingere,  per  manifesta
infondatezza,  la  questione  all'epoca sollevata (si dubitava allora
della  costituzionalita'  del  divieto  in generale per il giudice di
rinvio  di  non  uniformarsi al dictum della sentenza di annullamento
della  Carte  di cassazione), si faceva salva la facolta' del giudice
di   rinvio  di  mettere  in  discussione,  sotto  il  profilo  della
legittimita'  costituzionale,  non  gia'  le  norme  che  limitano  i
contenuti  del  giudizio rescissorio, ma - eventualmente - quelle che
sarebbe  tenuto  ad  applicare  nella  lettura  datane dal giudice di
legittimita'.
    Ne'  potrebbe, a sua volta, questa Corte di cassazione, investita
della   impugnazione   proposta   avverso   la   sentenza  di  rinvio
dall'imputato  soccombente  proprio  in  virtu' di quella lettura non
corretta,  applicare  essa  il  «diritto  vivente», individuata dalla
sentenza  delle  S.U.  (successiva,  come  si  e'  detto, a quella di
annullamento  da  parte del giudice di legittimita), in quanto, se si
ritiene  che il giudice di rinvio sia vincolato ai sensi del disposto
del terzo comma dell'art. 627 c.p.p., non si vede non debba ritenersi
vincolata  «di riflesso» e a maggior ragione) la Corte di cassazione,
giudice  di  una  impugnazione  proposta  entro  i  ristretti  limiti
consentiti dal secondo comma dell'art. 628 dello stesso codice.
    Si    tratta,   con   ogni   evidenza,   di   un   «cortocircuito
interpretativo»  che, a parere di questo Collegio, solo una pronunzia
della Corte costituzionale potrebbe neutralizzare.
    D'altronde,  se,  non  aderendo a tale impostazione, si ritenesse
che   il   giudice  di  rinvio  sia  comunque  vincolato  ai  dettami
indicatigli  con la sentenza di annullamento, anche quando essi siano
ictu oculi contrastanti con ben individuate direttrici costituzionali
(nel nostro caso, certamente, oltre che con il diritto di difesa, con
il  principio  del  contraddittorio  nella formazione della prova, in
quanto  verrebbe  attribuito valore di prova a dichiarazioni raccolte
unilateralmente   da   organi   investigativi,   cfr.   sent.   cost.
n. 32/2002),  allora  risulterebbe inevitabilmente violato (anche) il
principio  di eguaglianza ex art. 3 Cost., atteso che - evidentemente
-  si  verificherebbe  un'irragionevole disparita' di trattamento tra
l'indagato/imputato, a carico del quale siano state rese alla polizia
giudiziaria      dichiarazioni,      diligentemente      verbalizzate
dall'accipiente  e  colui nei cui confronti tale verbalizzazione (per
impossibilita',  dimenticanza,  colpevole  o  dolosa inerzia) non sia
stata  effettuata. Quest'ultimo, paradossalmente - e come nel caso in
esame  -  si  troverebbe  in  posizione peggiore in conseguenza delle
minori garanzie che l'ordinamento finirebbe per approntargli.
    In sintesi dunque sembra legittimo dubitare:
        1) della  conformita'  a  costituzione  dell'art. 627,  terzo
comma  c.p.p.  (per  contrasto  con gli artt. 3, 24, 111 Cost.) nella
parte  in  cui  non  consente  al  giudice  di  rinvio  di rilevare e
sollevare  eventuale eccezione di incostituzionalita' con riferimento
ai  principi  di  diritto impostigli dalla Corte di cassazione con la
sentenza  di  annullamento, quando lo stesso giudice di legittimita',
in  data  successiva a detta sentenza, ma anteriore alla sentenza del
giudice    di    rinvio,    abbia    poi   abbandonato,   in   quanto
costituzionalmente  incompatibile,  il principio di diritto enunziata
nel giudizio rescindente;
        2) della  conformita'  a  costituzione  (ove non si accedesse
alla   tesi   sub 1)   dell'art. 195,   quarto   comma  c.p.p.,  dopo
l'intervenuta  modifica legislativa apportata con la legge n. 63/2001
(sempre per contrasto con gli artt. 3, 24, 111 Cost.), nella parte in
cui  consente  agli appartenenti alla polizia giudiziaria di riferire
circa  notizie  apprese  da  persone  informate  sui  fatti,  le  cui
dichiarazioni  non siano state verbalizzate, mentre non consente tale
testimonianza  de  relato,  nel  caso  in  cui la verbalizzazione sia
avvenuta.
    Si  impone  dunque, previa sospensione del presente procedimento,
la trasmissione degli atti alla Corte costituzionale.
    La cancelleria si fara' carico delle comunicazioni di legge.