LA CORTE DI ASSISE DI APPELLO Ha pronunziato la seguente ordinanza nel procedimento in epigrafe indicato a carico di: Salsano Pietro, nato a Cava dei Tirreni il 12 gennaio 1964, assistito in stato di liberta' dagli avv. Vincenzo Maria Siniscalchi e Gaspare Dalia; a seguito di appello del procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Salerno. Premesso che con sentenza del 17 giugno 2005 il Salsano veniva assolto dai reati di omicidio volontario ed altro commessi ai danni di Avagliano Alfonso per non avere commesso il fatto; che avverso la sentenza proponeva appello il procuratore della Repubblica; che con ordinanza del 30 e 31 gennaio 2006 la Corte di assise di appello disponeva, in parziale rinnovazione del dibattimento, di procedersi a perizia d'ufficio al fine di accertare se appartenesse o meno anche all'imputato in esame il capello repertato in atti sul cappello sequestrato, che all'udienza odierna il p.g. ha depositato una memoria con la quale ha chiesto a questa Corte di voler sollevare la questione di legittimita' costituzionale degli artt. 593 e 606 c.p.p. come modificati dagli artt. 1 ed 8 della legge 20 febbraio 2006 perche' in contrasto con gli articoli 2, 3, 111 e 112 della Costituzione. I difensori dell'imputato hanno chiesto l'immediata declaratoria di inammissibilita' dell'appello mentre la parte civile nulla ha osservato in proposito. Premette la Corte che nella fattispecie non trova alcuna applicazione l'art. 593, secondo comma, come novellato dalla c.d. legge Pecorella bis, in quanto mentre la suddetta norma contempla il caso di prova nuova nel caso in esame, invece, la prova disposta in appello non puo' qualificarsi come nuova in quanto, non essendovi certezza di un atteggiamento di rifiuto del Salsano a tale accertamento in primo grado, lo stesso era immediatamente eseguibile anche in tale grado del giudizio, sicche' si verte in tema di art. 603 primo e terzo comma e non secondo comma, con l'ulteriore conseguenza, come gia' sostenuto, dell'inapplicabilita' dell'art. 593 che richiama solo tale comma secondo e non anche il primo ed il terzo. A prescindere, peraltro, dal fatto che l'appellante pubblico ministero non aveva fatto oggetto dell'impugnazione tale richiesta istruttoria. La questione va, pertanto, esaminata sotto il diverso e piu' generale aspetto dell' ammissibilita' dell'appello a prescindere dalla problematica della prova nuova. Al riguardo questa Corte, sotto il profilo della rilevanza della questione osserva che l'art. 10, secondo comma, della legge prevede l'immediata dichiarazione di inammissibilita', con ordinanza non impugnabile, dell'appello contro una sentenza di proscioglimento proposto dall'imputato o dal pubblico ministero, con una esplicita deroga al principio tempus regit actum, che normalmente regola la successione delle norme processuali. L'inesistenza di eccezioni alla dichiarazione di inammissibilita' e di qualsiasi valutazione da parte del giudice, diversa dalla mera constatazione che e' stato proposto un appello dal p.m. avverso una sentenza di proscioglimento (per cui si prevede anche la non impugnabilita' della relativa ordinanza) non consente di pervenire, con il mezzo della interpretazione, ad altra soluzione. Ne consegue che la questione di legittimita' costituzionale del nuovo testo dell'art. 593 c.p.p. e dell'art. 10 della legge n. 46 del 2006 proposta dal p.g. e' rilevante perche' solo la dichiarazione di incostituzionalita' delle citate norme consentirebbe a questa Corte di appello di esaminare i motivi di appello proposti dal p.m. appellante. Ex adverso deve considerarsi irrilevante la sollevata questione di incostituzionalita' del nuovo testo dell'art. 606 c.p.p., trattandosi di norma non immediatamente applicabile da questa Corte. Passando ora ad esaminare il profilo della non manifesta infondatezza, si osserva che la proposta questione appare non manifestamente infondata in relazione agli articoli 3, 25 e 111, secondo comma, della Costituzione per i motivi che di seguito, sinteticamente, si espongono. A) L'art. 111, secondo comma, della Costituzione prevede che: «Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parita', davanti ad un giudice terzo e imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata». Dunque: a) la parita' delle parti deve connotare l'intero processo, quindi anche ogni sua singola fase (esclusa quella delle indagini preliminari): b) in ogni momento del processo deve essere garantito il contraddittorio delle parti. Attraverso questi due momenti si svolge il tentativo di giungere all'accertamento della verita', in cui si sostanzia il processo. Il quarto comma della stessa norma prevede poi che: «Il processo penale e' regolato dal contraddittorio nella formazione della prova». A meno di non voler interpretare quest'ultima disposizione come una inutile ripetizione del primo comma, se ne deve dedurre che questo afferma la necessita' che il processo, nella sua interezza, si svolga nel contraddittorio fra le parti ed in condizioni di parita' delle stesse ed il quarto regoli specificamente il principio del contraddittorio nella fase della formazione della prova, tanto piu' che, nel secondo comma dell'art. 111 vi e' un espresso riferimento al fatto che le parti si muovono, in parita', davanti ad un giudice terzo ed imparziale e queste sue qualita' hanno modo di oggettivarsi non solo nel momento della acquisizione della prova, ma anche in quello della decisione del processo. Gia' dalla ordinanza della Corte costituzionale n. 421 del 2001, peraltro, si evince che il Giudice delle leggi non ha condiviso la tesi di chi sostiene che il principio della parita' delle parti sarebbe limitato alla fase del contraddittorio, perche', in realta', il principio introdotto dal secondo comma dell'art. 111 Cost. non e' altro che la veste autonoma data ad un principio desumibile dal sistema dei valori costituzionali (art. 3 Cost. in particolare). La parita' delle parti deve dunque caratterizzare ogni momento del processo in ragione di quegli che sono gli interessi di cui ogni parte e' portatrice: il p.m. esercita la pretesa punitiva dello Stato, per vedere affermata la responsabilita' di chi ha violato la legge penale, ed in questo tende a realizzare gli interessi generali della giustizia; l'imputato esercita la pretesa, costituzionalmente garantita (art. 24 Cost.) di vedersi riconosciuto innocente. La parita' delle parti deve, per quanto si e' detto, avere per oggetto anche la fase dell'appello e sin dal suo inizio, ossia dalla determinazione dei casi in cui e' consentito proporlo. B) L'art. 593 c.pp., come novellato dalla legge 46 del 2006, ha limitato il potere di impugnazione dell'imputato e del p.m. alle sole sentenze di condanna. Entrambi potranno ricorrere in cassazione avverso le sentenze di proscioglimento. Il principio di parita' di cui all'art. 111 Cost. sembrerebbe rispettato, ma cosi' non e' trattandosi di una parita' solo formale e irragionevole in quanto e' assolutamente ovvio che nessun interesse ha l'imputato ad appellare le sentenze di proscioglimento (art. 568 c.p.p. n. 4), interesse che la giurisprudenza della Cassazione aveva gia' riconosciuto in ambiti molto ristretti (cfr. Cass. sez. un. civ. n. 45276 del 24 novembre 2003). La nuova norma quindi limita il potere di impugnare all'unica parte che ha reale interesse ad impugnare una sentenza assolutoria, vale a dire al p.m. soprattutto quando, come pure a volte accade, il giudice di primo grado sia giunto al proscioglimento per avere omesso di valutare una prova decisiva. E qui non soccorre il richiamo all'art. 603 c.p.p. inserito nel nuovo art. 593 perche' l'appello e' consentito solo nella ipotesi in cui la prova non considerata dal primo giudice sia non soltanto decisiva, ma anche nuova, cio' che esclude in radice la facolta' di appellare quando l'elemento conoscitivo non preso in considerazione malgrado la sua decisivita', sia stato gia' assunto in primo grado. Si abolisce quindi del tutto il potere del p.m. di poter impugnare le decisioni che lo vedono soccombente rispetto alla sua pretesa punitiva, e, dunque, gli si impedsice di ricercare, attraverso l'impugnazione, di pervenire all'attuazione dell'accertamento della verita' materiale cui il