LA CORTE DI APPELLO

    Nel  procedimento a carico di Molinaro Generoso, Bernardi Fabio e
Ficano  Michele,  giudicati  con sentenza del G.i.p. c/o Tribunale di
Verbania  in  data  5  dicembre  2002  che  dichiarava il non luogo a
procedere nei confronti di tutti gli imputati in ordine al reato loro
ascritto perche' il fatto non costituisce reato;
    Preso  atto  che  avverso  tale sentenza ha presentato tempestivo
appello  il  Procuratore  della Repubblica di Verbania, chiedendo che
gli imputati fossero rinviati a giudizio;
    A scioglimento della riserva ha emesso la seguente ordinanza.
    La  Corte  si  trova a dare applicazione alla recente legge n. 46
del  20  febbraio  2006,  entrata  in  vigore il 9 marzo 2006, che ha
modificato  l'art. 428 c.p.p. nel senso di precludere in ogni caso al
p.m.  e  all'imputato  l'appello  avverso  sentenze  di  non  luogo a
procedere.
    La  norma  transitoria  di  cui  all'art. 10 della predetta legge
impone  al  giudice,  innanzi al quale pende l'appello proposto prima
dell'entrata  in  vigore  della  novella,  di  emettere ordinanza non
impugnabile con la quale dichiara l'inammissibilita' dell'appello.
    Pertanto  la  normativa  in  questione  e' direttamente rilevante
nella  presente  fase  che vede la pronuncia di non luogo a procedere
appellata dal p.m.
    Appare  del  tutto  evidente  la non manifesta infondatezza della
normativa   in  questione  per  violazione  dell'art. 111  Cost.  con
riferimento all'inammissibilita' dell'appello da parte del p.m.
    La  Costituzione enuncia i principi generali cui deve conformarsi
la  normativa  che  disciplina  il  processo in Italia, stabilendo al
secondo   comma   dell'art. 111,   che  il  processo  si  svolge  nel
contraddittorio  delle  parti,  in  condizioni  di parita', davanti a
giudice terzo ed imparziale e che la legge ne assicura la ragionevole
durata.
    La  condizione di parita' che deve essere riconosciuta alle parti
dalla  legge  processuale  non  puo'  intendersi  limitata  alla mera
istruzione   probatoria   (parita'   nel   contraddittorio)  ma  deve
intendersi  in senso lato e ampio, giacche' sarebbe allora ridondante
la previsione specifica di cui al quarto comma del medesimo art. 111,
ed inoltre perche' il medesimo secondo comma prescrive che il giudice
sia  terzo ed imparziale e cio' non puo' evidentemente limitarsi alla
fase  dell'acquisizione  della  prova ma deve estendersi al complesso
delle  funzioni  giurisdizionali  esercitate  nel processo, prima fra
tutte  quella  della  valutazione  delle prove e della decisione. Per
processo  la  Costituzione  intende  l'intero  iter che conduce dalla
domanda iniziale (civile) o dalla notizia di reato (penale) fino alla
sentenza  definitiva  che  appunto  chiude  la  controversia (si veda
testualmente l'art. 24.2).
    Poiche'  nel  processo agiscono parti fisiologicamente portatrici
di interessi contrapposti, l'art. 111 Cost. disciplina dunque come la
legge  ordinaria  deve  regolamentare l'attribuzione alle parti delle
facolta'  per  far valere ed eventualmente farsi vedere accogliere le
loro  pretese. Nel processo penale il p.m. esercita, fra le altre, la
pretesa  punitiva  che  e'  ricollegata  al  principio costituzionale
dell'obbligatorieta'  dell'azione  penale,  pretesa  che consiste nel
vedere  affermata  la  responsabilita'  penale  di  chi, sottoposto a
regolare processo, sia riconosciuto colpevole. Nell'esercizio di tale
pretesa  e'  stata riconosciuta dalla Corte costituzionale al p.m. la
funzione  di  organo  teso  a realizzare gli interessi generali della
giustizia.
