LA CORTE DI APPELLO

    Ha  emesso  la seguente ordinanza nel processo a carico di Bousso
Serigne   Mboussobe,   nato  a  Touba  (Senegal)  il  4  marzo  1960,
domiciliato  in  Sassari, largo Macao, 22; irreperibile; imputato del
delitto  di  cui all'art. 482 c.p. perche' formava una ricevuta della
Confartigianato  sezione  di  Bari  -  facendone  uso per ottenere la
regolarizzazione del soggiorno in Italia.
    In Sassari, in data antecedente e prossima al 31 dicembre 1998.
    Ritenuto  che  il Bousso con sentenza 7 luglio 2004 del Tribunale
di  Sassari  e'  stato  mandato  assolto dal reato a lui ascritto per
insussistenza  del fatto, e che contro questa pronuncia ha interposto
appello il procuratore generale in Sassari;
    Ritenuto  che  a norma dell'art. 10, della legge 20 febbraio 2006
n. 46  questa  corte dovrebbe dichiarare inammissibile l'impugnazione
proposta,   e   che   tuttavia  il  p.g.  dubita  della  legittimiia'
costituzionale della normativa introdotta con la legge cennata;

                            O s s e r v a

    Il  p.g.  ha  notato che, a seguito della entrata in vigore della
legge  20  febbraio  2006 n. 46, applicabile, a norma dell'art. 10 di
essa,  anche  ai  procedimenti  in  corso, il gravame del procuratore
generale  dovrebbe  essere, con ordinanza inoppugnabile giusta l'art.
10.2  della  legge  citata,  dichiarato inammissibile avendo l'art. 2
della    medesima   legge   reso   inappellabili   le   sentenze   di
proscioglimento,  e  che  tuttavia, essendo ravvisabile contrasto fra
gli  articoli  1,  2  e 10 della legge n. 46/2006 e gli artt. 3 e 111
della  Costituzione,  la corte dovrebbe rimettere gli atti alla Corte
costituzionale;
    I   profili   di  incostituzionalita'  proposti  dal  procuratore
generale   sono   non  manifestamente  infondati:  l'art.  111  della
Costituzione  garantisce  il  principio della parita' delle parti nel
processo,  e  questo  principio, nella previsione costituzionale, non
soffre  di  eccezioni  di  sorta (come invece puo' avvenire per altri
principi, come quello della formazione della prova in contraddittorio
pure   stabilito   dal   medesimo   art.   111).  L'esclusione  della
possibilita'  che  il  pubblico  ministero  possa  gravarsi contro le
sentenze   di   proscioglimento  con  lo  stesso  mezzo  riconosciuto
all'imputato  avverso le sentenze di condanna comporta l'introduzione
nel   sistema   delle  impugnazioni  di  una  evidente  irragionevole
disparita'  di  trattamento che contrasta con il richiamato principio
della parita' delle parti nello svolgimento del processo.
    Giustamente  ha  poi  osservato  il p.g. che questo enunciato non
confligge   con   le   ripetute   pronunce   negative   della   Corte
costituzionale  chiamata  ad  esprimersi  sulle limitazioni al potere
d'appello  del  pubblico  ministero stabilite dall'art. 443.3 c.p.p.,
essendo    le    disparita'    derivanti   da   questa   disposizione
ragionevolmente giustificabili alla luce del risultato perseguito con
il ricorso al rito abbreviato e delle peculiarita' di questo.
    Il  risultato  e'  quello  della  rapida definizione dei processi
penali  conseguita  attraverso  la  decisione del processo solo sulla
base del materiale probatorio raccolto dalla parte pubblica fuori del
contraddittorio,    e   pertanto   con   una   correlativa   rinuncia
dell'imputato  ad  intervenire  nel delicato momento della formazione
della  prova,  in  vista  del miglior trattamento sanzionatorio a lui
riservato  in caso di affermazione di responsabilita'. E tuttavia, se
in  un  quadro  siffatto e' parso ragionevole limitare la facolta' di
impugnazione  del pubblico ministero quanto alle sentenze di condanna
(e   pertanto   in   relazione   alla  quantificazione  della  pena),
altrettanto  non  pare proprio possa dirsi in relazione alle sentenze
di  assoluzione, pur pronunciate a seguito di rito abbreviato, stante
il  perdurante  interesse della parte pubblica all'accertamento della
verita'   (e   quindi   della   responsabilita'   dell'imputato   che
dall'acclaramento  della verita' possa risultare), come d'altro canto
dimostra  il  fatto  che  e'  stata conservata al p.m. la facolta' di
appellarsi  contro  le sentenze di condanna che modifichino il titolo
del  reato.  A  proposito  del generale interesse del p.m. a proporre
appello  contro  le  sentenza  di proscioglimento si ritiene conservi
piena  validita'  il  richiamo contenuto nel messaggio del Presidente
della Repubblica alle Camere la' dove si osserva che «la soppressione
dell'appello  delle  sentenze  di  proscioglimento  ... fa si' che la
stessa  posizione  delle  parti  nel  processo  venga ad assumere una
condizione  di  disparita'  che  supera  quella  compatibile  con  la
diversita'  delle funzioni svolte dalle parti stesse nel processo. Le
asimmetrie  fra  accusa  e  difesa costituzionalmente compatibili non
devono  mai  travalicare i limiti fissati dal secondo comma dell'art.