processo penale deve tendere (Corte cost. sent. nn. 254 e 255/1992). C) Si puo' obiettare che, in luogo dell'appello, al p.m. (come all'imputato) e' dato il ricorso per cassazione, ma quest'ultimo non potra' che svolgersi nei limiti dei profili di legittimita', non piu' di merito, tassativamente previsti dall'art. 606 c.p., potendosi solo far valere, per quanto gia' indicato, una prova che oltre ad essere decisiva, sia anche nuova. Ulteriore, prevedibile obiezione e' che il doppio grado di giurisdizione non e' oggetto di previsione costituzionale. Cio' e' senza dubbio vero, ma a questo punto ci si deve chiedere se sia ragionevole una soluzione che privi solo una delle due parti del secondo grado di merito davanti al giudice di appello perche' all'imputato e' tuttora consentito proporre appello avverso le sentenze di condanna. Questa irragionevole differenza non puo' essere nemmeno giustificata con l'affermazione che nella disciplina processuale e' l'art. 24 della Costituzione, inserito nel quadro dei diritti inviolabili della persona, a far si' che sia riconosciuto, in via di principio, all'imputato il potere di impugnazione volto a far valere la propria innocenza. A parte che nella giurisprudenza della Corte costituzionale non si rinvengono precedenti idonei a far affermare che sia conforme alla Costituzione la disparita' dei poteri basata sulla mera differenza tra le parti (imputato e p.m.), come meglio si vedra' in seguito, va rilevato che l'attuazione del diritto di difesa dell'imputato attraverso l'impugnazione non puo' comportare, senza alcuna contropartita, la perdita del pari diritto di impugnazione della parte pubblica. Nel caso di appello del p.m., inoltre, la parte privata non resta inerme giacche' il diritto vivente le attribuisce il potere di presentare istanze memorie, dichiarazioni integrative della sentenza di assoluzione (cfr. Cass. n. 45276 del 24 novembre 2003, Andreotti). D) Se e' vero che il potere di appello del pubblico ministero non puo' essere ricondotto all'obbligo di esercitare l'azione penale (Corte cost. sentenze n. 280 del 1995, n. 206 del 1997, ord. 426/1998), per cui la configurazione dei relativi poteri rimane affidata alla legge ordinaria, quest'ultima, tuttavia, sara' comunque censurabile per irragionevolezza se i poteri stessi nel loro complesso, dovessero risultare inidonei all'assolvimento dei compiti previsti dall'art. 112 della Costituzione (Corte cost. sent. n. 98 del 1994). Al p.m. e' affidato non solo il compito di esercitare l'azione penale, ma anche di ricercare l'attuazione del parimenti fondamentale principio di legalita' di cui all'art. 25 Cost., nel suo aspetto sostanziale, per cui alla commissione di reati, lesivi di interessi e valori spesso a loro volta di rango costituzionale o comunque di elevata rilevanza sociale, deve seguire l'iniflizione di una pena. Non si vede, dunque, come la privazione del potere di appello del p.m. di cui si discute possa garantire il perseguimento di questo interesse della collettivita'. E) Parte della dottrina ha sostenuto che l'eliminazione del potere di appello del p.m. sarebbe giustificato dalla necessita' di evitare di esporre l'imputato al pericolo di un ribaltamento della decisione del primo giudice, davanti al quale si sono formate le prove nel contraddittorio delle parti, da parte di un giudice (di appello) che solo eccezionalmente procede alla rinnovazione della istruttoria dibattimentale (essendo l'attuale appello solo una revisione del primo giudizio e non un giudizio nuovo). Sennonche': non si comprende perche' si ritenga ancora valido questo modello processuale per il caso in cui l'imputato sia stato condannato e in cui si puo' giungere ad un ribaltamento della decisione del primo giudice senza procedere alla rinnovazione della acquisizione delle prove, bensi' sulla scorta del contenuto degli atti processuali; non si puo' affermare che un simile principio trovi copertura costituzionale nell'attuale formulazione dell'art. 111 della Costituzione, in cui il legislatore si e' solo preoccupato di stabilire che il giusto processo e' quello che si svolge tra parti