LA CORTE DI APPELLO Ha pronunciato la seguente ordinanza nel procedimento a carico di Alvisi Vittorio, nato a Ferrara il 24 luglio 1940. Con sentenza in data 23 gennaio 2004 il Tribunale di Ferrara ha assolto l'imputato dai delitti ascrittigli di omissione di denuncia (capo B): art. 361 c.p.) e di truffa continuata aggravata in concorso (capo C): artt. 110, 81 capoverso, 640/secondo c.p.) perche' il fatto non sussiste. Contro la sentenza di primo grado ha proposto appello il pubblico ministero, il quale deduce l'erroneita' della sentenza del tribunale e chiede che la stessa sia riformata dichiarandosi «la penale responsabilita' dell'imputato per il reato di cui al capo C) o in alternativa per il reato di cui al capo B), con conseguente condanna alla pena che si riterra' di giustizia». Dal 9 marzo 2006 e' in vigore la legge n. 46/2006 sulla inappellabilita' delle sentenze di proscioglimento. L'art. 593 c.p.p., come riformulato dalla legge, esclude che l'imputato e il pubblico ministero possano presentare appello contro le sentenze di proscioglimento, se non nell'ipotesi, prevista dall'art. 603, comma 2, di nuova prova decisiva sopravvenuta o scoperta dopo il giudizio di primo grado. A sua volta, 1'art. 10 della legge n. 46/2006, dedicato alla disciplina transitoria, dichiara le nuove norme applicabili ai giudizi in corso sin dalla entrata in vigore della legge e dispone che l'appello proposto dall'imputato o dal pubblico ministero contro le sentenze di proscioglimento prima della entrata in vigore della legge, sia dichiarato inammissibile con ordinanza non impugnabile, con facolta' - per la parte impugnante - del ricorso contro la sentenza di primo grado entro quarantacinque giorni dalla notifica del provvedimento d' inammissibilita'. Stando a queste disposizioni, la Corte dovrebbe dichiarare inammissibile l'appello proposto dal pubblico ministero avverso la sentenza del Tribunale di Ferrara di cui in premessa. Esistono, pero', dei profili della nuova normativa che legittimano il dubbio di contrarieta' della stessa alla Costituzione, come meglio si dira'. E nel caso in cui il Giudice delle leggi dovesse ritenere fondata la questione di legittimita' costituzionale e pronunciarsi nel senso che gli artt. 593 c.p.p., come novellato dalla legge n. 46/2006, e 10 di quest'ultima, sono contrari alla Carta fondamentale nella parte in cui impediscono l'appello del pubblico ministero contro il proscioglimento del giudice di primo grado (anche a prescindere dalle limitate ipotesi attuali), estendendo l'inappellabilita' anche alle impugnazioni proposte prima del 9 marzo 2006, allora questa Corte potrebbe entrare nel merito del gravame proposto e decidere per la conferma o la riforma della sentenza del tribunale. Di qui la rilevanza della questione per il presente procedimento. Gli aspetti che rendono non manifestamente infondata la questione di' costituzionalita' dell'art. 593 c.p.p., novellato, sono - come gia' ritenuto da questa Corte in analogo caso con ordinanza in data 25 maggio 2006, i cui motivi si condividono e qui si ribadiscono - i seguenti: l'avere fortemente limitato la facolta' d'appello dell'imputato e del pubblico ministero contro le sentenze di proscioglimento, rimasta in piedi in casi del tutto marginali, ha fortemente squilibrato le opportunita' delle parti nel processo; in altri termini, la cosiddetta parita' delle armi processuali. Difficilmente l'imputato ha da dolersi del proscioglimento, che va nel senso del suo interesse; e' naturale, invece, che del proscioglimento si dolga il pubblico ministero, che ha promosso l'azione penale convinto di poter sostenere l'accusa ed ottenere la condanna dell'imputato. La lettera della nuova norma, che sembra rivolgersi indifferentemente all'una e all'altra parte del processo, tradisce percio' un forte ridimensionamento delle facolta' d'appello del solo pubblico ministero. La Corte costituzionale ha insegnato, in materia di limiti all'appello del pubblico ministero contro le sentenze emesse a seguito di giudizio abbreviato, che «il principio della parita' fra accusa e difesa non comporta necessariamente l'identita' tra i poteri processuali del pubblico ministero e quelli dell'imputato e del suo difensore». 1) Ma non ha mancato di aggiungere che un eventuale diverso trattamento delle facolta' processuali - e, quindi, anche del potere d'appello - del pubblico ministero, per essere conforme a Costituzione, deve trovare una ragionevole motivazione nella peculiare posizione istituzionale del p.m., o nella funzione ad esso affidata, o nelle esigenze di una corretta amministrazione della giustiza. 