111 della Costituzione».
    Degne  di piena approvazione appaiono poi le notazioni svolte dal
procuratore generale in risposta alle obbiezioni che potrebbero farsi
alla  sua  tesi  e  secondo  le  quali la soppressione della facolta'
d'appello   del   p.m.   contro   le   sentenze   di  proscioglimento
risponderebbe  ad  esigenze  di celerita' del processo, e sarebbe per
altro  verso coerente con la presunzione di innocenza dell'imputato o
con  il  precetto per il quale la colpevolezza deve essere dimostrata
oltre ogni ragionevole dubbio. Quanto alla prima di tali osservazioni
giustamente  si  e'  ricordato che le esigenze di celerita' non hanno
impedito  la  conservazione  della  facolta'  di  cui  all'art. 443.3
c.p.p., e che, al contrario, saranno proprio le esigenze di celerita'
ad  essere  sacrificate  quando, nel caso di accoglimento del ricorso
per  cassazione  proposto dal p.m. contro la sentenza assolutoria, il
processo   ritornera'   in  primo  grado  con  la  prospettiva  della
celebrazione  (anche)  del  giudizio  d'appello  in  caso di condanna
dell'imputato.  Il principio di non colpevolezza implica soltanto che
le  conseguenze pratiche della condanna possano discendere solo dalla
sentenza  definitiva, e nessuna conseguenza puo' trarsi da esso circa
l'iter per il quale si debba pervenire al giudicato.
    Quello  per  il  quale la colpevolezza puo' essere affermata solo
quando  sia  provata oltre ogni ragionevole dubbio sembra, invece, in
questo  caso,  un  principio  di  lettura  equivoca,  posto che se si
sostiene  la  inappellabilita' della sentenza con la quale un giudice
abbia pronunciato assoluzione poiche' l'eventuale successiva condanna
non  potrebbe  essere  pronunciata  fuor  di ogni ragionevole dubbio,
potrebbe  altrettanto  legittimamente sostenersi che sarebbe del pari
inutile un giudizio d'appello contro una sentenza di condanna che, ad
esito  di un processo celebrato in condizioni di parita' delle parti,
sarebbe  pronunciata  sulla  scorta  di  prove  che dimostrino con la
stessa sicurezza la colpevolezza.
    Che  poi  l'esclusione  della  appellabilita'  delle  sentenze di
proscioglimento   da   parte   della  accusa  pubblica  sia  coerente
all'esplicazione  dei  diritti  della  difesa  e'  stato  giustamente
contestato  dal  procuratore generale osservandosi che insopprimibile
funzione  del  processo  penale  e'  quello  dell'accertamento  della
verita',  e tale prospettiva deve essere perseguita nel rispetto dei,
piu'  che  giusti,  diritti  della  difesa  da  far  valere  tuttavia
nell'ambito del processo e non nel senso che il confronto fra le tesi
debba  essere  evitato  (in  altri termini deve potersi esercitare la
difesa  nel processo e non gia' dal processo). Nessuno dubita che nel
giudizio   d'appello   l'imputato   debba   poi   godere   del  pieno
dispiegamento  dei diritti che la legge giustamente gli riconosce: ma
non  si  vede  in  che  cosa  la  celebrazione  del secondo grado del
giudizio di merito, sia pure ad istanza del pubblico ministero, possa
compromettere  il  diritto  di  difesa  (diverso  sarebbe  se  ci  si
appellasse  al  principio del favor rei, che pero' vale nei soli casi
in cui la legge faccia ad esso riferimento e non risulta essere stato
ricompreso fra quelli garantiti dalla Costituzione).