eguali, nel loro contraddittorio, davanti ad un giudice terzo e imparziale. Se si fosse voluta privilegiare la nuova valutazione delle prove da parte del giudice davanti al quale sono state assunte, logica avrebbe imposto di trasformare il giudizio di appello in un giudizio rescindente, con la successiva restituzione degli atti al primo giudice. E' giocoforza allora concludere che nella riforma non si intravede nessun scopo diverso da quello di privare, puramente e semplicemente, il pubblico ministero del potere di appellare le sentenze di assoluzione, che costituiscono la negazione della pretesa punitiva da lui impersonata, operando una diminuzione dei poteri processuali di quella parte senza rispettare alcun canone di ragionevolezza. F) Che questo debba pur sempre esistere nel momento in cui si incide sul potere processuale di una delle parti del processo, lo si ricava con certezza dalle pronunzie della Corte costituzionale sulla questione della legittimita' degli artt. 443 comma 3 e 595 c.p.p. nella parte in cui non consentono al p.m. di proporre appello, sia in via principale, che in via incidentale avverso le sentenze di condanna, emesse a seguito di giudizio abbreviato. E' noto che in proposito il Giudice delle leggi ha ritenuto ragionevole che il potere di impugnazione del p.m. possa cedere rispetto all'obiettivo primario di una rapida e completa definizione dei processi svoltisi in primo grado secondo il rito abbreviato in base, cioe', ad una decisione: richiesta dall'imputato che ha rinunziato all'istruzione dibattimentale, fondata, di conseguenza, sul materiale probatorio raccolto dal p.m. nel corso delle indagini preliminari e, dunque, dalla parte che subisce la successiva limitazione in termini di appello; decisione che, comunque, ha visto realizzare la pretesa punitiva fatta valere (sent. n. 98 del 1994; ord. 421/2001, sent. 115/2001; ord. 46/2004). Proprio la mancata, parziale realizzazione della pretesa punitiva ha consentito, al contrario, di ritenere costituzionalmente legittimo il potere del p.m. di impugnare una sentenza di condanna nel processo conclusosi con il rito abbreviato se l'impugnazione riguarda il titolo del reato. In questo caso, come in quello della sentenza emessa a seguito di patteggiamento, anch'essa inappellabile, il ricorso alla prova contratta, l'attuazione del principio di economia processuale e, soprattutto, la realizzazione della pretesa punitiva di cui il p.m. e' portatore nell'interesse della collettivita', giustificano la contrazione del potere di iniziativa della parte pubblica, cosi' come, nel caso delle sentenze del giudice di pace, e' la minore offensivita' dei reati che ne sono oggetto a giustificare la scelta legislativa. In riferimento alle norme che qui si sospettano di incostituzionalita', invece, non si individua una ragione per la privazione del potere di appello da parte del p.m. G) Anzi, esiste una ulteriore incongruenza derivante dal fatto che e' possibile al p.m. appellare quando la pretesa punitiva e' stata sostanzialmente accolta, al solo fine di richiedere un aumento di pena, mentre il p.m. e' privato del potere di proporre appello in caso di assoluzione in primo grado, ossia quando la pretesa punitiva non si e' realizzata. Si tratta di un ulteriore profilo di irrazionalita' che integra la violazione del principio di uguale trattamento riferibile all'art. 3 della Costituzione, gia' autorevolmente rilevato dal Presidente della Repubblica nel proprio messaggio di rinvio alle camere del 20 gennaio 2006 in cui testualmente si osservava: «la soppressione dell'appello delle sentenze di proscioglimento, a causa della disorganicita' della riforma, fa si', che la stessa posizione delle parti nel processo venga ad assumere una condizione di disparita' che supera quella compatibilita' con la diversita' delle funzioni svolte dalle parti nel processo. Una ulteriore incongruenza della nuova legge sta nel fatto che il p.m. totalmente soccombente non puo' proporre appello, mentre cio' gli e' consentito quando la sua soccombenza sia solo parziale, avendo ottenuto una condanna diversa da quella richiesta».