2). Nulla di tutto cio' si riscontra nella novella in esame, ai sensi della quale - diversamente dal caso di cui, all'epoca, si occupo' la Corte - non si impedisce al pubblico ministero di appellare contro delle sentenze di condanna, bensi' contro delle sentenze di proscioglimento. Cio' sembra configurare una violazione della «par condicio» tra le parti. Non si vede come possa rientrare nel processo «ad armi pari» la facolta', per l'imputato, di proporre appello contro la decisione a lui negativa ed il divieto, per il pubblico ministero, di proporre lo stesso tipo di gravame in caso di sentenza a lui sfavorevole. Ne' sembrano ravvisabili esigenze di corretta amministrazione della giustizia, o fattori legati alla posizione o alla funzione tipica del pubblico ministero, che possano giustificare il diniego a quest'ultimo dell'appello contro le sentenze di proscioglimento. Al contrario, sia la funzione affidata al pubblico ministero come organo di giustizia, sia un'adeguata amministrazione di quest'ultima, dovrebbero indurre a garantire, attraverso strumenti congrui, e non deboli, il ripristino della legge violata e la punizione dei colpevoli. Non si puo' dimenticare che, alla base del processo penale, vi e' l'esigenza dello Stato di garantire il ripristino dei diritti della persona offesa; diritti che non sono puramente e semplicemente quelli relativi al risarcimento del danno cagionato dal reato, ma che si spingono alla garanzia dell'interesse della vittima di vedere tutelata dallo Stato, nella sede penale a cio' deputata, la violazione della propria sfera personale violata da una condotta che costituisce reato. E' certamente vero che, nel presente caso, il danneggiato dal reato e' il fisco e non una persona privata, ma la tutela dell'offeso non appare, per cio' solo, di minore dignita'. Va, infatti, considerato che le disposizioni relative all'imposizione tributaria sono, pur sempre, dettate in funzione della solidarieta' che lega tra loro tutti i cittadini e del piu' adeguato sviluppo che lo Stato deve offrire, a ciascun cittadino, in seno alla comunita' (artt. 53, 2 e 3 Cost.). Appare, percio', non manifestamente infondata la questione di violazione dell'art. 111 Cost. da parte della norma in esame. La «par condicio» tra le parti non si limita al contraddittorio che avviene in primo grado, ma necessariamente si estende al giudizio in grado d'appello. Il contraddittorio tra le parti in condizioni di parita' di cui parla il secondo comma dell'art. 111 Cost., non sembra coincidere col contraddittorio sulla prova di cui al quarto comma dello stesso articolo, ne' limitarsi ad esso. Ed, allora, restringere i casi d'appello solo per una parte del processo, e non per l'altra, appare lesivo della norma costituzionale. La violazione dell'art. 111 Cost. sembra prospettarsi anche per contrasto della nuova disciplina con il principio della ragionevole durata del processo. L'impossibilita' di proporre appello contro le sentenze di proscioglimento e l'allargamento dei casi del ricorso per cassazione mediante la possibilita', affidata alla Suprema corte, di scrutinare la logicita' della motivazione sulla scorta degli atti processuali, determinera' un aumento esponenziale del lavoro di quest'ultima ed, in caso di accoglimento del ricorso, un regresso alla fase del primo grado, con evidente dilatazione dei tempi processuali, scarsamente compatibile con il dettato costituzionale. Prospettandosi, altresi', il rischio, palese nel presente caso, che - se fondata - l'istanza punitiva portata avanti dal pubblico ministero si trovi frustrata per il decorso dei termini massimi di prescrizione, certamente calcolati dal legislatore quando il meccanismo processuale prevedeva altre scansioni temporali ed una diversa disciplina dei gradi del processo. Quest'ultimo rilievo permette di introdurre il ragionamento relativo ad un'altra disposizione della Costituzione, la cui non manifesta violazione e' prospettabile: l'art. 112. La corte e' consapevole che non sempre il Giudice delle leggi ha ricollegato la facolta' d'appello del pubblico ministero al principio di obbligatorieta' della azione penale. 