    A  tutte le notazioni svolte dal procuratore generale, che questa
corte condivide e fa proprie, puo' aggiungersi che il contrasto delle
disposizioni  denunciate  rispetto  all'art.  111 (ed anche, a questo
punto,  all'art.  3) della Costituzione apparira' ancor piu' evidente
quando  si  osservi  che  nella  stesura  definitiva  della  legge 20
febbraio  2006, n. 46 alla parte civile e' stato invece conservato il
diritto d'appello avverso le sentenze di assoluzione (la genesi della
locuzione   del   secondo   periodo   dell'art.   576  c.p.p.  alinea
nell'attuale  formulazione persuade che l'impugnazione ivi menzionata
consista  nell'appello).  Si  deve constatare pertanto che alla parte
pubblica,   portatrice  degli  interessi  rilevantissimi  su  cui  si
tornera'  tra breve, e' stato del tutto ingiustificatamente riservato
un  potere  di  impugnazione  piu'  ridotto  che alle parti private e
questo  dato,  indubitabile,  non  puo'  che far risaltare in maniera
ancor  piu'  evidente  il  vulnus subito, per effetto delle norme che
vengono  sottoposte  al  giudice  delle  leggi,  dal  principio della
parita' delle parti.
    Oltre   a   tutto   quanto   sopra   enunciato,   partendo  dalla
constatazione che gli interessi tutelati dal pubblico ministero sono,
in  uno  Stato  di  diritto,  apprezzabili  quanto quelli delle altre
parti,  compreso  l'imputato  (ed  in  realta',  per quanto le ultime
riforme  in  materia processuale abbiano avuto di mira soprattutto il
riequilibrio  della  posizione  dell'imputato  rispetto  a quella del
p.m.,  mai  l'importanza degli interessi tutelati attraverso l'azione
di  questo  era  stata  reputata sottovalente rispetto a quella degli
interessi delle altre parti), puo' ancora osservarsi che sottrarre al
pubblico  ministero  il  potere  di  appellarsi contro le sentenze di
assoluzione  o di proscioglimento significa rendere piu' difficoltosa
l'attuazione  della  ricerca  della  verita'  e,  quindi  la risposta
all'istanza  di giustizia propria della collettivita', istanza che e'
addirittura  pregiuridica,  posto  che  su  di essa si basa qualsiasi
civile  convivenza  nella  quale  si  voglia evitare che i consociati
siano tentati di ricorrere a forme private di giustizia.
    Di  questo  primario interesse della collettivita' e' espressione
la  previsione  dell'art.  112  della  Costituzione e, in definitiva,
anche  quella  circa  l'emenda del condannato sancita dal comma terzo
dell'art.  27  della stessa Costituzione: dalla lettura coordinata di
queste  due  norme  si  ricava  che  l'ufficio del pubblico ministero
(parte  pubblica,  e  quindi  tenuta  al  rispetto  di  comportamenti
ispirati  a  massima correttezza e moralita', oltre che onerata anche
della  ricerca  degli elementi favorevoli all'imputato) non e' quello
di ottuso persecutore degli incolpati, ma di soggetto che persegue il
compito,  della  cui primaria importanza si e' detto, di far si che i
soggetti  devianti  vengano  recuperati  ad  una  convivenza civile e
ordinata. E menomare i mezzi attraverso i quali l'azione del pubblico
ministero, nel rispetto del principio di parita' delle parti, si deve
esplicare significa in definitiva legiferare in contrasto, anche, con
le due previsioni costituzionali ora richiamate.
    La  corte,  riconosciuta  pertanto  la non manifesta infondatezza
della   questione   di   legittimita'  costituzionale  sollevata  dal
procuratore   generale  e  ritenuto  di  dovere  sollevare  d'ufficio
l'ulteriore    questione   di   legittimita'   costituzionale   sopra
illustrata,   riconosciuta   la  impossibilita'  di  addivenire  alla
decisione  del  processo sottoposto al suo giudizio indipendentemente
dalla risoluzione delle cennate questioni (l'applicazione delle norme
denunciate  impedirebbe  infatti  la  definizione del processo con il
possibile  ribaltamento  della decisione di primo grado e la condanna
dell'imputato),   dispone  la  trasmissione  degli  atti  alla  Corte
costituzionale sospendendo il giudizio in corso.