    L'imputato   esercita   invece   la  pretesa,  costituzionalmente
garantita  dal principio di personalita' nella responsabilita' penale
e  da  quello  di  irretroattivita'  della  legge  penale, di vedersi
riconosciuto   innocente,   attraverso   gli  strumenti  -  anch'essi
rafforzati  dalla previsione della Carta - della difesa assicurata in
ogni  stato  e  grado del procedimento anche ai non abbienti, fino al
riconoscimento del diritto alla riparazione degli errori giudiziari.
    La  legge  n. 46/2006  ha  abolito  le facolta' di appello per le
parti  a fronte delle sentenze di proscioglimento emesse a seguito di
giudizio  ordinario  o  abbreviato  o  di non luogo a procedere: cio'
significa  per  il  p.m.  non  poter  piu' impugnare decisioni che lo
vedono   soccombente  rispetto  alla  sua  fondamentale  pretesa  nel
processo,  cioe'  quella  di  vedere punito, quale finale conseguenza
dell'esercizio  dell'azione penale, il responsabile di un reato, tale
ritenuto secondo un regolare processo.
    L'imputato  con  la riforma, invece, rimane pienamente titolare -
in  virtu' del principio costituzionale del diritto alla difesa - del
potere   di  impugnare  la  decisione  giurisdizionale  che  lo  vede
soccombente   rispetto  alla  sua  pretesa  di  vedersi  riconosciuto
innocente.
    E'  evidente  che la riforma sottrae solo ad una parte (p.m.) uno
strumento  processuale  per  vedere  affermata  nel  giudizio  la sua
fondamentale  pretesa,  che trova legittimazione costituzionale cosi'
come quella dell'imputato.
    Cio'  viola  direttamente  il  principio  sancito dall'art. 111.2
Cost.  che  prevede  che  il  processo  (in  tale  dizione ricompresi
indifferentemente  quello  civile  e  quello  penale)  si  svolga  in
condizione  di  parita' di tutte le parti, cioe' in una condizione di
diritto  che assicuri a ciascun soggetto processuale eguali strumenti
per raggiungere gli obiettivi suoi propri.
    Lo  squilibrio  fra  le  parti  creato  dalla  riforma non appare
ragionevolmente  accettabile  tenendo conto dei criteri che la stessa
Corte costituzionale ha piu' volte ribadito.
    Si  e'  detto  infatti che se e' vero che non esiste una perfetta
simmetria  ed  equivalenza  costituzionale  fra esercizio dell'azione
penale  e  diritto  alla  difesa,  e'  altrettanto  vero  che sarebbe
censurabile  sotto il profilo della ragionevolezza la legge ordinaria
che,  sbilanciando  fra di loro le facolta' attribuite alle parti del
processo,   rendesse   di   fatto   il   potere   del  p.m.  inidoneo
all'assolvimento del compito che gli assegna l'art. 112 Cost.
    Con  la legge n. 46/2006, il legislatore ha di fatto sottratto al
p.m.  il  fondamentale  strumento  del  nuovo  giudizio di merito per
vedere  riconosciuta la fondatezza della sua pretesa punitiva, mentre
ha  lasciato  tale strumento alla Difesa ai fini della sua pretesa di
veder riconosciuta innocenza dell'imputato.
    Nella nostra Costituzione non e' prevista la indispensabilita' di
un   secondo   giudizio   di   merito;  ma,  si  e'  osservato,  essa
discenderebbe   dall'art. 2   del  VII  Protocollo  addizionale  alla
Convenzione  europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo che al
suo  primo  comma sancisce il diritto di «ogni persona dichiarata rea
da un tribunale ... di far esaminare la dichiarazione di colpevolezza
o  la  condanna  da  un  tribunale  della  giurisdizione  superiore»;
senonche'  e'  quella  stessa fonte internazionale a prevedere che un
secondo  grado  di merito sia fisiologicamente ammesso anche a favore
dell'accusa,  se  e'  vero che il secondo comma del medesimo articolo
prevede  esplicitamente  la condizione di chi sia stato condannato «a
seguito di un ricorso avverso il suo proscioglimento».