3) Tuttavia, vi e' un altro, anche se piu' datato, indirizzo della Corte costituzionale, secondo cui l'esercizio del potere d'appello della pubblica accusa non e' altro che un'emanazione del principio fissato dall'art. 112 Cost. Se, nell'interpretazione di cui la Consulta e' organo sovrano, dovesse prevalere questo secondo indirizzo, la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 593, comma 2, c.p.p., come novellato, sarebbe non manifestamente infondata anche con riguardo all'art. 112 della Carta fondamentale. A favore di questa seconda interpretazione milita anche l'osservazione teste' accennata. La dilatazione dei tempi processuali che si e' ottenuta con l'abolizione della facolta' d'appello del pubblico ministero contro le sentenze di proscioglimento, rende assai verosimile - in ragione degli attuali tempi della giustizia - che l'istanza punitiva dello Stato, anche se fondata, non trovi soddisfazione in ragione del decorso della prescrizione. Evento - questo - che rischia di svilire l'obbligo di esercizio dell'azione penale da precetto costituzionale a stentorea, quanto vacua, proclamazione di potere destinata a non avere alcuna concreta incidenza nella pratica. La terza norma costituzionale, con la quale il nuovo art. 593 c.p.p. sembra confliggere, e' l'art. 3 della Carta fondamentale. Se il principio di ragionevolezza si sostanzia nella necessita' di trattamento dei casi simili in modo simile, e dei casi disuguali in modo disuguale, si stenta a comprendere perche' la norma attuale permetta al pubblico ministero - la cui funzione nel perseguimento dei colpevoli e' sempre la stessa - di appellare le sentenze di condanna chiedendo l'aumento di una pena ritenuta troppo blanda, e gl'impedisca, invece, di appellare le sentenze di proscioglimento, che ben piu' gravemente disattendono l'aspettativa di punizione dello Stato. Non sembra manifestamente infondata neppure la questione di legittimita' relativa alla violazione dell'articolo 97 della Costituzione, che presidia i beni del buon andamento e dell'imparzialita' della pubblica amministrazione. La Corte costituzionale si e' espressa piu' volte nel senso di ritenere applicabile questa norma anche agli organi dell'amministrazione della giustizia. 4) Ove si intenda il riferimento al «buon andamento» e all'«imparzialita» dell'amministrazione in termini non solamente di efficienza della macchina giudiziaria, ma anche di assicurazione a tutti gl'interessati, tra cui le parti lese, del piu' completo ed imparziale perseguimento del fine di repressione dei reati, allora si deve ritenere che una norma che lede le opportunita' del pubblico ministero di emendare l'erroneo proscioglimento dell'imputato, mortificando, nello stesso tempo, le legittime aspettative delle persone offese di vedersi resa giustizia dallo Stato, violi il disposto della norma costituzionale indicata. In ordine all'art. 10, comma 1, della legge n. 46/2006, osserva la corte che anch'esso sembra violare gli artt. 3, 97, 111 e 112 Cost., laddove afferma applicabile l'attuale art. 593, comma 2, c.p.p. ai procedimenti in corso. Le ragioni di questa violazione sono le stesse esposte sopra. Si profila, altresi', un'ulteriore disparita' di trattamento sotto il seguente aspetto. Non e' ragionevole l'estensione della nuova disciplina al caso degli appelli gia' proposti. E' privo di ragionevolezza (e, percio', contrario all'art. 3 della Costituzione), oltre che contrario al principio del «giusto processo» con «parita' delle armi» (e, quindi, contrario all'art. 111 della Carta), privare di un mezzo specifico di gravame la parte che vi aveva riposto congruo affidamento perche', al momento dell'impugnazione, quel mezzo le era garantito dall'ordinamento. Si sottrae, cosi', ad uno solo dei contendenti, mentre e' in corso il con traddittorio processuale, un'arma sin li' giudicata pienamente conforme e compatibile con il principio del giusto processo. Anche i commi 2 e 3 dell'art. 10 sembrano in contrasto con i principi costituzionali. Tali commi - nell'interpretazione piu' restrittiva - impongono al giudice di dichiarare, in ogni caso, l'inammissibilita' degli appelli proposti prima dell'entrata in vigore della legge n. 46/2006. L'unica possibilita' concessa al ricorrente e' di proporre ricorso per cassazione entro quarantacinque giorni dalla declaratoria d'inammissibilita' dell'appello. Le ragioni d'incostituzionalita' sopra esposte valgono anche per queste disposizioni. 1) Cost. Corte costituzionale. sent. 363/1991. 2) V. la sentenza della Corte costituzionale di cui alla nota che precede. 3) Questa connessione e' stata negata, ad esempio, dalla sentenza della Corte costituzionale n. 280/1995. 4) Cfr. le sentenze n. ri 18/1989 e 86/1982.