    E' pur vero che la medesima riforma restringe rispetto al passato
i  casi  di appellabilita' delle sentenze di proscioglimento da parte
dell'imputato  (nel  senso  di  escludere  oggi  l'appellabilita'  di
sentenze di proscioglimento perche' il fatto non costituisce reato, o
perche' non e' punibile o perche' non e' procedibile, fattispecie che
si  verifica  proprio nel presente processo ove entrambi gli imputati
hanno proposto appello contro la sentenza del Tribunale di Pinerolo),
ma  e'  del  tutto  evidente che tale restringimento non opera con la
stessa  ampiezza e radicalita' utilizzate per escludere tout court il
potere   d'appello   del   p.m.   innanzi  a  qualunque  sentenza  di
proscioglimento.
    E'  altrettanto  vero  che altre riforme hanno gia' nel corso del
tempo  ristretto  le  facolta' processuali del p.m. rispetto a quelle
riconosciute all'imputato e che tali riforme hanno superato il vaglio
di  costituzionalita'  della  Corte:  e' qui il caso di richiamare la
formulazione  dell'art. 443.3  c.p.p. (che esclude la possibilita' di
appello  da  parte  del p.m. della sentenza di condanna pronunciata a
seguito   di  giudizio  abbreviato,  anche  dopo  l'eliminazione  del
presupposto  del  consenso  del  p.m.  al  rito ex legge n. 479/1999)
ritenuta  in  linea con la riforma costituzionale dell'art. 111 dalla
Corte cost. con ordinanza n. 421/2001.
    Ma  i  motivi che la Corte aveva posto a fondamento della propria
pronuncia non appaiono estensibili anche alla riforma attuale.
    Nel confermare che la Costituzione, prevedendo la parita' di p.m.
e  imputato nel processo, non intende attribuire loro necessariamente
identita'  di  poteri  processuali,  la  Corte  ha pero' ribadito che
un'eventuale  disparita'  di  trattamento  si  giustifica  e discende
ragionevolmente  dalla  peculiare  posizione istituzionale del p.m. e
dalle   esigenze   connesse   alla   corretta  amministrazione  della
giustizia,  prima  fra tutte quella costituzionalmente prevista della
ragionevole durata del processo che, proprio nel giudizio abbreviato,
trova   attuazione   nel  senso  di  semplificare  l'istruttoria  con
l'utilizzo  immediato  di  tutto il materiale probatorio raccolto dal
p.m. senza il contraddittorio cui esplicitamente l'imputato rinuncia.
Ed  e'  allora proprio la rinuncia da parte dell'imputato ad un altro
dei  principi  cardine  del giusto processo (il contraddittorio nella
raccolta  delle  prove)  a giustificare l'asimmetria che l'art. 443.3
c.p.p.  produce  nel  sottrarre  al  p.m. la facolta' di appellare la
sentenza di condanna a seguito di abbreviato.
    Alle  considerazioni gia' svolte dalla Corte puo' aggiungersi poi
la  constatazione che il restringimento delle facolta' di appello per
il  p.m.  in  caso  di  abbreviato  aveva pur sempre come presupposto
l'avvenuta  pronuncia  di  una  sentenza di condanna, che comunque e'
realizzazione del principio dell'obbligatorieta' dell'azione penale.
    Totalmente  differente e' la situazione di diritto in cui si cala
la riforma di cui alla legge n. 46/2006.
    Innanzi  tutto  qui  al  p.m.  e'  sottratta  la  possibilita' di
appellare contro sentenze di proscioglimento dell'imputato, decisioni
che costituiscono la radicale negazione della pretesa punitiva da lui
impersonata per conto dello Stato. Nell'ipotesi di cui all'art. 443.3
c.p.p.,  egli  si  era  invece  solo visto frustrare nella pretesa di
vedere  accolta  la  sua  richiesta  di quantificazione della pena da
comminare  al  reo,  che non e' pretesa di rango costituzionale e che
dunque  puo'  ben  soccombere  innanzi all'esigenza costituzionale di
brevita' del processo.
    In  secondo luogo la riforma si applica indifferentemente a tutti
i tipi di giudizio (abbreviato o ordinario che siano e persino contro
le  sentenze  emesse  ex  art. 428  c.p.p., come quella qui in esame,
laddove   il   patrimonio   probatorio   valutabile  non  e'  neppure
definitivamente  stabilizzato con riferimento precipuo a questioni di
merito.
    Non  vi e' alcuna giustificazione della nuova asimmetria, dunque,
riconnessa   a  istituti  deflattivi  in  cui  rinunce  dell'imputato
comportino il risultato apprezzabile della definizione piu' sollecita
del processo.
    E' anche vero che una parte della dottrina processual-penalistica
ha  da  tempo  auspicato  il  superamento  del  principio di perfetta
parita'   delle   parti   nel   processo,  riconoscendo  all'imputato
condannato  in primo grado sempre il diritto a veder la sua posizione
rivalutata  da un tribunale di seconda istanza e ritenendo invece che
la  pretesa  punitiva  dello  Stato,  esercitata con l'azione penale,
possa  arrestarsi  davanti  alla sentenza di primo grado; lo ha fatto
sottolineando  come  la  sentenza  di  primo grado sia ordinariamente
frutto  della  diretta  raccolta  da parte del giudice delle prove in
contraddittorio  mentre  quella d'appello e' il risultato di una mera
verifica critica degli atti gia' raccolti e tenendo anche in conto il
nuovo  precetto costituzionale della ragionevole durata del processo.
Tale   orientamento  troverebbe  giustificazione  nel  diverso  ruolo
esercitato nel processo dal pubblico ministero (parte pubblica dotata
di  potere)  rispetto  all'imputato  (soggetto privato che subisce il
processo),   secondo   quella  stessa  sottolineatura  che  la  Corte
costituzionale aveva fatto nella sua ordinanza n. 421/2001 citata.
    Senonche'  tale  auspicata  riforma  non  pare  trovare copertura
costituzionale   nell'attuale   formulazione   dell'art. 111.2  della
Costituzione:  non  vi  e'  dubbio,  infatti,  che qui il legislatore
costituzionale  abbia ricompreso nella dizione di parti del processo,
cui va riconosciuta in generale condizione di parita', anche il p.m.,
organo  cui  spetta  fisiologicamente  nel processo penale l'onere di
provare  il  thema decidendum; aver contestualmente previsto da parte
dello  stesso  legislatore costituzionale, nei commi 3 e 4, una serie
di   regole   di   garanzia   riguardanti   unicamente  la  posizione
dell'imputato (ragionevole durata del processo, informativa sollecita
delle  indagini,  effettivo esercizio del diritto di difesa che trova
oggi   attuazione   anche   nel   potere   di   indagine   difensiva,
inutilizzabilita'  di accuse non confermate nel contraddittorio) pare
dare  gia'  risposta  adeguata,  nel presente assetto costituzionale,
alle allegate esigenze di riequilibrio fra i diversi poteri posseduti
nel  processo  da  p.m.  e  imputato. Altro argomento che rafforza il
convincimento  della  Corte  circa  l'incostituzionalita' della nuova
disciplina  sta  nella  ingiustificata  disparita' di trattamento che
penalizzerebbe  il p.m. nei confronti della parte civile impedendogli
il  mezzo  di  impugnazione  dell'appello  quando  invece  questo  e'
conservato  dalla  novella  per  la parte privata: la riforma, al suo
art. 6,  ha soppresso l'inciso «con il mezzo previsto per il pubblico
ministero»  gia' contenuto nel testo dell'art. 576 c.p.p., e cio' non
esclude  la  parte  civile  dal  potere di appello, se e' vero che la
stessa  riforma  non  modifica  l'art. 75  c.p.p.  che  stabilisce il
principio  del trasferimento dell'azione dal processo civile a quello
penale  (conservando  dunque gli istituti processuali civilistici fra
cui  appunto  l'appello) e non modifica neppure l'art. 600 c.p.p. che
consente  alla  parte  civile  di  far  valere  davanti alla Corte di
appello  un subprocedimento che e' mera anticipazione del giudizio di
merito.
    D'altra  parte  la  riforma,  sopprimendo  l'inciso «con il mezzo
previsto  per  il pubblico ministero» ha inteso cosi' rispondere alla
osservazione  critica  formulata  dal Presidente della Repubblica nel
suo  rinvio  alle  Camere  del  testo  originario  che  aveva appunto
lamentato  la  compressione dei diritti della parte lesa; e dunque va
senz'altro  riconosciuto  che  il Legislatore abbia inteso conservare
con la riforma alla parte civile il potere di impugnare nel merito le
sentenze di primo grado.
    Dunque: secondo la riforma, l'organo privato d'accusa si vedrebbe
riconoscere   poteri  di  impugnazione  maggiori  rispetto  a  quelli
assegnati    all'organo   pubblico   di   accusa.   Cio'   lede   per
irragionevolezza  il  criterio  di  parita'  delle parti nel processo
giacche'   non   e'   dato   comprendere  perche'  dovrebbero  essere
maggiormente  garantiti  i  diritti  al risarcimento dei danni di una
parte   privata   rispetto   a  quelli  vantati  dalla  collettivita'
attraverso  la  pretesa  punitiva  dello Stato esercitata dal p.m. in
quanto   organo  teso  a  realizzare  gli  interessi  generali  della
giustizia.
    Infine,   e'  stato  detto  che  la  medesima  legge  n. 46/2006,
modificando la formula di condanna con l'introduzione del presupposto
del  non  travalicamento  del  ragionevole  dubbio,  avrebbe di fatto
spostato  la  prospettiva  di azione costituzionale del p.m. il quale
oggi,  anche  in  base al principio di non colpevolezza dell'imputato
fino alla sentenza definitiva di condanna, dovrebbe prendere atto che
una  sentenza di proscioglimento pronunciata in primo grado e' di per
se'  rappresentativa  di  quel ragionevole dubbio che ne impedisce un
ribaltamento in forma di condanna.
    La  Corte non condivide tale impostazione: la stessa Costituzione
all'art. 111  stabilisce  che  tutti  i provvedimenti giurisdizionali
devono  essere  motivati,  e in cio' il nostro sistema processuale si
differenzia  nettamente  da quello anglosassone. Cio' comporta che la
portata  delle decisioni giurisdizionali non possa essere limitata al
mero  dispositivo,  ma  che  esso  valga solo in quanto supportato da
adeguata   motivazione.   Sicche'  il  significato  del  concetto  di
ragionevole  dubbio  non puo' discendere automaticamente dal semplice
dictum   della  sentenza  di  primo  grado  ma  deve  necessariamente
articolarsi  e  confrontarsi  con  l'apparato  argomentativo  che  la
sorregge.  Il  che  significa  proprio  riconoscere  piena ed attuale
dignita' alla pretesa del p.m. di vedere quell'apparato argomentativo
sottoposto  ad  un  nuovo  esame  di  merito  da  parte di un giudice
superiore.
    La  presunzione  di  non  colpevolezza  dell'imputato  e'  infine
concetto  che non confligge affatto con tale impostazione giacche' la
pretesa di essere ritenuto innocente fino al giudicato (pronunciato a
seguito  di  regolare  processo)  non sottrae affatto di per se' alla
verifica circa la condivisibilita' o meno della decisione assunta dal
giudice di primo grado.